giovedì 9 gennaio 2014

La mia Germania - Da un castello all'altro di Céline, di Francesco Biamonti


La mia Germania
 «Da un castello all'altro» di Céline

Francesco Biamonti


Basta guardare una foto di Celine, ciò che colpisce è un'aria da clochard, uno sguardo perduto, una colle­ra poetica. È la collera che lo ha portato a scrivere Vo-yage au bout de la nuit un grido feroce e disperato, in­cubo visionario imperniato sull'assurdità     della    vita umana. La letteratura del­l'assurdo venuta dopo (La nausea di Sartre, Lo stranie­ro di Camus) gli deve certa­mente qualcosa.
Ma ciò che caratterizza Celine è lo stile parlato e quel ritmo ch'egli chiamava la petite musique. «I miei li­bri sono stile, nient'altro, so­lo stile. È la sola cosa che bi­sogna cercare scrivendo. Chissà quanti hanno tentato di copiare il mio stile... ma non possono. È tutto ciò che ho, lo stile, nient'altro. Non ci sono messaggi nei miei li­bri, è un affare di Chiesa. Non ho messaggi da portare. I messaggi sono per gli altri. Montaigne,  Schopenhauer. Io non sono che un piccolo raccontatore di storie. Io la­voro. Sempre. È la mia vita.
Il foglio di carta bianca una è la mia  pietra  tombale: "Qui giace l'autore". Io non dor­mo. Ho preso una pallottola nell'orecchio nel '14-18. Non hanno mai potuto toglier­mela. Allora, la notte scri­vo».
Disperazione e stile, av­volti dal sarcasmo, su fondo di emozione. «C'è chi dice: "Al principio era il Verbo!". Fesserie! io dico: "Al princi­pio era l'emozione". Vedete l'ameba; vedete il bambino appena nato e che grida. L'e­mozione è la verità».
Per questa emozione, che secondo lui porta alla repli­ca, allo scherzo, al fiore del linguaggio, Celine ha coper­to di sarcasmi la Francia in ginocchio. Non ha collabo-rato con nessuno, ma i tede­schi gli hanno offerto spazio sui giornali e la maniacalità della contumelia lo ha per­duto. Per paura (aveva rice­vuto «tre piccole bare, dieci lettere di condoglianze, al­meno venti lettere di minac­cia, due coltelli a serramani­co, una piccola granata in­glese e cinquanta grammi di cianuro... si pensa a me nelle tenebre»), per paura e a ma­lincuore è fuggito a Baden-Baden, dove convergono di­plomatici tedeschi e colla­boratori di tutti i Paesi. È sua intenzione raggiungere la Danimarca, dove, prima della guerra, aveva messo il  suo oro ina cassetta di sicurezza. Ma non potendo la­sciare la Germania, raggiun­ge i collaboratori francesi ri­fugiati a Sigmaringen. Con lui è la moglie, e, dentro la ta­sca di un lurido giubbotto, il gatto Bébert.
Ora è riproposto da Einaudi Da un castello all'altro il resoconto del soggiorno che Celine fece in Germania fra il 1944 e il 1945. La nuova e bella traduzione è di Giusep­pe Guglielmi. E si attiene magistralmente allo stile fu­rioso e corrosivo del testo originale, ne restituisce le fantasmagorie e i processi verbali. Il mondo è quello della disfatta dei collabora­zionisti, di Lavai, di tutta la Francia di Vichy. Va da sé che per uno scrittore come Celine disfatta e catastrofe, freddo, bombardamenti, ignominiosa fuga sono una festa totale, un recul all'ago­gnato fondo della notte, da cui lanciare imprecazioni, lamenti, sarcasmi, maledi­zioni, tutto un vecchio re­pertorio popolare, memore di un defunto anarco-nichilismo. Quei giorni sono de­scritti con veemenza e ilari­tà. Descritti? Si fa per dire. Che tutto è visto a lampi, a squarci, a trasalimenti della memoria. È un grande incu­bo, una sinfonia percorsa da grida strozzate, da suoni rauchi di gola, da musichet­te che vengono dal fondo dei tempi. L'apocalisse è in mar­cia. Siamo sulle rive dell'A-cheronte, dov'egli aspetta amici e nemici per le sue ven­dette postume. Non manca­no i vagabondaggi nella sto­ria alla ricerca di una consor­teria di sventura, un astuto tentativo, in verità, di nobili­tare il suo destino. Compaio­no spartachisti, girondini, templari, giuseppisti (hidalgos collaborazionisti di Giu­seppe Bonaparte) tutti i massacrati, i vinti, carne da fucilazione. Esorcizza in qualche modo il suo destino, di cui sembra gioire. La sua è musica da sfacelo: Laval, Pétain menano la danza: mario­nette sinistre. Sono tutti nel brago, sotto le bombe, nelle stazioni sconvolte: generali, ammiragli, funzionar! politi­ci, donne dai capelli biondo cenere, «dotate per la troiaggine», profughe di ogni Pae­se, tedesche, francesi, litua­ne «gambe all'aria, bianche quasi argento». E cantano... Per così dire!
«Sono successe delle co­se... molte cose... vi racconte­rò...». Questo intercalare di Celine, questa chiusa nel pie­no della tensione fa venire in mente certi conteurs di pae­se. Quante volte li ho sentiti!
Si interrompevano all'im­provviso: «Non so pili mette­re in piedi la mia storia... Aspettate! "E partivano per deliri, per fantasie fuori del seminato. Solo che qui c'è poco da sorridere, la sara­banda copre fatti gravi, gra­vissimi, non escluso il crimi­ne. Ma che volete? La mente umana è piena di follia e spesso si corre con gioia la­mentosa alla propria perdi­zione, all'orgogliosa cerimo­nia funebre. Celine immagi­na di essere fucilato, arrosti­to, ghigliottinato (con Mauriac che lima la mannaia con pietà girondina). Ce l'ha con tutti, in definitiva: con Sar­tre, con Aragon, con Vailland che aveva giurato di uccider­lo, con Elsa Triolet, con Claudel, con Montherlant... I suoi nemici sono dappertut­to, dalla Costa Azzurra alla Scandinavia, nelle case editrici, nel bunker di Berlino. Non c'è infamia, d'altronde, di cui non si accusi e si cari­chi: ha venduto al nemico la linea Maginot e il porto mili­tare di Tolone.
Ma c'è un punto dolens ch'egli copre e di cui forse si vergogna, l'antisemitismo. Diventa sofista, giunge a dire d'aver lanciato agli ebrei in­giurie e rampogne per scon­giurare la guerra e il loro massacro. Strana, oscura ar­gomentazione. La sua arte qui non funziona; non riscat­ta, come si diceva una volta.

