mercoledì 25 gennaio 2017

L.-F. Céline in grande: 'LOUIS-FERDINAND CÉLINE. Saggi, interviste, ricordi e lettere' su "Fogli di Via"

L.-F. Céline in grande 


Andrea Lombardi (a cura di. Con la collaborazione di G. Tura): LOUIS-FERDINAND CÉLINE. Saggi, interviste, ricordi e lettere. Off Topic, 2016





Scrivo questa nota in agosto e leggo una lettera di Céline all' "hussard" Roger Nimier datata 1 agosto 1959. Nimier è in Bretagna, in vacanza, Céline coglie l'occasione per dire ciò che pensa delle vacanze: "i poveri non sono che delle scimmie gabbate, feroci e disgustosi proprio come i ricchi... piene le spiagge, piene le autostrade, pieni i cimiteri... non fatevi male in un incidente!" C'è da puntualizzare che il povero Nimier sarebbe morto, come poco tempo prima Camus, proprio in un incidente stradale. Era alla guida della sua Aston Martin e nell'incidente perse la vita anche la scrittrice e modella Sunsiaré de Larcône. Ma non è il caso di fare delle illazioni su qualche tenebrosa facoltà di Céline.

Ciò che voglio fare è spostare l'attenzione sul fastoso libro che permette di accedere tutto in una volta a molteplici documenti come quello sopra riportato. Innanzitutto il libro è curato da Andrea Lombardi (del quale si è già parlato su questi nostri fascicoletti) che di Céline è in Italia il più appassionato esegeta, per quanto ami travestirsi da dilettantesco cultore. Per questo volume - che per giunta dimostra cosa si possa fare con la stampa digitale se si ha buon gusto - Lombardi si è avvalso della collaborazione di Gilberto Tura, gran collezionista di materiali céliniani (tanto che mi viene da pensare che una cospicua parte del prezioso materiale iconografico che corrobora il libro provenga dalle sue cassettiere) il quale del resto collabora con Lombardi anche nella gestione del primo Blog italiano dedicato a Céline (lf-celine.blogspot.com).

Vasta silloge di testimonianze critiche, ricordi e interviste il davvero superbo volume si tiene con giudiziosa prudenza al riparo della banalità. Non mancano nomi come quelli di Arbasino e Vonnegut, ma l'indirizzo generale è quello di flettere ciò che è eminente su un terreno comune dove però anche il minore possa ingaggiare la sua battaglia per spiccare il volo, cosicché brevi testimonianze personali come quella, per esempio, dello sceneggiatore cinematografico Luciano Vincenzoni, abbiano a figurare come un tassello non meno importante degli altri. Ma la stessa cosa vale per testi più impegnativi, come quello ottenuto dalla tesi di laurea di Francesca Bergadano piuttosto originalmente consacrata a un in fin dei conti non del tutto improbabile "Céline surrealista".

Sarebbero veramente troppi i nomi che dovrei riportare - da Maud de Belleroche a Emilio Tadini, da Will Self a Gerhard Heller, da Dominique Venner a Antonio Lobo Antunes, per dire di pochissimi - ma colgo l'occasione per ricordare soprattutto quello che fu uno dei primi critici letterari a dedicare una monografia a Céline nel lontano 1963, vale a dire il belga Pol Vandromme. Da quella monografia (pubblicata in origine dalle Èditions Universitaires e in Italia da Borla, poi riproposta in un'edizione genovese pochi anni fa) viene estrapolata la parte sui pamphlet céliniani (le Bagatelle e gli altri) che, considerando quando è stata scritta, sorprende per maturità, equilibrio e incisività.



Libri come questo non esauriscono tuttavia la loro portata nella collazione apparentemente casuale affidata alla rarità dei documenti. Ciò che costruiscono è, se non una nuova definizione del soggetto esaminato, una trama fitta di nozioni che accanto alle letture consuetudinarie offrono aperture insperate su un paesaggio mentale, in questo caso di Céline, del quale si credeva di sapere proprio tutto, e che ciò avvenga con materiale che in fin dei conti è di repertorio per gli specialisti potrebbe sembrare inspiegabile. Bisogna ricorrere, suppongo, all'ipotesi della nuova e autonoma realtà testuale costituita proprio dalla collazione antologica, cosicché si assiste alla torsione continua della letteratura in teoria e viceversa, senza capire in fondo cosa sia più rilevante fra le due, tanto che il pensiero e la sua trascrizione si confondono in uno stile che non è quello dei romanzi o dei pamphlet, ma quello, e lo sottolineo, delle interviste e cioè, ancora una volta, più il tentativo di spiegazioni all'ingrosso che i problemi letterari ed esistenziali che le motivano. In altre parole la teoria letteraria di Céline, se c'è, la si ritrova, capovolgendo una sentenza di Pasternak, affiancando la coerenza traballante del cuore all'incoerenza rigida dei principi. Tutto ciò è forse più frivolo che enigmatico, e se così fosse lo sarà perché ci si è anche divertiti. Céline comico non è una novità ma Céline una novità continua a esserlo.

