mercoledì 14 settembre 2011

"Céline ci scrive" recensito su Booksblog!






Céline ci scrive, le sue lettere "maledette" tradotte e pubblicate per la prima volta in italiano



Sono passati cinquant’anni dalla morte di Louis Ferdinand Céline, cinquant’anni in cui lo scrittore maledetto per eccellenza è stato trattato in ogni modo. Da ogni parte politica, da destra e da sinistra, Céline è stato, in quanto scrittore, oltraggiato. Nel mondo letterario, nessuno più di lui in questi cinquant’anni ha subito più tentativi di strattonamento verso l’una o l’altra parte politica. La pubblicazione di questo «Céline ci scrive. Le lettere di Louis-Ferdinand Céline alla stampa collaborazionista francese, 1940-1944», a cura di Andrea Lombardi, potremmo dire che contribuisce al dibattito come una bomba a mano contribuisce a una rissa, vale a dire mandando tutti al tappeto e mettendo in evidenza l’inutilità dell’alterco. Le lettere ora pubblicate, infatti, sono a tutti gli effetti “maledette”, sono illeggibili per qualunque benpensante, sono inammissibili, oltraggiano praticamente ognuno dei principi su cui abbiamo costruito il mondo occidentale contemporaneo. Eppure, io credo, sono lettere che fanno bene proprio per questa loro indigeribilità, perché ci mostrano quanto sia inutile e idiota cercare di trasformare un uomo in un vessillo e costringerlo a sventolare da una parte o dall’altra, soprattutto quando si parla di Céline. Céline, l’uomo, era una personalità lontana da questo tipo di logica come il nostro pianeta dalla stella più vicina. Chi si affanna a cercare di farlo schierare, non solo non ha capito nulla di quel formidabile e spiazzante anarchico, ma non ha capito nulla neppure della Letteratura.



Tutto ciò che può essere detto sulla visione politica di Céline, o almeno, tutto ciò che può interessare noi, i suoi lettori dell’inizio del XXI secolo, è ben riassunto in una frase nell’introduzione al libro scritta da Andrea Lombardi:


rendendoci pur conto che pensare di riuscire ad apporre sul pensiero del nostro una comoda etichetta sia fatica di Sisifo, forse un termine che più si avvicina a delineare la sua sensibilità è “antimoderno”, anzi, “anticontemporaneo”


Lombardi, sempre nella sua introduzione, cita anche un brano di Pontiggia, traduttore delle Bagatelles, un brano che illumina la vera forza di questo scrittore, un brano che vale la pena di leggere:


Céline, nei romanzi come nei terribili libelli antisemiti e anticomunisti, urla delle verità che nessuno aveva mai saputo dire con tanta forza: la tempesta della chiacchiera ha ormai rimbambito il mondo, lo ha reso come un pugile suonato, come un idiota pronto a ingoiare tutto. I sistemi democratici, le istituzioni democratiche, sono diventati dei circhi equestri, delle palestre di buffoneria a buon mercato. Ma questo è Céline, direte: no, questo è il mondo nel quale viviamo, che Céline è stato il primo, forse l’unico, ad aver denunciato. Senza ombrelli ideologici, senza vanità, senza protezione, senza speculazione: del resto non c’è niente di più sterile e noioso che leggere tutti quegli scrittori impegnati che denunciano in nome di un partito, di un’idea.







lunedì 5 settembre 2011

"Céline ci scrive" ora disponibile!!!






L'editore ci segnala che il "Céline ci scrive" è ora finalmente disponibile! Valeria e io speriamo che il libro vi piaccia, e ogni vostro commento è benvenuto!

Louis-Ferdinand Céline,

«Céline ci scrive - Le lettere di Louis-Ferdinand Céline alla stampa collaborazionista francese, 1940-1944».

A cura di Andrea Lombardi
Prefazione di Stenio Solinas

Presentiamo qui, per la prima volta in italiano, le discusse lettere e gli scritti di Louis-Ferdinand Céline alla stampa collaborazionista francese e apparse su “Je suis partout”, “Au Pilori”, “Germinal”, “La Gerbe”... I temi toccati da Céline in queste lettere “maledette”, vanno dalla disfatta del 1940 e Vichy, gli ebrei, il razzismo, la guerra, la collaborazione franco-tedesca e gli intellettuali, alla polemica letteraria contro Proust, Cocteau e Peguy. Nel volume sono anche riprodotte le pagine originali delle ormai introvabili riviste e quotidiani dove apparvero gli scritti tradotti, mentre le appendici comprendono la risposta di Céline alle accuse della Procura francese, un ricordo di Céline scritto da Karl Epting, direttore dell’Istituto Tedesco di Parigi, un breve saggio sulla cultura politicizzata della Sinistra in quegli stessi anni e uno sui rapporti tra gli intellettuali francesi e tedeschi, e numerose fotografie.

