lunedì 18 febbraio 2008

Céline contro Sartre



Nel 1947 Louis Ferdinand Céline, dopo aver appreso dallo scrittore Albert Paraz che Jean-Paul Sartre, nel suo Portrait d’un antisémite (apparso su Les Temps Modernes nel dicembre 1945, e nell’ottobre 1947 ripreso da Gallimard nel volume Rèflexions sur la Question juive), aveva scritto: “Se Céline ha potuto sostenere le tesi socialiste dei nazisti, è perché era pagato”, scriverà in risposta À l’agité du bocal.
Il pamphlet sarà prima inviato a Jean Paulhan, che non lo pubblicherà, e quindi a Paraz, che lo riprodurrà in appendice al suo libro Le Gala des Vaches (L’Elan, 1948).
Inoltre nel 1948 ne fu tirata, a cura di alcuni amici di Céline, una edizione di duecento esemplari (À l’agité du bocal, Lanauve de Tartas, Parigi, s.d.).
Riportiamo le considerazioni di Pierre Monnier riguardo a Le Gala de Vaches e su Cèline, pubblicate sul n°217 di Europe-Amérique dell’11 agosto 1949:
Alla fine del ’48 uscì un libro straordinario, Le Gala des Vaches di Albert Paraz, che prendeva le difese di Céline con un coraggio senza precedenti. Per misurare il terreno percorso, occorre che la storia quotidiana dia conto di questo: otto grandi settimanali francesi rifiutarono la pubblicità (a pagamento) per Gala. Alcuni critici letterari osarono parlare di provocazione.
Un’amica d’infanzia di Céline, la grande Arletty, fu né più né meno minacciata di morte perché aveva accettato di vendere Le Gala des Vaches, che raccoglieva quaranta lettere di Céline, una delle quali contro l’aborto Sartre, “L’agité du bocal”!
Le librerie che avevano messo in vetrina quel libro vennero devastate. E da chi? Ecco il punto. Dagli ebrei? No! Molti ebrei sono fervidi ammiratori di Céline: Milton Hindus in America, Paul Lévy, direttore di Aux écoutes a Parigi.
Coloro che si oppongono a Céline sono semplicemente degli scalmanati comunisti o altri che rappresentano solo se stessi, che non hanno mai letto una sola riga dei suoi libri, che non sanno niente del suo caso. Sbraitano a più non posso perché Céline ha fatto le prime rivelazioni su ciò che accade in Russia con Mea Culpa e Bagatelle. Molto prima di Koestler, Gide e Kravčenko. Costoro, però, non vengono bistrattati come Céline. Perché? Perché lui ha genio!
La pirotecnica reazione di Cèline alla infamante - e falsa - accusa rivoltagli da Sartre, va collocata, per essere compresa a fondo, nel contesto storico delle epurazioni dei “Collaborazionisti” in Francia nel 1944-1949. Circa 40.000 francesi, che a vario titolo avevano avuto rapporti o con lo Stato di Vichy o con l’Amministrazione tedesca, svolgendo funzioni burocratiche, amministrative e intellettuali, oppure avevano militato in raggruppamenti politici o in unità militari, paramilitari o di Polizia furono condannati a pene detentive e privati dei diritti civili. Furono inoltre eseguite ben 7.037 condanne a morte, che colpirono anche gli intellettuali ritenuti rei di “collaborazione con il nemico”, come Robert Brasillach, Jean Luchaire e molti altri, mentre 10.000 francesi caddero vittima di esecuzioni sommarie. Ancora nel 1952, 2.400 francesi si trovavano in prigione con l’accusa di collaborazionismo.
L’epurazione degli scrittori “Collaborazionisti” sarà compito del Conseil national des écrivains (CNE), che stenderà, democraticamente, degli elenchi di libri e di autori “impubblicabili”. Anche uno scrittore pacifista come Jean Giono, che durante l’Occupazione scelse l’”emigrazione interiore”, fu messo all’indice e incarcerato.
Si capisce facilmente quindi che l’accusa di Sartre, uno dei più irremovibili persecutori degli intellettuali Collabos, poteva risultare molto pericolosa per Céline, vista la fine fatta dal ricordato Robert Brasillach, giustiziato tramite fucilazione il 6 febbraio 1945 nonostante una richiesta di grazia indirizzata a De Gaulle firmata, tra gli altri, da Mauriac, Claudel, Valéry, Duhamel, Paulhan, Cocteau, Colette…
In aggiunta a questo, il 19 aprile 1945 un Tribunale francese aveva spiccato un mandato di cattura per “Tradimento” contro Cèline, riparato in Danimarca, e, dal dicembre 1945 al febbraio 1947, Louis Ferdinand Destouches sarà incarcerato a Vestre Faengsel, passando diversi mesi in cella di isolamento.
Tornando alla Querelle Sartre-Céline, notiamo che, durante l’Occupazione, Céline sarà uno tra gli intellettuali che meno contribuiranno, tramite articoli o altri contributi, alle conferenze ed alle riviste collaborazioniste come Je suis partout, Au pilori e La Gerbe su temi quali l’alleanza tra Francia e Germania, la lotta contro il Bolscevismo ed il Capitalismo, l’antisemitismo…
Infatti, escludendo i suoi pamphlet, visto che sono stati scritti quasi tutti prima del 1940 (Mea Culpa, 1936, Bagatelles pour un massacre, 1937, L’Ecole des cadavres, 1938 e Les Beaux Draps, 1941), Céline, durante il 1941-1944, pubblicherà appena un solo articolo, venticinque lettere e tre interviste. Da notare poi come la diffusione di alcuni dei suoi libri sarà in più occasioni ostacolata tanto dalle autorità di Vichy (come nel caso de Les Beaux Draps) quanto dai tedeschi (anche se Céline avrà degli alleati in Karl Epting, direttore dell’Istituto tedesco di Parigi, e nell’ambasciatore Otto Abetz), mentre, paradossalmente, come ricorda anche Cèline nell’Agité du bocal, il “Resistente” Sartre metterà in scena il suo dramma teatrale Les Mouches, allegoria dell’Occupazione nazista… nel giugno 1943, in piena Occupazione, al Théâtre de la Cité!