domenica 15 gennaio 2017

"La Francia tipo Santo Domingo non mi interessa davvero"

Una delle lettere più iperbolicamente sulfuree di Céline scritte alla stampa collaborazionista francese tra il 1940 e il 1944 (inclusa nel libro Céline ci scrive), propugnante non solo una divisione "semitica" della Francia, ma anche tra Nord e Sud della nazione. Letta da un punto di vista distaccato e con un minimo di distanza, piuttosto che muovere all'indignazione fa comprendere come molte (ma non tutte...) delle frasi di Céline in stile Bagatelle fossero più forsennate invettive polemiche che lucide analisi politico-ideologiche... ad ogni modo, a voi:







Fouesnant il 15 giugno 

Mio carissimo Poulain, mi coglie su due piedi! Ah, capita bene! Capita a fagiolo! Mi chiede un articolo. Prenda questa lettera e a gratis! Celebrare un anniversario? Quello dei Beaux draps? Perbacco! Sempre proibiti! I governi si succedono, giostrano i loro destrieri, la loro musichetta, e patatì e patatà… e niente cambia intendiamoci. Glielo dico molto educatamente. La storia della Francia continua. Piccolissimo indizio mi dirà: narcisismo d’autore che vede il mondo solo dal suo ombelico. La Francia continua! Come vorrà! Andrà avanti senza di me! Non se n’avrà a male. Maurois, Bernanos, adulati, classici a Tolosa, Céline nella merda.
Domani Duhamel grande censore. Tutto questo è proprio regolare, può sorprendere solo un coglione. La Francia odia istintivamente tutto ciò che le impedisce di darsi ai negri. Li desidera, li vuole. Buon pro le faccia! Che si dia! tramite l’Ebreo e il meticcio, tutta la sua storia in fondo è solo una corsa verso Haiti. Quale ignobile cammino percorso dai Celti agli Zazou! Da Vercingetorige a Gunga Diouf. Tutto qua! Tutto sta lì! Il resto non è che farsa e discorsi. La Francia muore dalla voglia di finire negra, la trovo piuttosto a puntino, marcia, zeppa di meticci. Mi fanno proprio ridere quando mi dicono 5 o 800.000 ebrei in Francia! La battutona! Solo Saint-Louis, l’eletto, ne fece battezzare 800.000 tutti in una volta nella Narbonense! Pensi se hanno avuto prole! Altri 50 anni, e nemmeno un francese che non sia meticcio di qualcosa in “ide”, araboide, armenoide, bicoide, polaccoide… E chiaramente “francese” 100.000 volte più di lei e di me. L’arroganza “patriottica”, la faccia tosta, è sempre in proporzione al meticciaggio, alla giuderia personale. Un altro bel giornale è da creare, molto opportuno, il “giallo e nero” em – blema del futuro francese. Se la guerra civile fosse durata sarebbe del resto già fatto. Avremmo due milioni di morti, ariani, sostituiti immediatamente (Mandel dixit) da due maggioranza schiacciante desidera con tutto sé stesso la sconfitta assoluta della Germania e del suo ideale razzista. Bisogna come proclama Churchill «cancellare l’Hitlerismo dalla mappa del mondo». Mi spiego.
Il padiglione nazionale francese copre tutte le mercanzie. La Francia attuale così meticcia non può essere che antiariana, la sua popolazione assomiglia sempre più a quella degli Stati Uniti d’America. Stessi auspici, stessa politica profonda. Attoniti dappertutto riuniti per ordine ebreo, più qualche rimasuglio nordico e celtico a rimorchio, del resto fusi, in via di estinzione (suppergiù come i pellirossa). Veda le nostre squadre nazionali sportive, accozzaglie grottesche, frettolose ammucchiate di non importa chi, pescati non importa dove, dall’Africa alla Finlandia! Il colpo di grazia, senza dubbio, ci fu inferto dalla guerra del ’14-’18: due milioni di morti, più di cinque milioni di feriti e di abbrutiti dai combattimenti e dall’alcol, ossia tutta la popolazione maschile valida, (in maggioranza ariana ben inteso) sfinita, annientata. E tra questi certamente tutti i nostri quadri reali, tutti i nostri capi ariani. La faccenda dei capi! La massa non conta. È plastica, anonima, fa carne, peso di carne, tutto qui. La guerra, la vita lo dimostrano. La massa, la truppa non vale che solo attraverso i suoi quadri, i suoi capi. La truppa meglio inquadrata vince la guerra. È il segreto, il solo. I nostri capi, i nostri quadri sono morti durante la guerra super criminale del ’14-’18. Sono stati immediatamente sostituiti al volo dall’afflusso degli armenoidi, araboidi, italoidi, polaccoidi etc. tutti estremamente avidi, cullati da sempre nel sogno, nei loro paesi infetti, di venire a recitare qui la parte dei capi, di asservirci, conquistarci, (senza alcun rischio). Un ottimo affare! I nostri eroi del ’14-’18, cedettero loro senza esitare i posti ancora caldi. Furono occupati immediatamente. 