... sull'onda (lunga) del successo dell'album di Vinicio Capossela:
L'opera di Céline in brevi schede bibliografiche, estratti, notizie e interviste.
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giovedì 15 dicembre 2011
domenica 21 novembre 2010
Vinicio Capossela e "Scandalo negli abissi"
mercoledì 2 dicembre 2009
Céline medico e bohemienne...
...di Romano Guatta Caldini, da "Il Fondo Magazine"
«Si adagia la sera su tetti e lampioni e sui vetri appannati dei bar» cantava Capossela nella sua Modì, la canzone dedicata ad Amedeo Modigliani e ai suoi anni folli a Montparnasse, il rifugio di «pittori ciechi, musicisti sordi, giocatori sfortunati e scrittori monchi», per citare Piero Ciampi, uno che la Parigi dei maudits l’aveva conosciuta bene. Da quelle parti, il cantautore livornese, durante uno dei suoi tanti vagabondaggi alcolici, conobbe uno strano personaggio, un uomo scontroso, come tanti se ne potevano trovare in giro per i bistrots. Solo tempo dopo, Ciampi seppe che quell’uomo era uno dei più grandi scrittori di Francia, forse il più grande; si trattava di Louis-Ferdinand Céline.
Quando avvenne l’incontro, tra l’autore di Adius e quello di Voyage au bout de la nuit, era la seconda metà degli anni ’50 del secolo scorso. Mentre per Ciampi, la vita fra le ambientazioni baudeleriane, rappresentò solo un excursus, per Céline, la vita da bohemienne parigino non era di certo una novità. Nel periodo fra il ‘26 ed il ‘30, infatti, l’esistenza di Céline aveva già iniziato ad assumere i tratti tipici del maledettismo. All’epoca, il futuro romanziere era solo un medico squattrinato, con il vizio della scrittura e perennemente circondato da amici stravaganti. Tra questi, il più caratteristico fu sicuramente il pittore Henri Mahé, una sorta di vagabondo della Senna, che viveva, nottetempo, su di una chiatta semovente. Abitazione mobile, che spostava a seconda dell’umore: «Ho sempre fuggito – dirà Mahé – la bohème alcolizzata degli artisti fossilizzati (…) io preferisco fare un salto da carpa nella Senna, è meglio per i miei gusti da aristoanarchico. » Certo, l’umore aveva il suo peso ma anche le retate della gendarmeria contavano, non poco, sulla dislocazione del barcone. L’artista, infatti, era solito dare ospitalità a prostitute, artisti dalla dubbia moralità e delinquenti di ogni sorta. In questo ambiente, Céline imparò il linguaggio spurio della mala, gergo che, tras-posto su carta, fece la fortuna del gatto randagio della letteratura francese, come lo ha definito Marina Alberghini, nel suo monumentale Louis-Ferdinand Céline – Gatto randagio, edito da Mursia.
Lo slang da strada, usato dal romanziere nelle sue opere, ha portato molti critici a dire che Céline sta alla scrittura, come il jazz sta alla musica. Ed era proprio il jazz a far ballare gli ospiti durante le feste in maschera date da Mahé sul suo barcone. Veri e propri baccanali presieduti da Céline, a suon di rigolade, termine difficilmente traducibile, una specie di risata dissacrante e strafottente, simile al me ne frego di mussoliniana memoria. Durante le feste era facile imbattersi in personaggi come Dréna, vedette del Marigny ed ex amante di Al Capone, la caritatevole Germaine Costant, il clown Baby il Magnifico ma anche personaggi più pittoreschi come il principe Alberto d’Urach. Una tribù folle e gioiosa, che cercava nell’ebbrezza della bohème, il modo per soffocare i ricordi, atroci, del primo conflitto mondiale. In questo periodo, Céline incontrò Joseph Garcin, un ruffiano che gravitava e trovava assistenza, presso artisti e letterati. A quest’ultimo Céline annunciò l’avvenuta composizione del Voyage: «Ho scritto un romanzo, qualche esperienza personale, messa nero su bianco, un po’ di follia anche, lavoro enorme… Su tutta la guerra, da cui nasce tutto».