Tratto da:
http://lf-celine.blogspot.com/2008/01/contro-sartre.html

Louis Ferdinand Céline

Contro Sartre. A' l'agitè du bocal.

Seguito dalle lettere di Céline al "Je suis partout" e dallo scritto Viva l'amnistia, Signore!

Introduzione a cura di Andrea Lombardi.

Edizioni Effepi, 50 pagine, f.to 14x21, 10,00 euro.

Richiedere a: ars_italia@hotmail.com

giovedì 14 febbraio 2008

O Bu! Osteria del Canale






O Bu... Osteria del canale


Siamo in un’osteria. E’ L’alba.

Un uomo -un morto di fame di nome Robinson - è stato ucciso poche ore prima dalla sua amante.

Bardamù, un dottore suo amico racconta la storia della loro amicizia, le difficoltà di entrambi, la ricerca d’un miglioramento che tarda ad arrivare.

Il romanzo “Viaggio al termine della notte” usci nel 1928.

Nel romanzo, un ragazzo seduto al bar, dopo un paio di birre, incautamente s’arruola volontario per la prima guerra mondiale.

Ferito in battaglia, riformato; tenta l’avventura deludente della colonia d’africa, si disumanizza nelle catene di montaggio della Ford; si laurea in medicina ed esercita la professione nella periferia parigina; diventa direttore d’una clinica psichiatrica.

In questo percorso gli è spesso a fianco un amico che invece non riesce a staccarsi dal suo destino di disoccupato ed emarginato cronico.

“il viaggio al termine della notte è romanzo potentemente comico, in cui farsa e tragedia si mescolano continuamente, in cui la rappresentazione dell’abiezione non frena semmai esalta la forza grottesca in un divertimento più forte dell’incubo”

Riduzione e messa in scena Alessandro Cavoli

Durata 1 ora

Spazio scenico oscurabile, minimo 4x4 m.

Luci Potenza 5 kw

Lo spettacolo può essere rappresentato in teatri o spazi alternativi.

Contatti: Alessandro Cavoli

Tel.Cell. 340 2933250

rigodonensemble@libero.it


mercoledì 6 febbraio 2008

Louis-Ferdinand Céline intervistato da Louis Pauwels e André Brissaud, primavera 1959



Louis-Ferdinand Céline
Intervista con Louis Pauwels e André Brissaud
Primavera
1959

Quando si arriva davanti alla casa di Louis Ferdinand Céline a Meudon, la prima cosa che si nota è questa insegna [Lucette Almansor, Danza Classica, NdC]. Lucette Almansor è la moglie di Louis Ferdinand Celine. Ha attraversato con lui una serie di sofferenze. Lei sa che è difficile vivere con un genio. Nascosta tra le foglie, c’è la targhetta del Dr. Destouches. Louis Ferdinand Céline si chiama in realtà Destouches. Lui è un dottore, è il dottore dei poveri. Sempre pieno di collera e avvolto di miseria. Eccolo − i suoi unici amici sinceri sono dei cani bastardi e rabbiosi. Chiama teneramente ognuno di loro “il mio piccolo papà”. Il suo migliore amico è il pappagallo che sentirete fischiare durante la conversazione. Perché, in effetti, Céline vive, lavora e sogna in mezzo all’abbaiare furioso dei cani e ai fischi ironici di questo uccello. Il suo studio, che è anche il suo ufficio, si trova al pianterreno. Che strano ufficio! Sulla sua scrivania scrive, dall’alba al tramonto, un libro che sarà composto di 2.500 pagine manoscritte. Copre con la sua scrittura 80.000 fogli, che poi attacca con mollette da biancheria. Quasi non mangia e beve, non fuma, dorme pochissimo. Lavora.

Intervistatore: Louis-Ferdinand Céline, siete uno strano personaggio. Eccitate gli animi delle persone con le vostre opere, le vostre idee ed attitudini. Spesso affermate di non essere ben compreso. Ora lei ha l’occasione di farsi comprendere meglio. Se dovesse autodefinirsi con una parola, cosa direbbe? Céline: Eh Bene! Io lavoro, e non me ne frega nulla. Ecco esattamente quello che penso. La questione è che noi siamo i colpevoli della pubblicità. Perché è l’orrore del mondo moderno che produce la pubblicità. Dunque, io sto dalla parte della modestia. Quello che conta è l’oggetto. Questo conta: voi avete un apparecchio davanti a voi [appareil, nel filmato è un magnetofono, NdC]. Spero che sia magnifico. Ma, dopo tutto, il brav'uomo che l’ha inventato potrebbe aver avuto dei problemi. Magari era cornuto, o pederasta. Magari aveva la calvizie. O era un androgino. Magari aveva il mal di gola, non so. Ma il suo apparecchio funziona. È affidabile, non è vero? È un apparecchio che mi interessa. Ma a me, dell’uomo che l’ha fatto, non mi interessa nulla. I cambiamenti d’opinione, questi mi fanno arrabbiare.

I: Tra le vostre numerose stranezze, voi avete dei modi spiccatamente da parigino. Il vostro tono, le vostre maniere, le vostre reazioni, anche il vostro accento sono da parigino, meglio ancora, di un abitante dei sobborghi. Dove siete nato? C: Sono nato a Courbevoie Seine, il 27 maggio 1894.

I: Ci siete restato a lungo? C: Due anni. I: Due anni? C: Due anni, evidentemente. Me lo hanno detto perché, in fin dei conti, all’età di due anni non si hanno ricordi precisi.

