sabato 30 maggio 2015

Dominique Venner: Céline e i pamphlet in Un samourai d'Occident



La virulenta polemica anticristiana di Céline*
di Dominique Venner

Considerato come il più grande scrittore francese del XX secolo, rinnovatore della lingua e dello stile, posseduto da una specie di delirio profetico, Louis-Ferdinand Destouches, alias Céline, costituisce un altro esempio di ribellione radicale. Gravemente ferito nel corso dei primi combattimenti del 1914, venne decorato e riformato. Avendo intrapreso studi di medicina, discusse la tesi nel 1924 sulla vita e le opere del Dottor Semmelweis. Entrato nel Servizio di Igiene della S.D.N., fu inviato in missione negli Stati Uniti, in Europa e in Africa fino al 1927. Cinque anni dopo pubblicò Voyage au bout de la nuit, accolta come un'opera letteraria capitale. Proprio come Léon Daudet ne l'Action française, l'intelligentsia di sinistra riservò un'accoglienza calorosa a un autore che sembrava appartenergli, ma il medico-scrittore era restio a ogni intruppamento. La pubblicazione di Mea culpa (1936), dopo un viaggio in U.R.S.S., mostrò che non si era lasciato ingannare dal paradiso sovietico. Questo libro consumò il suo divorzio con una sinistra che i comunisti dominavano. Presagendo una nuova guerra, Céline ne attribuì la responsabilità a una cospirazione ebraica. Uno dopo l'altro, pubblicò due pamphlet che lo fecero subito apparire come un rabbioso antisemita: Bagatelle pour un massacre (1937) e L'École des cadavres (1938). Vituperando la guerra e le carneficine future, denunciava a modo suo “la coalizione del capitalismo anglosassone, dello stalinismo e della lobby ebraica” il cui obiettivo (secondo lui) era di inviare al massacro la gioventù francese in una guerra franco-tedesca dove la prima non sarebbe intervenuta che dopo lo sfiancamento dei combattenti sacrificati.
In un genere abbastanza diverso, Céline pubblicò nel 1941un nuovo pamphlet, Les Beaux Draps, forse l'unica delle sue opere che riluca di un leggero alone di speranza. Accanto a una celebre tirata sul “comunismo Labiche”, consegnava una meditazione poetica sullo spirito della Francia, scritta nello stile delle ballate e dei virelais del XV secolo, non senza qualche zampata molto ingiusta data a Montaigne.
Questo libro curioso, dove l'antisemitismo, sebbene presente, è piuttosto sfumato, portava stavolta un furibondo attacco alla predicazione cristiana, ultimo rifugio del regime di Vichy che disprezzava: “Diffusa tra le razze virili, tra le razze ariane detestate, la religione di “Pietro e Paolo” svolse il suo dovere in modo ammirevole, ridusse in povertà, in sottouomini a partire dalla culla, i popoli sottomessi, le orde ebbre di letteratura cristica, lanciate smarrite rimbecillite alla conquista della Sacra Sindone, di ostie magiche, abbandonando per sempre i loro Dei di sangue, i loro Dei di razza... Ecco la triste verità: l'ariano non ha mai saputo amare, adulare che il dio degli altri, mai avuto una propria religione, una religione bianca... Quello che adora, il suo cuore, la sua fede, gli vennero forniti di sana pianta dai suoi peggiori nemici...” Nietzsche aveva detto la stessa cosa con altri termini.
L'opera venne proibita dai servizi di Vichy nella zona meridionale e suscitò le più vive riserve del Propaganda Abteilung...

* Da Un samourai d'Occident, traduzione Valeria Ferretti e Andrea Lombardi

venerdì 29 maggio 2015

"La morte di Céline" e i suoi céliniani irregolari!

Mandateci le vostre foto a ars_italia@hotmail.it e sarete pubblicati in questa gallery!
 




