di Adriano Scianca
Dal Secolo d'Italia del 22 dicembre 2010
Ha scritto una volta Stenio Solinas: «Le cose più intelligenti e più profetiche sulla modernità le hanno dette e scritte proprio i non moderni e sono loro ad aver lasciato un'impronta, un segno di diversità. In poesia, nel romanzo, la rivoluzione l'hanno fatta i Pound, i Céline, gente che non sventolava la fiaccola del futuro, che andava avanti non per forza di inerzia o per bramosia del nuovo in quanto tale, ma perché aveva capito che era l'unico modo per potersi riallacciare all'antico, rimettere linfa in ciò che si era seccato».
C'è molta saggezza in queste parole. La modernità è come quelle donne che si concedono solo a chi le maltratta, sedotte dall'indifferenza, quasi dal disprezzo più che dal corteggiamento ossequioso, spudorato, scomposto.
È per questo che i più grandi moderni sono alla fin fine gli inattuali, ovvero coloro che col proprio tempo ingaggiano una lotta serrata, che è opposizione ma anche co-appartenenza a un medesimo spirito. Essere inattuali non è essere antimoderni, è essere moderni in un modo diverso. E fa bene Solinas a citare Céline. Così come fa bene Patrizio Paolinelli a iniziare il suo ultimo libro con le seguenti parole: «Consapevoli di dare un dispiacere a parecchi céliniani, purtroppo per loro Céline è un caso esemplare di uomo moderno. Tanto esemplare da non poterci ancora oggi liberare di lui». Meriterebbe attenzione anche solo per un incipit del genere, questo Nello specchio della modernità. Fotoritratti di Louis-Ferdinand Céline (Bonanno editore, pp. 227, € 19,00).
Il caro vecchio dottor Destouches e la sua immagine, quindi. Ma attenzione: il saggio di Paolinelli non è un libro fotografico. Qui l'immagine - la fotografia, in particolare - non ha importanza di per sé, come forma espressiva immediata, quanto piuttosto come mediazione tra l'uomo e l'artista, la persona e il personaggio, Destouches e Céline. Nessun disvelamento, beninteso: non si tratta di scoprire l'essere umano oltre lo scrittore come se questo fosse la maschera di quello. Ciò che è interessante, al contrario, è ciò che si muove sulla linea di confine, sempre in bilico fra l'uno e l'altro.
Che comunque non sono mai scindibili, mantenendo anzi un rapporto sempre opaco. Non c'è, insomma, un "vero Céline" oltre l'autorappresentazione che egli stesso ha dato di sé, oltre le trappole disseminate sul cammino, gli equivoci e le contraddizioni. Lo scrittore francese gioca con gli interlocutori e gli interpreti perché innanzitutto gioca con se stesso, fingendo continuamente. Finge di essere pacifista e reazionario, intellettuale e barbone, misantropo e generoso. Finge a tal punto che la finzione finisce per rappresentare la cifra della sua identità. Si capisce bene, allora, cos'è che abbia da dire a noialtri figli della morte di Dio e della malattia dell'uomo. «Céline - scrive Paolinelli - è un intellettuale della crisi del soggetto, un uomo in crisi con il mondo, inconsapevolmente in crisi con se stesso e che mette in crisi chi lo incontra», ma «dato che vivere in crisi (di qualsiasi tipo: familiare, finanziaria, psicologica, occupazionale...) è un'ovvietà per noi postmoderni, Céline permette di aprire una discussione sul nostro tempo». E, apriamo una parentesi, in questo sottile gioco che ondeggia fra identità e finzione si colloca anche quella che Marcel Aymé ha chiamato «la leggenda nera» di un Céline avido, astioso, misantropo e burbero. Leggenda, beninteso, che allo scrittore piacerà alimentare, anche e soprattutto nelle ultime, geniali interviste concesse controvoglia, sempre maltrattando l'interlocutore, sbocconcellando imprecazioni salvo poi non smettere più di parlare. Eppure Aymé ha potuto vedere nel dottor Destouches una «spiccata dirittura morale» che «favoriva in lui una generosità di spirito che gli esegeti non hanno ancora messo abbastanza in luce nella sua opera, ma che si è manifestata sempre lungo il corso della sua vita. Amava l'amicizia, e ha sempre dimostrato una rara fedeltà nei suoi affetti. Durante tutto l'esercizio della sua professione di medico, che ha avuto sulla sua opera letteraria una così grande influenza, ha dimostrato una devozione e un disinteresse ammirevole, sino alla fine della sua vita. Nei suoi ultimi anni, aveva, in effetti, aperto nella sua casa di Meudon un gabinetto medico, non tanto per lucro, ma per riprendere con la medicina un contatto che non fu solamente teorico. Si recava da lui qualche cliente povero, che non si decise mai a far pagare, e per i quali comprava di tasca sua le medicine. No, Céline non era un uomo dal cuore duro, al contrario. La grande e spontanea tenerezza che aveva per i bambini e per gli animali basta a testimoniarlo» (il testo di Marcel Aymé, "Su di una leggenda", è contenuto nel fondamentale Louis-Ferdinand Céline in foto, immagini, ricordi, interviste e saggi. Una biografia per immagini, a cura di Andrea Lombardi, Effepi Edizioni). Dentro la leggenda nera, oltre ma anche sempre attraverso di essa, si situa appunto l'argomento cruciale dell'immagine.