 I: Cosa facevano i vostri genitori? C: Mia madre faceva la modista e rammendava pizzi. Ma gli affari non andavano bene a Courbevoie e così dovette chiudere il suo negozio. Poi partì ed andò da sua madre, a fare la commessa, in rue de Provence.

 I: E vostro padre? C: Mio padre era impiegato. Perché era laureato, mio padre! E allora aveva delle aspirazioni letterarie. Le aveva. Era un uomo istruito e sbrigava la corrispondenza della sezione incendi della Phoenix [una compagnia assicurativa, NdT] in rue La Fayette.

I: E dopo Courbevoie dove siete andato? C: Al passage Choiseul. Quello che aveva di bello il passagge Choiseul, all’epoca, era il troppo gas; c’erano 360 lampioni accesi dalle 4 di sera. Con tutti quei lampioni Auer funzionanti, eravamo tra il gas. Sono stato cresciuto sotto una campana di gas. I: A quel tempo, eravate un bambino molto dolce, molto affettuoso? C: Non ho avuto molte possibilità di essere dolce ed affettuoso: sono stato cresciuto a suon di ceffoni, perché servivano i ceffoni, perché era così; a quel tempo si veniva cresciuti a ceffoni e a “Zitto, sei un monello!”. I: Volevate bene a vostra madre? C: Eh, beh! Non mi sono mai posto la domanda. Tutto è passato in un… erano angosciati dal problema del cibo, proprio così, me lo ricordo; mi ricordo una cosa: non c’era mai più che una sola vetrina illuminata la sera con la luce a gas, perché, nell’altra, non c’era nulla, ne avevamo sempre una sola accesa, delle due, perché l’altra era vuota. Così non ti poni queste domande. Che ne so? Non avevamo dei complessi, no? Ci preoccupavamo del mangiare, di trovare qualcosa da mandar giù. Ah! Mi ricordo un’altra cosa, che mangiavamo le tagliatelle. Mangiavamo le tagliatelle. Perché? Facevamo una pentola di tagliatelle perché era il solo cibo – che bettola, la nostra – il solo cibo che si potesse cucinare privo di odore, perché i pizzi, soprattutto i pizzi antichi, trattengono gli odori. È per questa ragione che sono cresciuto con la fobia degli odori. Quindi, non c’era questione di carne, né di pesce, né di niente. Tagliatelle! Tagliatelle! Allora mia madre, povera donna, avevamo una scala, non è vero? Per salire i gradini – era inferma – il meno possibile, faceva una pentola di pasta. Mangiavamo pasta con un po’ di burro, ogni tanto, la sera. Sono stato allevato a pasta e miseria.

I: Al passage Choiseul c’era un po’ di verde? C: Neanche un po’. I: Eravate un ragazzino di Parigi che conosceva poco la natura, il cielo, l’aria pura. Come avete scoperto la natura? C: Al cimitero, a vedere la tomba di mia nonna, dopo che è morta. Al cimitero, e poi a piazza Louvois, perché c’era la mia scuola. Allora… vedete… perché là c’era la mia scuola.

I: Come andavate a scuola? Quali studi avete compiuto? C: Ho completato le scuole medie, sino al diploma.

 I: I vostri genitori che mestiere volevano faceste? C: L’ambizione di mia madre era che diventassi il direttore di un grande magazzino. Per lei non c’era niente di più prestigioso. Per quel che riguarda mio padre, non voleva che studiassi perché sarei rimasto povero, e lui ne sapeva qualcosa. I: Cosa vi ha fatto pensare di diventare medico? C: L’ammirazione che avevo per la medicina. I dottori, li trovavo meravigliosi.

I: Quando eravate giovane, pensavate fosse importante essere uno scrittore? C: Ah! Per nulla! Lo trovavo ridicolo. Mi sembrava una cosa di poco conto. Perché? Sarei stato solo uno tra i tanti. Questo, questo mi pareva straordinario. Che era poi quello che pensava mio padre.

I: Quando superaste l’esame di stato? C: Mi diplomai prima della guerra, nel 1912, ma ritirai il diploma solo dopo il 1918.

I: Ma nel tempo intercorso in attesa del ritiro dell’attestato e l’esame di stato, voi avete… C: Ho studiato sui libri di testo disponibili.

I: Cosa stavate facendo in quel periodo? C: Ero principalmente uno studente, un fattorino ed un apprendista. Ho lavorato per Lacoste, Raymond, Vackerner; dodici mestieri, tredici miserie, come dice il detto. Voglio dire che è che ho fatto molto. Mi son dato molto da fare. Ora, sono un invalido, qui, adesso.

I: Ma voi passaste il vostro primo esame di stato? C: Con il massimo dei voti! I: Perché abbandonaste improvvisamente gli studi per arruolarvi? In Viaggio al termine della notte, il vostro eroe si arruola a diciotto anni dopo aver ascoltato una marcetta militare. C: Ah! No, quello è un fatto inventato.

I: Vi arruolaste per patriottismo, per provocazione o per voglia di farlo? C: Certamente un po’ per voglia, ma anche perché sono un artista e quindi un po’ coglione. È sempre la stessa storia di… La trovavo meravigliosa, la vicenda di Reichshoffen [Céline si riferisce alle coraggiose − ma sfortunate − cariche della cavalleria francese durante la battaglia di Frœschwiller-Wœrth, il 6 agosto 1870; NdT], mi sembrava qualcosa di veramente ammirabile, devo dire. A rendere ciò più ammirabile di quanto non fosse in realtà, c’era anche il tono esaltato dell’epoca.

I: Il protagonista di Viaggio al termine della notte, Bardamu, scopre la realtà della guerra attraverso la paura. È stato detto di voi che non eravate coraggioso. Avete paura della morte? C: Oh, cazzo! Adesso, a ben vedere, sarebbe un sollievo.