[testo del post sopra]
Questa ve la voglio raccontare. È una storia vera. Giuro.
L'altro giorno stavo finendo di bere una bottiglia di vino bianco, quando di colpo ho sentito un rumore fortissimo provenire dalla camera da letto. O almeno così ho creduto. Cioè il rumore era forte e ho creduto potesse provenire dalla camera da letto, ma forse mi ero sbagliato non so. Mi sono quindi fiondato in camera con una certa strana sensazione. Un inizio di infondata paura, dato che vivo al terzo piano e a quell'ora nessuno era in casa dato che i miei figli erano a scuola e mia moglie fuori a fare la spesa. Cosa mai poteva essere stato? Di certo pensavo più a un cosa tipo un animale, magari un uccello che ha sbattuto sul vetro oppure un oggetto magari l'asse da stiro piegato che per qualche motivo era caduto sul pavimento facendo tutto quel fracasso.
Insomma pensavo più a un cosa, giammai pensai a un chi.
Ma di colpo un altro rumore come di passi incerti mi raggiunse l'orecchio. Con un terrore da bambino che lascia un retrogusto di ferro in bocca e un lampo accecante negli occhi, presi il bastone della scopa e mi diressi verso la sala da dove arrivava quel rumore. Ancora adesso mi chiedo quale arcana forza mi mise in marcia verso l'ignota paura? Cosa ci spinge a volte verso un fastidioso è scomodo dovere resta per me un mistero, un mistero che nemmeno il concetto dell 'io devo' categorico Kantiano hai potuto convincermi. Ma questa è un'altra storia.
Quando svoltai dal corridoio alla sala non ero davvero preparato per quello spettacolo: al centro della sala, in piedi davanti a me si ergeva un'Uomo Ragno sovrappeso in evidente stato di imbarazzo. Notai subito la fronte imperlata di sudore che emergeva come un quadro impressionista dalla maschera che si era tirato su forse proprio per il troppo caldo patito o il troppo sforzo.

'E lei chi cazzo è?' Feci con una smorfia di rabbia, mista a paura diventata aggressività.
Il tipo mi guardò con faccia stupida, quasi delusa e poi mi disse 'ma non vede? Sono l'Uomo Ragno!'
Io cercavo di riprendermi da quello che per un attimo pensai essere uno strano brutto sogno, poi dissi la prima cosa che mi passava per la testa 'ah sì e cosa vuole da me?'
L'uomo ragno si rimise la maschera e mi fece 'voglio che tenga il segreto sulla mia identità, nessuno sa che consegno libri per Andrea Lombardi '.
Scoppiai a ridere, non so ancora perché, ma così feci. Mi risvegliai per terra dopo un sonno strano, pensando a uno strano sogno.

Che mi crediate o no, sul letto in camera trovai, assieme a un paio di occhiali e un ukulele mai visto, questo libro 'La morte di Céline' di Dominique De Roux.
Ne ho scattato una foto per dimostrarvi che non sono pazzo.
 






martedì 19 maggio 2015

"La morte di Céline" recensito da Adriano Scianca su Il Foglio e Primato Nazionale