* * *

L'aspetto di Celine, da mendicante fuori del tempo, il sorriso tra ghiacciato e tri­ste, l'incapacità di finire una frase senza inceppare nel balbettio, destano simpatia. È un caso umano oltre che letterario. Ora in Francia se ne discute molto: sono appe­na uscite le sue Lettres à la Nrf, naturalmente piene di insulti a Gallimard e a Pau-lhan, che dopo la prigionia lo hanno spronato a scrivere e hanno cercato di aiutarlo. Ecco come ragiona della sua fatica in Da un castello all'al­tro. «Sono più in condizione, andiamo!... mi casca la pen­na!...» "Ma no, Céline... lei è in gran forma, invece!... l'età più bella! Cervantes!... Le in­segno niente!"... Il trucco di tutti gli editori per spronare i loro vecchi ronzini... che Cervantes era uno sbarbatello!... 81 calende!».
Odiato dagli uni, ammira­to dagli altri, la curiosità in­torno a lui  grande. Sono an­dati persine a far parlare il suo pappagallo, Toto. (Si sa che questi uccelli vivono centinaia d'anni). Attirato dal grano, dopo un lungo si­lenzio, Toto si decide e grida: «Gaston du pognon!» e in un grande battito d'ali: «Monsieur est absent». Ride nasa­le e dice ancora: «Paulhan, faux pédé». Passano dieci minuti e infine esclama: «La littérature se meurt!» (Mah! Sarà vero?).
Questa letteratura céliniana suscita ancora infinite di­scussioni, questo stile tutto parlato con frasi a filo spina­to, irte di esclamazioni e puntini di sospensione. Nes­suno ne nega l'importanza. È l'acuminato, eterno lamen­to; forse viene da Giobbe, certamente dalla letteratura maledetta. «O toi, le plus savant et le plus beau des An-ges... O Satan, prends pitie de ma longue misere!».
Per ciò che riguarda il suo mondo morale, ne ho sentite tante di opinioni, persino raffinate spiegazioni del suo antisemitismo. «Che vole­te?» mi diceva tempo fa Ber­nard Simeone, scrittore e ita­lianista. «Aveva bisogno di un grande nemico. E quale più grande nemico del popo­lo eletto, diretta emanazione di Dio? Si, era un grande scrittore, ma un uomo del­l'alto medioevo».

“il Giornale”, 12 novembre 1991

Grazie a Raffaello Bisso per la segnalazione!

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