I: Intendevo allora. C: Avevo ancora ragioni per vivere, no? Non avevo la stessa disposizione d’oggigiorno. Oggi, me ne frego, potrei suicidarmi all’istante, davanti a tutti. Verrebbe bene davanti alla cinepresa. Ma all’epoca, avevo ancora delle illusioni. Non delle illusioni, ma una pulsione di vita.
I: E voi volevate già essere medico? C: Sì, sempre. Molto! Molto! Molto!

I: Ma perché volevate essere medico? C: Ah, semplicemente perché ne avevo la vocazione.

I: Per rispetto di voi stesso? Per pietà verso gli uomini? C: No, per fare qualcosa nel campo della medicina; questo mi faceva piacere; questo mi ha fatto piacere per lungo tempo. Quando praticavo, e ora sono trentacinque anni, questo mi faceva piacere: di guarire un raffreddore, di curare una varicella, di dilettarmi con un morbillo. Lo facevo molto bene, mi prendevo cura anche del temperamento [si occupava anche dei problemi psicologici, NdT], non è vero? Lo so, io.

I: Vi interessa la sofferenza dell’uomo o la malattia in sé? C: Ah! No, la sofferenza dell’uomo. Io mi dico: se soffre, sarà ancora più cattivo del solito; si vendica e quella non è più sofferenza. Si sente bene! Bene! Molto bene! Mai stato meglio. Voilà!

I: Qual è il genere di persone che amate di più? C: I costruttori.

I: Quale detestate maggiormente? C: I distruttori.

I: Quali sono gli scrittori che sono più vicini a voi e quali invece vi sembrano gli antipodi? C: Mi interessano solo gli scrittori che hanno uno stile; se non hanno uno stile, non mi interessano. Ed è raro, lo stile, è raro. Ma le storie, ne è piena la strada: tutto è pieno di storie, ne sono pieni i commissariati, pieni i tribunali, piena la vostra vita. Tutti hanno una storia, mille storie.

I: Parlate di stile. Ma non c’è uno scrittore… C: Uno stile? Ah! Sì, signore. Ce ne sono uno, due, tre per generazione. Ci sono migliaia di scrittori, ma sono dei poveri pasticcioni… borbottano nelle loro frasi, ripetono quello che qualcun altro ha già detto. Scelgono una storia, una buona storia, e poi la raccontano. Per me questo non è per nulla interessante. Ho smesso di essere uno scrittore, nevvero, per diventare un cronista. Ho messo la mia pelle in gioco, perché, non dimenticate una cosa, la grande ispiratrice, è la morte. Se non mettete la vostra pelle sul tavolo, non avete nulla. Uno deve pagare! Quello che è fatto senza pagare, non conta nulla, vale meno del nulla. Allora, avete scrittori gratuiti. Al giorno d’oggi, ci sono solo scrittori gratuiti. E quello che è gratuito, puzza di gratuito.

I: Qual è l’emozione a voi più familiare? L’odio? Il disprezzo? Il disgusto? L’amore? L’amicizia? Quale dunque? C: Il lavoro. Io sono qui per lavorare. Sono un povero lavoratore. Come diceva Cartesio, non sono più geniale di altri, ma ho più metodo, giusto? Io, non ho che un metodo, ed è quello di prendere un oggetto e poi di plasmarlo. Voi conoscete questa mediocre imitazione della cultura greca, è quello che vogliono fare tutti. È come nella canzonetta: “Encore une autre. Dis donc, je t’en prie, encore un! Encore un! J’en ai une bonne!”. È così. Capite? Quando una cosa dura dieci minuti, e beh, allora, è la novità! É un affare di cinquecento anni, mille anni.

I: Qual è stata la gioia più grande della vostra vita? C: Eh beh, Dio mio, devo dirvi che non ne ho avuta molta. Non ho vissuto molte gioie, non sono un privilegiato. Confesso che sarò felice quando morirò, ecco la verità. Desidero morire nella maniera più indolore possibile, soprattutto che non abbisogni di cure, non ci tengo a soffrire.

I: Credete in Dio? C: No, non ci credo per nulla, no, no, non ci credo per nulla, no, no, no, no, non credo per nulla in Dio. Sono un positivista. Non chiederei niente di meglio che credere in Dio; sono certamente un mistico. Ma il buon Dio, eh beh! Dio non mi sembra che si interessi molto alle stesse cose che mi interessano; questo sicuramente no, no, no. Ma sono un mistico, sì, lo sono di certo.

I: Dite di non avere avuto delle grandi gioie nella vostra vita. Avete avuto delle grandi sofferenze? C: Ah! Sono stato servito, per un bel po’! Di queste, da quella parte, ne ho avute ed in abbondanza. Me ne sono toccate di tutti i tipi, davvero; di quelle, in verità, ne ho avute molte, molte… Non voglio insistere oltre, ma davvero, le ho viste di tutti i colori!

I: Soffrite quando pensate al fatto che molta gente dice, pensa o fa del male? C: Ah! No, me ne frega altamente. Non mi interesso alle persone, mi interesso alle cose, capito?

I: Ma credete nell’amore? C: Se si prende la vita come una cosa molto divertente, eh beh, allora, largo all’amore! E a tutta la sua volgarità. Ma, per esempio, io sono… io non amo ciò che è comune, no, ciò che è volgare. Voglio dire che una prigione è una cosa che si distingue perché la persona ci soffre, no, mentre la dolce vita di Neuilly è una cosa molto volgare, perché la persona là si diverte. È questa la condizione umana.