 “È stato come non andarci per niente. / Céline era morto. / Non c’era nessuno / sedersi al tavolino di un caffè / era come attirare sguardi guardinghi dagli altri / clienti / tutti sicuri di essere / più importanti di / te. / Il cibo era troppo caro per mangiare. / Una bottiglia di vino ti costava / la mano sinistra. / Céline se n’era andato. / E Picasso stava morendo. / Parigi era il niente più assoluto”.
Dalla capitale francese, in realtà, il dottor Louis Ferdinand Auguste Destouches se ne era andato tanto tempo prima, ma la cosa non sembrava attenuare la delusione di Charles Bukowski, che in questi versi faceva dello scrittore l’essenza stessa di una città, di una nazione, di una letteratura e di un’epoca.
Paradossale, ma forse no, per uno che la bella società della Rive Gauche aveva scelto di osservarla da lontano, dalla sua casa di Meudon, che vagamente ricordava il Bates Motel di “Psycho”, ma dove non poteva esserci la stessa tensione perché a un certo punto faceva irruzione sulla scena questo vecchio scorbutico vestito da barbone che imprecava contro la moglie Lucette mentre dava da mangiare a Bébert, il gatto più famoso della letteratura francese, tenendo sulla spalla il pappagallo Toto.
È isolandosi dal mondo, odiandolo, maledicendolo che Céline è riuscito a rispecchiarlo. È imprecando contro la modernità che Céline ne ha creato la lingua. Proprio per questo, la morte di Céline ha a che fare con lo spirito del tempo.
La morte di Céline è anche il titolo di un bellissimo pamphlet di Dominique De Roux appena uscito in libreria (Lantana, pp. 135, € 16,00). Scritta come uno scintillante flusso di coscienza, céliniano ma non “à la Céline”, l’opera fu pubblicata in Francia nel 1966, contribuendo in maniera determinante a riaprire il dossier sull’autore del Voyage.
Pagina dopo pagina, scorrono fiammeggianti immagini apocalittiche: “Nell’assenza quindi di qualsiasi letteratura che divenga il destino mondiale, il nostro cammino va avanti, giorno e notte, tra cani e lupi, sui termitai di parole decadute, ripudiate dall’essere”.
La morte di Céline avvenne il 1 luglio 1961, in una giornata di caldo torrido, ma nessuno ne parlò, anche perché fece molto più rumore la fucilata che a poche ore di distanza si sparò Ernst Hemingway (“Ernie. Pensavo che ti fossi sparato un colpo di fucile da caccia”, recita maligno un altro verso di Bukowski). Il 29 giugno aveva terminato Rigodon. Due giorni dopo venne colpito da aneurisma e morì per la successiva emorragia cerebrale.
Viene sepolto non a Père-Lachaise, come aveva richiesto più per dar fastidio che per brama di pubblici onori, ma al cimitero di Meudon. Alle esequie ci sono quattro gatti, più un gatto vero e proprio che gironzola intorno alla tomba: Roger Nimier, Claude Gallimard, l’attrice in odore di collaborazionismo Arletty, e ovviamente Lucette. Ma nessuno di quelli a cui i romanzi di Céline avevano insegnato i rudimenti linguistici di quest’epoca di senso deflagrato.
Per De Roux, del resto, “Céline fu ucciso dai suoi colleghi scrittori; da questa consorteria di gentucola unita (in ogni epoca) per autocompiacersi del proprio talento e scacciare l’uomo libero, lo scrittore senza compromessi, colui che finisce in cella, in fin dei conti, per il suo rifiuto di appartenere a chicchessia”.
Contro questa mafia editoriale, Dominique De Roux lotterà per tutta la sua breve ma intensa vita (si spegnerà nel 1977 per problemi cardiaci). Suo nonno, Marie de Roux, era stato l’avvocato di Charles Maurras e dell’Action française. Suo figlio, Pierre-Guillaume, dirige oggi la casa editrice omonima che ha pubblicato il libro testamento di Dominique Venner e il sulfureo Elogio letterario di Anders Breivik, scritto da Richard Millet.
Proprio nel 1961, Dominique de Roux aveva fondato i Cahiers de l’Herne. Si imporranno grazie al terzo numero, dedicato appunto a Céline. Prima ce n’era stato uno su Bernanos, dopo ce ne saranno altri su Pound, Ungaretti, Lovecraft, Solgenitsin, Meyrink, Koestler, Péguy e Abellio. In seguito dialogherà con i poeti della beat generation e si accapiglierà con i marxisti di Tel Quel. Non farà in tempo a vedere le conventicole del mestiere letterario rinverdire la ferocia di un tempo, ma senza più bisogno di fingere di scrivere davvero. Ma questo è solo un colpo di fortuna.

Adriano Scianca
(articolo uscito sul Foglio di sabato 16 maggio 2015 e su Primato Nazionale il 17 maggio)