Pur con una visione molto ortodossa, Piero Sanavio è stato tra i primi céliniani italiani. Sotto, una sua intervista del 2013 all'uscita del suo Ancora su Céline.
“Céline era antisemita, certo. Ma è dalla merda e dal sangue che nasce la grande letteratura”
Padovano, classe 1930, fronte ampia, volto volitivo, un po’ Popeye un po’ Marlon Brando, Piero Sanavio si è laureato a Venezia sulle fonti italiane dei “Cantos”, su Ez ha pubblicato un mucchio di libri. Di Sanavio mi piace l’indomita indole alla trasgressione, al vagabondaggio (ha insegnato negli Stati Uniti, in Francia, in Spagna), un cipiglio fuori tempo e fuori norma che ha pagato duro: nel catalogo dei maggiori editori italiani, da Neri Pozza a Rizzoli e Bompiani, oggi è marginalizzato, lo pubblica Raffaelli, a Rimini. La prima volta che l’ho visto Sanavio lavorava a un libro su Louis-Ferdinand Céline, il seguito di “Virtù dell’odio”, del 2009, stampato proprio da Raffaelli. S’intitola “Ancora su Céline”, è in libreria dal mese prossimo, «è nato in parte dall’indignazione per la superficialità o malafede (la scelta è sua) di molta critica italiana che ha minimizzato o addirittura negato l’antisemitismo di Céline – come ne ha minimizzato l’anticomunismo facendo passare Céline persino per un simpatizzante comunista», mi dice, carattere duro, sguardo superbo, voce ferrea. Tendenzialmente introvabile, lo raggiungo per un dialogo via mail. «In questo secondo libro mi sono limitato a suggerire la rilettura di certe pagine, oltre che a indicare molte falsificazioni (sue, dei critici), molte menzogne. Anche il celebratissimo “Semmelweis”, come ce lo presenta Céline, perlomeno, è una menzogna». Quanto incide l’antisemitismo di Céline nell’opera dello scrittore Céline? «L’antisemitismo è inseparabile dall’opera e non ci sono alibi. Non ci sarebbe Céline senza l’antisemitismo. Né serve dire, a giustificazione, che gran parte della Francia tra le due guerre era antisemita. L’antisemitismo di Céline è cialtronesco, viscerale, peggiore persino di quello che fu chiamato il socialismo degli imbecilli. In Céline anche l’insistenza sull’irrazionale, il “rêve eveillé”, i famosi puntini sospensivi, la guerra contro la Grammaire Raisonnée nascono dal suo antisemitismo. È la bestialità irrazionale contro la ragione». Da qui al nazismo il passo è breve. «Con tutto questo, è eccessivo definire Céline nazista, era piuttosto un cialtrone imbevuto dello spirito revanscista che avrebbe prodotto Vichy – vile, ignobile, servile, criminale persino, come coloro che ammassarono gli ebrei al Vel’ d’Hiv’ per mandarli ai lager. Però fu anche un grande scrittore. Parafrasando ciò che qualcuno disse della politica, è anche “dalla merda e il sangue” che nasce la letteratura. Era l’invidia a muoverlo, invidia per tutto ciò che egli non poteva essere. Detestava gli ebrei che identificava con la grande borghesia perché sapeva che per quanti soldi potesse guadagnare e quanto celebre potesse diventare, ciò non bastava a far di lui un borghese, un grand bourgeois alla Proust, alla Gide: occorreva assai di più e quel di più gli mancava». Già, come la mettiamo con Proust. «Con tutto il suo antisemitismo, Céline cedeva al fascino di Proust, imitandolo, per quanto tentasse di nasconderne le tracce e affermasse che lo detestava. Anche questo c’è nel mio libro. Non vi si parla soltanto di antisemitismo, o di quando Céline faceva il finto povero, nascondendo la consistenza dei suoi guadagni – si parla soprattutto, ancora, sempre, di letteratura». In sintesi: il ruolo di Céline nella letteratura moderna. «Ripeto: fu un grande scrittore. Soprattutto all’interno della letteratura francese dove, rompendo le regole della grammatica, poteva illudersi di minare le strutture sociali del Paese e stravolgerne la storia. Intrasportabile, fuori di Francia, il suo stile, come certi vini e certi formaggi, senza senso al di fuori della lingua francese e di quella letteratura». Gombrowicz, Thoreau, Pound, Céline: lei è attratto dai disobbedienti. La grande letteratura è sempre “trasgressiva”? «Shakespeare, probabile “recusant” e prudente fino a sfiorare la viltà, restava formalmente nell’ortodossia non soltanto perché era il Potere che gli permetteva di vivere, proteggendo la sua compagnia teatrale – operava nell’entusiasmo di un boom economico che pareva inarrestabile e lo restò fino alla morte di Elisabetta. Aveva anche, davanti a sé, il terribile ricordo della fine di Marlowe, il grande trasgressore. Con la menzogna del progresso inarrestabile e razionalizzando lo sfruttamento dei subalterni la cultura borghese ha occupato ogni spazio dell’esistente sicché l’arte nel suo ambito non può esprimersi che per negazioni e la scrittura non può che essere antagonista». Lo stato della letteratura italiana. «Bisognerebbe cominciare a chiedersi perché Casanova e Goldoni scrivessero le loro memorie in francese e Barretti scrivesse in inglese. Era il Settecento. Quanto al celebratissimo “Gruppo 63”, ho l’impressione che si sia trattato di un’operazione editoriale più che culturale e di una tardiva imitazione degli stranieri. Non bastava plagiare i “Cantos” per diventare moderni, o pensare che la “housewife from Dubuke, Iowa”, (per la quale Harold Ross aveva fondato il “New Yorker”) fosse sorella di latte della “casalinga di Voghera”, la signora dell’Iowa parlava inglese e aveva la traduzione della Bibbia di re Giacomo, insieme alle chiavi di casa, nella borsa per la spesa. Vale a dire: conosceva il linguaggio di Shakespeare, non fosse altro perché andava a messa, e da brava calvinista credeva nell’importanza radicale del patto – tra l’uomo e dio e tra uomo e uomo, quindi tra lo Stato e il cittadino. Sapeva anche che, se si stancava del marito, poteva sempre divorziare. Se poi si interessava all’arte, alla letteratura, la sua città, come qualsiasi altra della Repubblica, era provvista di ottime biblioteche». Socchiudo la porta della mail con un «grazie per i molti insegnamenti». Segue risposta lapidaria, «non mi prenda troppo sul serio». Davide Brullo
*intervista pubblicata su “La Voce di Romagna” il 9 maggio 2013