I: Ma voi, per i vostri libri, sembrate una figura profetica. Quale profeta dell’Apocalisse, pensate veramente che il cielo si oscurerà? Credete che la condizione dell’uomo peggiorerà? Diteci, se volete, come vedete il futuro prossimo. C: Se gli tutti gli uomini volessero non andare in guerra, è molto semplice, dovrebbero dire: “Non ci vado”. Ma hanno il desiderio di morire; è un desiderio, c’è una misantropia nell'uomo. Per esempio, quando vedete gli incidenti appena accaduti, non pensate che siano tutti involontari. C’è dentro di esso, c’è dentro qualcosa di perverso, ci sono persone che vanno davvero contro un albero. Apparentemente un brav'uomo non sale nella propria auto dicendo: “Vado a schiantarmi contro un albero”; ma il desiderio c’è, sì, e l’ho notato io stesso a più riprese, soprattutto tra i chirurghi, tra persone distinte. Li ho visti guidare le auto in una maniera sospetta. Tutti gli uomini della terra non hanno che da andare al governo e dire: “Sapete? Io non voglio andare in guerra”. Eh beh, allora non ci sarà la guerra. Se invece la mantengono, è perché lo amano, questo desiderio generale, questo desiderio di distruzione. Come diceva Montluc, maresciallo di Enrico IV: “Signori, e vostri capitani, che conducete gli uomini alla morte. Perché la guerra è questo…”.

I: Se voi doveste morire adesso, per volere divino, quale sarebbe il vostro ultimo pensiero? C: Ah beh: Arrivederci e grazie! Ah! Va bene così. Non vi auguro alcun male, ma Dio mio, occupatevi di voi stessi, così, io me ne sono occupato poco. Manco d’egoismo, è assai raro. Il mondo ne è pieno, no?...

E mentre Louis-Ferdinand Céline ritorna alla sua solitudine piena di furore e di visioni, proprio sopra la sua testa, al primo piano, dove lui non è mai salito, per tutto il giorno le allieve di Lucette Almansor danzano, danzano, danzano… danzano...

(traduzione Andrea Lombardi)

Lucette Almansor e Rigodon


Intervista a Lucette Almansor di Philippe Djian, 1969

Djian: Cos’è Rigodon?

Almansor: Rigodon è il seguito di Nord, poiché è terminato con la guerra. È ventuno giorni convulsi attraverso la Germania in fiamme, come dei ratti…

D: “Noi” sta a dire lei, Céline e Le Vigan?

A: No, in Rigodon Le Vigan appare pochissimo: ci ha lasciato dopo dieci giorni lasciandoci Bébert (il gatto). L’avevamo ritrovato a Baden-Baden, mezzo nudo… non sapeva dove andare, e lo prendemmo con noi. Andammo a Berlino al fine di ottenere un permesso per l’espatrio. Ci fu rifiutato. Quindi fummo inviati a Zornhof in un campo per obiettori di coscienza. Ci era stato vietato di muoverci, ma quando tutto fu bombardato, partimmo per trovare il Governo francese a Sigmaringen, per curare feriti e malati. Infine, in capo ad un anno, “tutto è esploso” allora abbiamo tentato di rifugiarci in Danimarca, Abbiamo dovuto attraversare tutta la Germania sino alla frontiera… È questo Rigodon.

D: Poiché Céline è morto qualche ora dopo aver terminato questo romanzo, quale è l’ultima immagine che ci lascia?

C: Rigodon termina con una sorta di delirio visionario; la Francia è invasa dai cinesi…

D: Per quale motivo Rigodon ha dovuto attendere sette anni prima essere pubblicato dalle edizioni Gallimard?

A: Céline non aveva avuto il tempo di ricopiare il suo manoscritto; delle parole più volte cancellate e una scrittura divenuta spesso difficile, a causa del suo braccio malandato, ci ha reso difficile il delicato problema della trascrizione.

Questo compito si è svolto in due tempi: ho innanzitutto consegnato il manoscritto ad un avvocato, il Dottor Damien, il quale si è dedicato ad un gravoso lavoro di decifrazione al quale si dedicava non appena ne aveva la possibilità; ma restava ancora da compiere un enorme e delicato lavoro. È con il Dottor Gibault che comincia la seconda fase di questa necessità; in effetti, rimaneva il problema della punteggiatura e di alcune parole che rimanevano incomprensibili. Fu soprattutto una questione di pazienza e di probità; non abbiamo cambiato, aggiunto o omesso nulla. Ma Céline mi aveva letto la maggior parte del suo libro; così abbiamo trovato alcune parole seguendo le rime… capivamo se quella certa parola cadeva bene…

D: Quando avete salvato il manoscritto di Rigodon dal vostro appartamento saccheggiato, le pagine erano ordinate?

A: Si, Céline le aveva numerate. Tuttavia abbiamo trovato qualche pagina doppia, ma non abbiamo trovato grandi difficoltà, la scelta era già stata fatta.

D: Céline aveva un metodo di composizione?

A: No, scriveva con il suo cuore, i suoi impulsi, e la sua formidabile voglia di dire qualcosa; era musicista nell’anima, e componeva come tale; disponeva le sue parole in una certa gamma per trovare la sua “piccola musica”. Spesso, rimaneva delle giornate, o dei mesi, su qualche riga. D’altronde, prima di arrivare alla versione definitiva, Céline ne aveva fatto dieci o venti che aveva gettato.

D: E questo furto di manoscritti del quale Céline ha parlato tanto? Ci si può aspettare di veder riapparire dei romanzi interi?

A: Sì. Gli sono stati sottratti almeno quattro o cinque manoscritti abbozzati, delle opere che erano al quarto o al quinto rimaneggiamento… la fine di Casse-Pipe, certamente, questo romanzo doveva essere completamente terminato, penso. Ma un gran numero di questi documenti riapparirà alla mia morte. Personalmente, mi resta una quantità abbastanza grande di lettere di Céline, può essere che le farò pubblicare, ma non nell’immediato. D’altronde, la vita, per me, non mi interessa gran che. Quello che volevo, era di finire Rigodon; è per questa volontà che ho trovato le forze necessarie a portare a termine questo lavoro.

D: Ritorniamo un po’ indietro. Rigodon racconta la vostra fuga attraverso la Germania sino alla frontiera con la Danimarca. Cosa successe dopo?