4 milioni di pulcinella anti-francesi nell’anima e nel corpo, soltanto francesi di chiacchiera, si è visto bene quanto valessero i quadri Boncourt, i naturalizzati Mandel durante la guerra ’39- ’40! Le donne si sposano con ciò che trovano! Certo! Nuova fioritura di meticci! Che commedia! Che lupanare! E così sia! «Vengono fin tra le nostre braccia! Sgozzare, ecc.» non sono affatto i “feroci soldati” a devastare e distruggere la Francia quanto piuttosto i rinforzi negroidi del nostro stesso esercito. Per essere precisi, non sgozzano niente di niente, montano. Ed è l’imprevisto della “Marsigliese”!
Rouget non aveva capito niente, la conquista, quella vera, ci viene dall’oriente e dall’Africa la conquista intima, quella di cui non si parla mai, quella dei letti. Un impero di 100 milioni di abitanti di cui 70 milioni di caffellatte, per volere Ebreo è un impero in via di diventare Haitiano, in modo del tutto naturale. Siamo completamente abbrutiti? È un dato di fatto, per via dell’alcol e dell’in – crocio, e poi per molte altre ragioni… (veda i Beaux draps, proibiti…). Anestetizzati, insensibili al pericolo razziale? Lo siamo, è evidente. 50.000 stelle gialle non cambieranno niente. La Francia intera per un po’, più dreyfusarda che mai, per simpatia così cristiana, sfoggia con fierezza il simbolo giudaico. Nuova Legione d’onore, zazou, molto più giustificata dell’altra. E tutto per Blum e per de Gaulle! Maturi per essere colonizzati? Lo siamo! Da non importa chi! Parlare di razzismo ai francesi, è parlare di sangue puro ai nordafricani, stesse reazioni. Non si fa piacere a nessuno. Vichy si occupa, sembra del razzismo, a modo suo, come si occupa dei miei libri. Vada un po’ a chiedere a Claude Bernard quel che pensa del problema ebraico!… Sarà servito. «Si figuri raccontano i suoi assistenti che se il Sig. Bergson fosse ancora qui, i tedeschi gli farebbero indossare la stella gialla!». Altrettanto attaccabriga! Allora bella cosa, ci dica lei stesso, un po’, quel che preconizza? Ah! quant’è più delicato… scomodo… arduo… crudele… che Dio mi guardi dal potere! Dalle pesanti confidenze popolari! Le ridurrò tutte in poltiglia! Taglierei innanzitutto la Francia in due parti. Per la comodità delle cose, la tranquillità dei partiti. Lo slogan “Una, Indivisibile” mi è sempre sembrato una cosa da “massoni”. Al punto in cui siamo arrivati nella decadenza, saremo per forza le vittime nell’“Indivisibile” noi gente del Nord, poiché è il Sud che comanda, cioè l’ebreo. I Romani troppo meticciati si sono dati due capitali, farò altrettanto. Marsiglia e Parigi. L’una per la Francia meridionale, latina se vogliamo, bizantina, “sovralgerica”, tutto ai meticci, tutto agli zazou, dove si avrebbe tutto il piacere, tutta la libertà di ospitare, amare profondamente tutti i più bei ebreoni del mondo, di eleggerli tutti deputati, commissari del popolo, arcivescovi, druidi, geni, di farsi inculare da loro, all’infinito, aspettando di diventare tutti negri, questione di trenta o cinquanta anni, per come vanno le cose, di raggiungere infine lo scopo supremo, l’ideale delle Democrazie. L’altra per la Francia “a nord della Loira”, la Francia lavoratrice e razzista, è da tentare. Credo che sia forse il momento di attuare alcune grandi riforme…
La Francia tipo Santo Domingo non mi interessa davvero. Può farsela chi si presenta, me ne frego alla grande. Mi dispiace semplicemente di aver lasciato tanta carne per difendere questa porcheria che non sogna altro che Lecache. Una così grande guerra, tanta miseria, per andare da Rotchild [sic] a Worms! Ci vorrà davvero del nuovo per farmi ritornare patriota. Credo che sarà per un’altra volta, forse per un altro mondo, quello dei morti se ho ben capito, la vera patria dei testardi. A lei Poulain! Stia ben attento! Ah! non mi tradisca! la minima parola! tutte le virgole! e coraggio!