Nel ’27 il romanziere aveva trovato domicilio a rue Lepic 38, a Montmartre, il quartiere che Utrillo, a suo tempo, fra un bicchiere e l’altro, rappresentò in tutta la sua devastante semplicità. Qui, in una cucina arredata alla bretone, Céline scrisse: «dalla rue Lepic si comincia a incontrare gente che viene a cercare della gaiezza sopra la città. (…) Essi si mettono a guardare in basso la notte che fa il gran vuoto pesante (…) Noi eravamo giunti alla fine del mondo, era sempre più chiaro. Non si poteva andare più lontano, perché dopo di questo non c’erano che i morti».
Certo, Céline non era immune dallo spirito goliardico che aleggiava a Montmartre ma questo non gli impedì, mai, di venir meno al suo dovere di medico, soprattutto nei confronti di chi un medico proprio non poteva permetterselo: operai sfiancati dal lavoro e abbruttiti dall’alcool, donne la cui femminilità era stata rubata dall’usura della quotidianità e un immane schiera di vagabondi che la tisi aveva piegato. Erano questi i clienti non paganti di Céline, ammassi di carne e ossa la cui sorte era in mano a borghesi senza scrupoli, parenti europei di quel fordismo che lui stesso aveva visto all’opera, durante la sua visita negli stabilimenti automobilistici statunitensi. Per porre un freno, agli effetti funesti, dell’alienazione capitalistica, Céline aveva scritto un trattato di medicina sociale che, nel ’28, presentò alla Società delle Nazioni, senza, naturalmente, ottenere risposta. Anticipando di decenni la lotta alle multinazionali farmaceutiche: «questo abuso stravagante – scrive Céline – che regna attualmente nelle prescrizioni (…) vero massiccio avvelenamento vilmente autorizzato sulle nostre classi sociali più deboli fisicamente e intellettualmente (…) Questa tossicomania popolare, per la tolleranza quasi illimitata delle ricette farmaceutiche, fa molte più vittime, ogni anno, della cocaina o della morfina.» La sua rabbia anti-capitalista, lo portò a teorizzare una medicina del proletariato: « perché si sa perfettamente bene che è il proletariato, disoccupato o no, che è incomparabilmente più distrutto dalla malattia di quanto lo siano i ricchi».
Del resto, Céline aveva sempre avuto un occhio di riguardo per le classi meno abbienti, per i diseredati, un’inclinazione ravvisabile fin dai tempi del soggiorno africano, quando, Guevara – ante litteram, a sue spese, allestì un ospedale da campo per gli indigeni. C’è da dire, che questa propensione, per la difesa dei più umili, lo portò a simpatizzare per il sistema sovietico: « l’igiene massificata si accorda solo con una formula socialista o comunista di stato.» Una frase che, forse, si pentì di aver detto, dato che al ritorno dalla sua visita in U.R.S.S., nel ’36, Céline scrisse il Mea Culpa. Un pamphlet d’accusa, quest’ultimo, sui limiti del comunismo e sulla falsa dicotomia fra il socialismo reale e il capitalismo occidentale, due sistemi e la medesima finalità; affamare e, quindi, piegare il popolo. Questo il romanziere lo capì benissimo; come del resto lo comprese perfettamente anche Fabrizio De Andrè che, nella trasposizione musicale de Il Dottor Siegfried Iseman di Edgar Lee Masters, scrisse: «E allora capii fui costretto a capire, che fare il dottore è soltanto un mestiere, che la scienza non puoi regalarla alla gente, se non vuoi ammalarti dell’identico male, se non vuoi che il sistema ti pigli per fame».
Da: http://www.mirorenzaglia.org/?p=10700
Grazie Miro Renzaglia, a Romano Guatta Caldini, e a Harm Wulf per la segnalazione!
sabato 20 giugno 2009
Bardamu: Céline e Vinicio Capossela
Vinicio Capossela dedicò anni fa una bellissima canzone al "nostro" Bardamu (in una intervista, Capossela dichiarò che il successo del suo LP "Canzoni a manovella" si sarebbe visto dalle vendite di "Scandalo negli abissi"!)... e aggiungiamo che in molte canzoni di Capossela, si respira l'aria picaresca di "Guignol's Band"!
Per quanto scura la notte è passata e non lascia che schiuma di birra slavata
e una spiaggia e una linea di sabbia è il fronte di un addio
gli altri si cambino l'anima per meglio tradire per meglio scordare
Bum Bum Bum Bardamù Bum Bum Bum Bardamù
Corazzieri Trapanati! All'armi in fila! Agli aerostati!