A: Céline fu incarcerato a Copenhagen, restando due anni nel braccio dei condannati a morte; il ministro della giustizia lo rilascerà dopo aver letto La bella rogna, non trovandovi i motivi necessari per trattenere un uomo in prigione. Dopo, abbiamo passato cinque anni, su consiglio del nostro avvocato, nel pieno della foresta di Klarskovgard, presso Körsor, nella neve… una miseria totale… senza acqua, senza elettricità, con il pavimento in terra battuta…un paesaggio triste e selvaggio, completamente soli. Là, Céline termino Pantomima per un’altra volta, che aveva cominciato in prigione. In quei cinque anni, si comportò come un animale, chiudendosi in se stesso, e poi scriveva, quando ne aveva la forza. Era molto malato, aveva avuto la pellagra, perso trenta chili… ma era stato colpito soprattutto moralmente… Sapete bene che Céline esagerava tutto, ma, molte volte, la realtà era peggiore di quello che diceva… aveva due paia di guanti, mantelli all’infinito… e questo è durato cinque anni.

D: Sartre fa un omaggio a Céline in epigrafe alla Nausea. Sapete cosa ha separato in seguito i due uomini?

A: Sì, come epigrafe Sartre cita una frase di Céline in La Chiesa: “Bardamu è un ragazzo che non ha nessuna importanza collettiva, è solo un individuo”. Tuttavia, nei primi tempi, Sartre ammirava molto Céline, non ho mai compreso un voltafaccia così completo da parte sua. Céline ne fu molto colpito…

D: E Marcel Aymé?

A: Ah, Marcel è stato ammirevole; è stato di una pazienza e di una devozione straordinari… Per l’appunto, in un piccolo studio che ha fatto su Céline [apparso nei Cahiers de l’Herne], Marcel dice tutta la verità. Ha parlato del vero Céline e ha detto tutto.

D: Ma Céline, l’uomo che si è dato tanti volti, che ha voluto nascondersi dietro una falsa leggenda, chi era veramente?

A: Un uomo immensamente buono. Tutto ciò che ha fatto, lo ha fatto per il bene; amava la Francia, il suo paese, amava la gente in generale… era molto più tenero di quanto ci si immagini, ma non ne faceva mostra, ed è questa la vera tenerezza… ne è morto, d’altronde… E se a volte era un po’ duro con le persone, era perché si correggessero, non per altro. Non amava distruggere, e se rompeva qualcosa, era perché quella cosa gli sembrava inutile. Voleva creare… era un artigiano, senza alcuna vanità. Era pronto ad ammirare un altro, se costui dimostrava di saper lavorare tanto quanto lui. Quello che voleva, era del lavoro; pensava che non si “scavasse” mai abbastanza in profondità per trovare ciò che si cerca. “Restano alla superficie”, diceva parlando degli altri. Un solo pensiero… il lavoro… questo lato Medio Evo… era un osservatore… non un esibizionista… amava guardare, esaminare…

D: Come un medico, no?

A: Sì, d’altronde lo scrittore proviene dal medico… questo modo di vedere le cose… Avrebbe dato la sua vita per un malato, la sua vita non contava… la vita… non sopprimere la vita. Amante della vita. La sua passione: la giovinezza; adorava i bambini, gli animali, tutto quello che è giovane e nuovo… Scriveva per la gioventù, perché sapeva bene che non poteva più aspettarsi niente dagli uomini… che non l’avevano capito. Più tardi, può essere…

da Magazine Littéraire, Hors-Série 4, trad. Andrea Lombardi.