domenica 8 gennaio 2017

Diorama di Louis-Ferdinand Céline, di Andrea Scarabelli



Res sacra miser. Sacro è l’infelice, scrisse Louis-Ferdinand Céline a Ole Vinding. Perché spesso custodisce verità inattuali, in anticipo sui tempi, che gli valgono scomuniche e messe al bando. Accadde al dottor Filippo Ignazio Semmelweiss, condannato al manicomio dalla comunità scientifica e a morte dai suoi carcerieri, ma anche a Céline, che a lui dedicò la sua tesi di laurea. Forse non lo sapeva, ma quello scritto giovanile avrebbe praticamente condensato la sua vita. In quell’eretico il suo daimon avrebbe celebrato un futuro al di fuori di ogni conformismo e ortodossia.


È uscito di recente Louis-Ferdinand Céline. Saggi, interviste, ricordi e lettere (Italia Storica, Genova 2016), frutto di una ricerca che ripercorre la vita di uno dei «maledetti» del XX secolo. Un autore che rivoluzionò e si rivoluzionò, adottando stili diversi, per meglio comprendere le antinomie del suo tempo – che, tanto per cambiare, sono pure le nostre. Un autore, soprattutto, contro, che non sarebbe male leggere oggi, in cui è molto più consigliabile essere pro: pro-maggioranza, pro-minoranze, pro-critica, pro-accademia… Il volume è curato da Andrea Lombardi, animatore di un blog tutto dedicato all’autore e già curatore, tra le altre cose, dello splendido La morte di Céline di Dominique de Roux e di Un samurai d’Occidente di Venner, breviario di chi non si sottomette alla tirannia del nostro tempo.



È a tutti gli effetti un diorama di Céline, che ne affronta la vita come la lingua, gli amori come le infatuazioni politiche. Lui, esteta armato, per dirla con Maurizio Serra, schierato da solo contro la volgarità di un mondo che aveva fatto dell’oro la propria madrelingua. Lui, che affermava il primato dello stile su tutto, anche sulla vita – ché è per assenza di stile che muoiono le civiltà, non per cause materiali…

Ed è proprio lo stile a unificare le sfaccettature letterarie e metaletterarie dell’autore del Voyage au bout de la nuit. Come i tanto deprecati pamphlet, da Mea culpa a La scuola dei cadaveri e Bagatelle per un massacro (questi ultimi banditi dalle librerie ma disponibilissimi on line a mezzo di una semplice googlata…). La critica politicamente corretta ha speso anni e anni per separare il polemista dallo scrittore. Come salvare il Viaggio dalle Bagatelle? Di queste “premure” – le quali spesso non fanno che svilire un autore, consegnandolo tutto imbellettato alla critica ufficiale – nel volume in questione non c’è traccia, segno che finalmente qualcosa sta cambiando nel mondo delle Belle Lettere.

Il fatto che i pamphlet, poi, in Céline siano qualcosa di più che dei trattatelli politici è evidente dalla loro lettura. C’è un aneddoto, raccolto da Lombardi, piuttosto illuminante. Il “collaborazionista” Lucien Rebatet, autore de Les decombres e dello splendido Les deux étandards, scrisse che durante una delle sessioni giudiziarie per l’imputazione di Céline vennero letti alcuni passi delle Bagatelle come prove, e il pubblico non smise di ridere a crepapelle, tanto che non fu più possibile continuare la lettura. Una risata che non nasceva da un antisemitismo latente ma era piuttosto provocata, strappata ai nervi stanchi di una civilizzazione fatta a pezzi. Lo comprese bene uno scrittore d’oltreoceano, il quale, al pari di molti altri, cimentandosi nel dominio delle Lettere pagò il suo debito nei confronti di Céline. «Céline, secondo la mia opinione» è Kurt Vonnegut a parlare, «diede nei suoi romanzi la miglior narrazione storica del totale collasso della civiltà Occidentale in due guerre mondiali, come la videro donne e uomini comuni e terribilmente vulnerabili.» Consapevole di trovarsi a un crocevia della storia, parlò di attualità, ma come? Da un luogo altro dall’attualità stessa, che si esprime nella letteratura ma non vi si esaurisce… È la vita vera quella che amava Céline, quella dei bassifondi della storia, dove le magnifiche e progressive sorti non hanno più valore del delirio di un ubriaco, sovrano interiore in un mondo di rovine. La vita che passa senza soluzione di continuità dalla carne alle lettere, in quel binomio che è la cifra più autentica di Céline, come disse una volta Godard.