Le foto di Céline, in questo senso, offrono più di uno spunto. Soprattutto quelle che datano dagli anni del successo in poi. Ce n'è qualcuna fenomenale, dove la faccia da schiaffi dello scrittore emerge con potenza e prepotenza. Di tanto in tanto, ovviamente, spunta fuori qualcuno che prende alla lettera quello sguardo da manigoldo, da «maniaco introvertito», diceva Jünger. Commentando una foto del 1934, Antonio Moresco ha potuto scrivere che è «una foto che fa problema: uno dei più grandi scrittori del Novecento ha questa faccia da uomo losco, corrotto, cattivo, da brutta persona, da malavitoso che è meglio tenere alla larga. Com'è possibile che uno dei maggiori scrittori del Novecento abbia una faccia simile?». Si prende troppo sul serio, Moresco, e prende troppo sul serio Céline. Andrea Lombardi, del resto, ha avuto buon gioco nel rispondere che «la fotografia in questione è una tipica foto da studio, che mostra semplicemente Céline - reduce dal successo del suo libro d'esordio e dalla candidatura al Goncourt - che fissa l'obiettivo con aria sicura di sé. Ci pareva che Lombroso fosse passato di moda, particolarmente a sinistra». Ma, al di là di questi bassi affondi che scivolano sopra la reputazione di un uomo già abbastanza maledetto di suo, l'enigma dell'immagine di Céline resta. Paolinelli ne indaga i contorni distinguendo nella vita dello scrittore i momenti da insider (lo scrittore famoso e celebrato) e quelli da outsider (l'epurazione, la caccia al fascista, infine la povertà degli ultimi anni).
Non senza avvertire che queste categorie conservano sempre un fondo di opacità, sempre una tensione al reciproco ribaltamento. Da artista affermato, Céline mostra in genere un'attitudine sfuggente e infastidita rispetto all'obiettivo del fotografo. Sembra sempre essere altrove, concede costantemente il meno possibile di se stesso all'invadenza della macchina fotografica. Nell'ultima parte della sua vita, invece, finirà per darsi senza più resistenze. Non per l'indolenza del vinto o, men che mai, per una sua conversione interiore alle logiche della società dello spettacolo. Piuttosto per un uso calcolato e incredibilmente attuale dei media. Il Grande Reprobo non può più trattare con supponenza l'obiettivo del fotografo. Cerca allora di giocarlo, di recitare il ruolo del vinto. Lo è davvero, vinto, ma proprio nel momento in cui si espone come tale cessa di esserlo. «Per ricostruirsi una reputazione - scrive Paolinelli - Céline si piega alle richieste dei padroni dello sguardo ed eccolo trasformato in un personaggio da copertina. Ma non capitola». E la strategia di non capitolazione passa per l'accettazione dello zoo: la belva feroce è in gabbia e ora si farà fotografare per voi. Ci sono le sbarre di mezzo, effettivamente, ma non si è più sicuri di poter capire chi è dentro e chi è fuori dalla gabbia. «Céline ci ricorda ancora oggi che la libertà personale è un rischio. Ci ricorda anche che negoziando una porzione di indipendenza del proprio sé i mass-media possono essere usati nel momento in cui ci si lascia usare», spiega ancora l'autore di Nello specchio della modernità. Nel momento in cui lo si perdona perché sì, ha peccato, ma in fondo non vale più la pena di infierire, il dottor Destouches ha fregato tutti. Lo ha fatto in modo disonesto? Non più di ognuno di noi, non più di quanto finisca per esserlo, suggerisce Paolinelli, chiunque, ogni giorno, stringe una mano da qualche parte nel mondo e dà una rappresentazione sociale di sé. Quando nel 1957 appare ad Arbasino squallido e confuso, nella sua diroccata villetta di Meudon, non sta fingendo. Non è un calcolo a tavolino, non si è volutamente ridotto a vivere in miseria. È tutto vero. Ciò non vuol dire che egli non giochi anche a sovra-interpretare il ruolo del clochard per prenderci tutti in giro. Non sembra gli importi più di nulla, annota Arbasino. Eppure nello stesso anno torna a far parlare di sè come scrittore. Di nuovo il successo, quindi. Céline non è più un paria. Céline vi ha fregato ancora. Meglio: «Céline combatte l'inganno con l'inganno». Forse anche questa è una parte di quella «spiccata dirittura morale» di cui parlava Aymé. Moralità paradossale, certo. Ma forse, nella sua potenza di fuoco sulfurea e politically uncorrect, più sincera di quella dei suoi contemporanei (e dei nostri). Il napalm letterario sparso a piene mani da Céline è in fondo più vero e probabilmente più morale di tutti i sorrisi e le promesse dei "buoni" di ogni epoca. E lui ne era cosciente: «Quando saremo diventati morali esattamente nel senso in cui le nostre civiltà lo intendono, lo desiderano e ben presto lo esigeranno - diceva - credo che finiremo per esplodere anche di malvagità. A quel punto, per distrarci, non ci resterà a disposizione che l'istinto di distruzione». La finzione di Céline contiene in sé tanta di quella verità che oggi continuiamo ad avere bisogno di lui, circondati come siamo dalla vacuità spettrale di figure divorate dalle proprie immagini. Ci credono davvero, loro, ma non di meno restano intimamente false. Falene, a bout de la nuit.