lunedì 4 febbraio 2008

Da un Céline all'altro



Da un Céline all’altro

di Lucien Rebatet

Quando un mattino dei primi di novembre 1944 il mormorio si sparse per Sigmaringen: “Céline sta arrivando”, era dal suo Kränzlin che il povero diavolo giungeva direttamente. Memorabile ricomparsa in scena. Con negli occhi ancora le immagini del viaggio compiuto attraverso la Germania bombardata a tappeto, egli portava un berretto di tela bluastra, come i fuochisti delle locomotive verso il 1905, due o tre canadesi sovrapposte, sporche e piene di buchi, un paio di guanti tarmati appesi al collo e, al di sotto di questi, all’altezza dello stomaco, in un tascapane, il gatto Bébert, che mostrava il suo musetto flemmatico di puro parigino che ne ha viste ben di peggio. Bisognava vedere, all’apparizione di un simile girovago, le espressioni dei militanti di base, dei piccoli miliziani: “É questo il grande scrittore fascista, il geniale profeta?”. Io stesso rimasi ammutolito. Louis-Ferdinand, alternato a Le Vigan, descriveva per interiezioni la diffidenza di Kränzlin, un paesino sinistro di crucchi intontiti che detestavano i franciosi, la carestia m mezzo ad un branco di oche e di anatre. Insomma, Hauboldt era venuto a tirarlo gentilmente fuori da quel buco e Céline, apprendendo dell’esistenza a Sigmaringen di una colonia francese, non voleva più soffermarsi altrove. Passata la prima sorpresa, gli facemmo festa. Lo credevo ormai finito per la letteratura. Qualche mese prima, nel suo Guignol’s Band non avevo visto che un’epilettica caricatura del suo stile (l’ho riletto questa primavera e l’ho trovato un capolavoro inenarrabile, Céline è sempre stato dieci, quindici anni avanti a noi). Aveva comunque un passato di grande artista e rimaneva un prodigioso veggente. Durante quattro mesi ci siamo visti ogni giorno, da soli o in compagnia di La Vigue e di Lucette, dotata di uno splendido equilibrio in quello sfacelo e nella scia di un forsennato del genere. Céline al di là della sua preveggenza circa pericoli e cataclismi effettivi, fu costantemente tormentato dal demonio della persecuzione, che gli ispirava incredibili espedienti e scappatoie per sventare le manovre di una moltitudine di nemici immaginari. In continuazione stava a meditare su indizi percettibili a lui solo, per giungere a soluzioni a volte aberranti e sagaci. Intorno a lui la vita si esaltava subito di quella sussultante stramberia che costituisce il ritmo medesimo dei suoi maggiori libri. Ciò avrebbe potuto rendersi presto insopportabile. Se non che la gaiezza del vecchio funambolo travolgeva tutto. Il “Governo” francese lo aveva nominato medico della Colonia, dove prestò la sua opera, non desiderando d’altronde altri titoli. Abel Bonnard, la cui madre novantenne stava morendo in una camera della città, non ha mai dimenticato la dolcezza con la quale egli ne assistette la lunga agonia. Nello stesso modo poteva essere un eccellente medico per i bambini. Durante gli ultimi tempi, nella sua camera all’hotel Löwen, trasformata in un asfittico tugurio (e pensare che era stato specialista in igiene) curava una serie di malattie caratteristicamente céliniane, un’epidemia di scabbia, un’altra di scolo miliziano, di cui tracciava sbalorditivi resoconti. Lo rianimavano peraltro l’uditorio francese, il nostro affetto, restituendogli tutto il suo brio. Sebbene si nutrisse di poco, il vettovagliamento lo ossessionava; collezionava prosciutti, salsicce, petti d’oca affumicati tramite il mercato nero. E per distogliere i sospetti su queste tesaurizzazioni, uno dei suoi ingenui artifici era quello di venire ogni tanto nelle nostre locande, all’Altem Fritz, al Baren per condividerne le razioni ufficiali, la Stammgericht, infame brodaglia di cavoli rossi e rutabaga, come se non avesse avuto altre risorse. E mentre lui mandava giù la sbobba, Bébert il “cancelliere” si sporgeva a metà del tascapane, sfiorava un istante il piatto con le sue diffidenti narici e riguadagnava infine la sua tana con dignità offesa. Occhio Bébert!”, diceva Ferdinand. “Si lascerebbe crepare, piuttosto che toccare questa porcheria... Probabilmente è più delicato, più aristocratico di noi, rozzi sacchi di merda! Che ci rimpinziamo e ci rimpinzeremo delle porcherie più disgustose. Per forza!” Poi, soddisfatto delle sue manovre, delle nostre risate, si catapultava in un inaudito monologo: la morte, la guerra, le armi, i popoli, i continenti, i tiranni, i negri, i Gialli, gli intestini, la vagina, il cervello, i Catari, Plinio il Vecchio, Gesù Cristo. L’ambiente da tragedia pressava il suo genio come il torchio di una vendemmia. Il vino céliniano zampillava ovunque. Noi stavamo alla sorgente della sua arte. E per raccogliere il prodigio neanche un magnetofono in quella Germania della malora! (Adesso da Grunding ne escono cinquantamila al mese, per registrare le ordinazioni dei pescecani sommersi nel sevo del “miracolo” tedesco). Nella vasta biblioteca del castello degli Hohenzollern, Céline aveva scelto una vecchia collezione della “Revue des Deux Mondes”, 1875-1880. Non la finiva più riguardo la qualità degli studi che vi trovava: “Questo é un lavoro serio... analitico, profondo istruttivo... Di buono stile, alla mano... Niente bla-bla”. É l’unica lettura sulla quale si sia mai trattenuto con me. Era estremamente preoccupato di dissimulare i suoi “maestri”, la sua “formazione”. Come se la sua originalità non ne fosse da sola una magnifica prova. Di tanto in tanto, quando passeggiavamo insieme senza testimoni, gli ritornava la stizza per la sua carriera bruciata, ma senza patetismi, in tono sgarbato: “Ti rendi conto? Da come ero partito... Se non mi fossi infervorato a voler proferire delle verità... La grana che mi sarei fatto... Il grande scrittore mondiale della “sinistrorsa”... Il cantore dell’umana sofferenza. Dell’assurda coglioneria... Senza aver nulla da imbellettare. Tutto nello sbellicamenlo, Bardamu, Guignol, Rigodon... Premio Nobel... Le misere palate di merda animale che sarebbero, Aragon, Malraux, Hemingway, dopo Céline... vincitore in partenza... Ah! dimmi dunque, dove non sarei mai arrivato... “Ma-aestro”... II Nobel... Miliardario... II Grande Scarac-chio... Dottore honoris causa... Vedi dunque!” Chiaramente non era proprio il caso di pensar d’impiegare Céline in una qualsiasi propaganda, hitleriana o francese. Io stesso, affatto indifferente ai rimpasti “ministeriali”, trascorsi l’inverno a consultare i libri d’arte del Castello e ad ampliare il manoscritto del mio romanzo Les Deux Etendards. Dovemmo questo privilegio in gran parte al nostro comune amico il caro Karl Epting, che aveva diretto