Un autore generazionale a cui scrittori, filosofi e intellettuali (termine, quest’ultimo, che non sarebbe piaciuto molto al dottor Destouches…) d’ogni risma ed estrazione hanno dedicato qualche riga, pagine, finanche libri interi: Dominique de Roux e Alberto Arbasino, Gilles Deleuze e Felix Guattari, Gianni Celati e Cesare Cases, Dominique Venner ed Ezra Pound, Robert Brasillach e Charles Bukowski, Saul Bellow e Pierre Drieu La Rochelle, Henry Miller e William S. Borroughs… Questi alcuni dei testimoni del genio di Céline, le cui parole accompagnano il lettore in questo viaggio.

L’hanno chiamato anarchico, più che altro per dimenticarsi e dimenticargli l’errore di essersi schierato dalla parte sbagliata. Più che anarchico potremmo chiamarlo Anarca, attento alle dinamiche del potere ma immune alle sue malie. Un anarchico di destra, se vogliamo, come lo definì Giano Accame nel suo ultimo libro, La morte dei fascisti, che conobbe i carnai della Prima Guerra Mondiale rompendo, al pari di Pound e Jünger, l’incanto del Dulce et decorum est pro patria mori. Un Anarca, critico del materialismo capitalista (emblematico il suo sgomento durante la visita alla Ford, in qualità di medico per la Società delle Nazioni) come di quello comunista, affrescato in Mea culpa, uno dei testi che hanno strappato a chi scrive le risate più sonore di sempre.


Un Anarca, a cui vale la pena lasciare la parola, citando una sua lettera a Élie Faure del 1934, tra i molti materiali raccolti in un libro imperdibile per gli amanti dello scrittore francese: «Sono anarchico da sempre, non ho mai votato, non voterò mai per niente né per nessuno. Non credo negli uomini. Perché vuole che mi metta all’improvviso a suonare lo zufolo solo perché decine e decine di falliti me lo suonano? Perché? per mettermi al loro livello di gente meschina, rabbiosa, invidiosa, piena d’odio, bastarda? Non ho niente in comune con questi froci che sbraitano le loro balorde supposizioni e non capiscono nulla». Eppure, molti altri scelgono vie diverse… Céline ne ha anche per loro: «Si immagina a pensare e a lavorare fra le grinfie di quel gran coglione di Aragon, per esempio? Questo sarebbe l’avvenire? Colui che dovrei adorare è Aragon! Puah! Se fossero un po’ tutti meno cialtroni, se fossero così pieni di buona volontà come dicono, farebbero quello che ho fatto io invece di rompere i coglioni a tutti con le loro stonature». Parlano di rivoluzione, ma non è che apparenza. «La ritardano invece di facilitarla. Somigliano a quei maschi che non han più istinti, che feriscono le femmine e non le fanno mai godere. Non sente, amico, l’Ipocrisia, l’immonda tartuferia di tutte queste parole d’ordine ventriloque! Il complesso d’inferiorità di tutti questi agitatori è palpabile. Il loro odio per tutto ciò che è superiore a loro, per tutto ciò che non capiscono, visibile. Hanno la stessa gran voglia di sminuire, distruggere, di insozzare, di recidere il principio stesso della vita che avevano i preti più volgari del Medio Evo. Gli uni e gli altri forse mi fucileranno. I nazisti mi detestano al pari dei socialisti e i comunisti anche… si intendono tutti quando si tratta di sputarmi addosso. Tutto è permesso, tranne di dubitare dell’Uomo… ma io me ne frego di tutti».

Una terapia per le anime destinata a tempi come i nostri, nei quali trionfa il conformismo, il Pensiero Unico in assenza di pensiero. Che si alzi allora la voce degli eretici, dei dissidenti. Res sacra miser.