Dirigibili all'idrogeno nell'aria si involano
e le ballerine in fila danzano danzano leggere, leggere in tutù
leggere, leggere di più della mia porcheria
leggere, leggere di più della mia porcheria
Sparato tra gli astri in pallone rigonfio di musica solo al richiamo più lontano
voglio la notte e la voglio senza luna..
Ma niente canzoni d'amor mai più mi prendano il cuor
la notte è passata e le nuvole gonfiano schiuma di Baltico e cenere e cenere avrò...
Bum Bum Bum Bardamù Bum Bum Bum Bardamù
leggere, leggere in tutù leggere, leggere di più della mia porcheria
Se è circo che vogliono circo daremo e cariole di occhi e rimpianti
e fosforo e zolfo e profumo di niente e di Nord
e ancora si cambino l'anima per meglio tradire per meglio scordare...
Ma niente canzoni d'amor mai più mi prendano il cuor
la notte è passata e le nuvole gonfiano schiuma di Baltico e cenere e cenere avrò...
(l'emozione è tutto nella vita,quando siete morti è finita... l'emozione è tutto nella vita, quando siete morti è finita...)
E in una recente intervista...
Chi è il poeta più musicale, e perché, quale poesia vorresti tradurre in musica?
Chi è il poeta più musicale, e perché, quale poesia vorresti tradurre in musica?
«Ho provato a tradurre in musica La ballata del vecchio marinaio di Coleridge… poi ho anche provato a fare la stessa cosa con alcune rime di Michelangelo, che come lavoro forse è anche più semplice perché hanno già una loro metrica musicale, un po’ come per i madrigali… sono composizioni che hanno già quella forma che ti permette di cantarle e farne qualcosa in musica. Ed è così quindi che se ne scopre, cantandole, la loro musicalità. Le “Rime” di Michelangelo hanno la stessa “tensione” delle sue opere (pittura, scultura…), e in esse il loro autore viene ancora più umanamente messo a nudo. Altre poesie, invece, non hanno neanche bisogno di essere tradotte in musica perché già lo sono, come Via Scarlatti di Vittorio Sereni».
«Credo comunque che il più alto connubio, sotto questo profilo, lo si sia raggiunto nella canzone in forma di tango degli anni ‘40-‘50 con Annibal Troilo, Osvaldo Pugliese, musicisti che si unirono a veri e propri poeti, come Alberto Castillo o Horacio Ferrer. Ecco, in quel caso, ho sempre sentito una vera “unione” tra verso poetico-musicale e musica. In generale comunque non credo che esistano vere e proprie divisioni, semplicemente la canzone è una “terza forma” che è diversa dalla musica e dalla poesia. Io con le canzoni cerco di dare la scenografia, la colonna sonora,…la canzone è una forma che ricollego, in qualche modo, di più al cinema; è una forma-strumento.
Uno scrittore che è riuscito a unire le tre forme è Louis-Ferdinand Céline, e non solo perché usava quasi le parole come se le mettesse in musica, ma anche perché nelle sue opere ci sono continui rimandi a riferimenti musicali di estrazione popolare».
«Credo comunque che il più alto connubio, sotto questo profilo, lo si sia raggiunto nella canzone in forma di tango degli anni ‘40-‘50 con Annibal Troilo, Osvaldo Pugliese, musicisti che si unirono a veri e propri poeti, come Alberto Castillo o Horacio Ferrer. Ecco, in quel caso, ho sempre sentito una vera “unione” tra verso poetico-musicale e musica. In generale comunque non credo che esistano vere e proprie divisioni, semplicemente la canzone è una “terza forma” che è diversa dalla musica e dalla poesia. Io con le canzoni cerco di dare la scenografia, la colonna sonora,…la canzone è una forma che ricollego, in qualche modo, di più al cinema; è una forma-strumento.
Uno scrittore che è riuscito a unire le tre forme è Louis-Ferdinand Céline, e non solo perché usava quasi le parole come se le mettesse in musica, ma anche perché nelle sue opere ci sono continui rimandi a riferimenti musicali di estrazione popolare».
PS: Capossela dedicava, tra gli altri, il suo album "Canzoni a manovella" anche ai "marinai in bottiglia". Perciò, ci è ancor più caro. Ma questa è un'altra storia...
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