l’Istituto tedesco di Parigi, autentico letterato europeo, rimasto inalterabilmente francofilo anche dopo i due anni di Cherche-Midi, di cui ha fatto le spese. Oltre a questa preziosa amicizia, Céline aveva acquisito la benevolenza di tutti gli ufficiali tedeschi; e bisognava che fosse molta affinché questi potessero chiudere le orecchie ai suoi sarcasmi. In quanto Louis-Ferdinand era senz’altro il più intollerante, il più sboccato tra gli ospiti forzati del Reich. Per tutto dire, non perdonava a Hitler il tracollo che lo cacciava a sua volta il simili pasticci. Era questo l’unico argomento in cui perdeva la sua beffarda filosofia, si faceva astioso, cattivo. Per reazione, per contraddizione, l’antimilitarista sanguinante del Vovage ricomponeva il suo passato, un’anima da patriota alla Dérouléde. Ah! se continuerò a sentirlo il ritornello delle sue gesta militari nelle Fiandre, “Maresciallo d’alloggio Destouches, volontario per un’operazione di collegamento attuata sotto un fuoco d’estrema violenza” e del disegno che l’aveva immortalato sulla prima pagina de “L’Illustré National”. “A colori... Sul mio morello... Al galoppo, la sciabola al vento... Dodicesimo corazzieri... Prima medaglia al valore militare sul campo della cavalleria francese... Sono io e non sono cambiato. Presente!... chi é che mi ha spedito la pallottola nell’orecchio? Non gli inglesi, né i russi, né i merigani... Non li ho mai potuti nasare, io, i crucchi. Di vedermeli ciondolare dappertutto come qui, gli sporchi Feldgrau sinistri, ne ho piene le narici, io, piene le scatole!” – “Non dimenticare però Louis che qui sono a casa loro!” – “Non me lo dimentico, non me lo dimentico. eh! Ohibó! É ben questa la ragione... Giustamente... Artigliarli, sul posto! Un’occasione di cui approfittare, non si ripresenterà... Dentro. I Fritz, tutti, i civili come i marmittoni. Al Lag, dietro i reticolati, tripla recinzione elettrica... Tutti senza distinzione. Ecco come la vedo, io, la loro Crucchia”. Schiumava, da tanto era furioso. A tal punto subdorava tranelli dietro gli inviti più cordiali, che deviava di un chilometro per evitare un’auto-mobile la cui targa gli sembrasse “non franca”; si rilassava invece davanti alle targhe tedesche con una voluttà che superava ogni prudenza. Per aiutarci Karl Epting aveva progettato d’istituire una Associazione degli Intellettuali francesi in Germania. Presso il Comune di Sigmaringen si era riunito un comitato. Céline vi era stato invitato al posto d’onore. Tempo mezz’ora lui l’aveva trasformata in una babilonia da cui niente era possibile cavare. Tuttavia la sera ebbe luogo una cena composta da un piatto unico a base di pesce e da una sfilza di bottiglie di vino rosso. Ghiotte di appetitoso spirito parigino, numerose autorità militari ed amministrative del Gau si erano fatte invitare. C’era addirittura un generale con tanto di croce di guerra al collo. Céline, che non beveva un goccio di vino, intavolò un accanito parallelo tra la sorte delle “spie”, che avevano trovato il modo di farsi sconfiggere, per rientrare però subito nei loro ranghi di bravi soldati e bravi cittadini, con la coscienza pulita, non dovendo rendere conto a nessuno ed avendo assolto il loro dovere di patrioti; e quella dei “collaborazionisti” francesi che avevano tutto da perdere, beni, onori e vita, in una simile impresa da fessi. Quindi Céline non vedeva più cosa gli potesse impedire di proclamare che la divisa tedesca l’aveva sempre avuta in antipatia e che altrettanto non era stato abbastanza ponderante per immaginarsi che sotto un’egida del genere la collaborazione non poteva essere che un terribile maleficio. Gli altri gradi militari presenti avevano però deciso di trovare la battuta eccellente, rallegrandosene assai, e quando Ferdinand andò a dormire, venne rimpianto. I tedeschi consentivano tutto a Céline, non certo per i suoi libelli, che conoscevano poco, ma perché per loro era il grande scrittore del Voyage, la cui traduzione era stata uno strepitoso successo. Lo stesso famoso colonnello Bömelburg, terribile bulldog del S.D. e capo della polizia di Sigmaringen, si era lasciato ammansire dell’energumeno. Bisognava bene che Céline fosse daltronde trattato come ospite eccezionale, per essere riuscito ad ottenere il fenomenale Ausweis militare, diplomatico, culturale ed ultra segreto, lungo un metro e mezzo, che gli permetteva, favore unico, di varcare le frontiere dell’Hitleria assediata. Egli non aveva fatto mistero in merito ai suoi progetti danesi; dato che per la Germania tutto era andato in fumo, desiderava raggiungere a tutti i costi Copenaghen, dove sin dall’inizio della guerra aveva affidato ad un fotografo di Corte il suo capitale di diritti d’autore convertito in oro; che questi aveva sotterrato sotto un albero del suo giardino. L’esistenza, il recupero o la perdita di questo rocambolesco tesoro non hanno mai avuto modo di essere verificate in seguito. Dunque verso la fine di febbraio o gli inizi di marzo si apprese che proprio Céline aveva ricevuto il mitico Ausweis per la Danimarca. Due o tre giomi dopo per la prima volta egli offrì un giro di birra, che lasciò peraltro da pagare al suo collega, il dottor Jacquot. Durante la notte ci ritrovammo sul marciapiede della stazione. C’erano Véronique, Abel Bonnard, Paul Marion, Jacquot, La Vigue, riconciliatosi con Ferdinand dopo la dodicesima discordia dell’inverno, e due o tre altri intimi. La coppia Destouches − Lucette sempre impeccabile, serena, accomodante − portava a braccia duecento chili circa di bagagli, senza dubbio le rimanenze dei famosi bauli, cuciti dentro due sacchi da marinaio ed appesi a delle pertiche, un vero e proprio equipaggiamento da savana, da Bambola-Bamagance. Un drittone, approssimativo infermiere, li accompagnò fino alla frontiera per aiutarli nel trasbordo, che si preannunziava come una faticosa epopea, attraverso quella Germania sbriciolata ed incendiata. Céline, con Bébert sull’ombelico, era visibilmente raggiante. Finite le “bombarde” e la rassegnata attesa del fantaccino in fondo alla trappola. Il nostro ricordo non lo angustierà. Il treno, uno di quei miserabili treni dell’agonia tedesca, giunse al binario con la sua locomotiva a carbone. Ci si abbracciò a lungo e si issò faticosamente l’equipaggiamento. Ferdinand dispiegava ed agitava un’ultima volta il suo incredibile passaporto. Il convoglio si mosse, come una ferrovia di Dubout. Noi altri restammo nell’infernale caldaia, con il cuore stretto. Ma senza gelosia alcuna. Se dovessimo proprio restarci, che almeno il migliore, il più grande di tutti noi se la scampi.

Traduzione di Moreno Marchi +