F.to 15x21, pagg. 240, numerose ill. in b/n, brossura, Euro 25,00



Edizioni Il Settimo Sigillo, info@libreriaeuropa.it, tel. 06.3972.2155




Per ordinarlo online cliccare qui:






Deleuze e Céline...




Bentornati dalle vacanze! Abbiamo ricevuto da Davide, che ringraziamo, questa segnalazione...



Volevo segnalarti una pagina internet che può essere utile per il blog (in realtà è su Kafka e la Letteratura minore, tratta per l'appunto, dal libro di Gilles Deleuze e Felix Guattari Kafka. Per una letteratura minore).
L'argomento è difficile, sono anche parecchie parecchie cartelle per la maggiore off topic rispetto al blog [...] ma, in chiusura, troverai un piccolo discorso su Céline molto interessante, con dei giudizi di merito sul linguaggio e alcuni romanzi céliniani (ed anche una non proprio esplicitata ma chiara stroncatura della Trilogia), in collegamento ovviamente con molti argomenti trattati prima.
In generale, sapere quello che Deleuze pensa di Céline non mi pare cosa da poco, anche se estratto perifericamente da un saggio su un altro autore:



CHE COS'È UNA LETTERATURA MINORE?


Gilles Deleuze e Félix Guattari


[…] Il problema dell’espressione non viene posto da Kafka in un modo astratto e universale, ma in rapporto con le cosiddette letterature minori – per esempio la letteratura ebraica a Varsavia o a Praga. Una letteratura minore non è la letteratura d'una lingua minore ma quella che una minoranza fa in una lingua maggiore. Il primo carattere di tale letteratura è che in essa la lingua subisce un forte coefficiente di deterritorializzazione. Kafka definisce in questi termini l’impasse che impedisce agli Ebrei di Praga l'accesso alla scrittura e fa della loro letteratura qualcosa d'impossibile; impossibilità di non scrivere, impossibilità di scrivere in tedesco, impossibilità di scrivere in un'altra lingua.[1] Impossibilità dinon scrivere perché la coscienza nazionale, incerta o oppressa, passa necessariamente attraverso la letteratura – la battaglia letteraria acquista una giustificazione reale sulla massima scala possibile. La impossibilità di scrivere in una lingua diversa dal tedesco è per gli Ebrei di Praga il sentimento di una distanza irriducibile rispetto alla primaria territorialità ceca.
E l'impossibilità di scrivere in tedesco è la deterritorializzazione della popolazione tedesca stessa, minoranza oppressiva che parla una lingua staccata dalle masse, come un “linguaggio di carta” o artificiale; a maggior ragione gli Ebrei, che fanno parte di questa minoranza ma ne sono anche esclusi, quasi come zingari che abbiano strappato il bambino tedesco dalla culla. Insomma, il tedesco di Praga è deterritorializzato, adattato a strani usi minori (si veda, in un diverso contesto, cosa possono fare i Negri con l’americano).
Il secondo carattere delle letterature minori consiste nel fatto che in esse tutto è politica. Nelle “grandi” letterature, invece, il fatto individuale (familiare, coniugale, ecc.) tende a congiungersi con altri fatti altrettanto individuali, mentre il contesto sociale serve solo da contorno e sfondo; ne deriva che nessuno dei fatti edipici in particolare è indispensabile, o assolutamente necessario, ma tutti “fanno blocco” in uno spazio allargato. La letteratura minore è tutta diversa: l’esiguità del suo spazio fa sì che ogni fatto individuale sia immediatamente innestato sulla politica. Il fatto individuale diviene quindi tanto più necessario, indispensabile, ingrandito al microscopio, quanto più in esso si agita una storia ben diversa. In questo senso, appunto, il triangolo familiare si connette agli altri triangoli, commerciali, economici, burocratici, giuridici, che ne determinano i valori. Quando Kafka indica fra gli scopi di una letteratura minore “l’epurazione del conflitto che oppone padri e figli e la possibilità di discuterne," il suo non è un fantasma edipico ma un programma politico. "Anche se il singolo fatto è pensato e ripensato con calma, non si arriva ai suoi limiti dove esso è collegato con fatti di uguale natura; più facile è raggiungere il limite di fronte alla politica, anzi si tende persino a vedere questo limite prima che ci sia, e, spesso, a trovare dappertutto questo limite che si contrae. […] Ciò che nell'ambito di grandi letterature sisvolge in basso e costituisce una cantina non indispensabile all'edificio, avviene qui in piena luce; ciò che là fa nascere un momentaneo affollamento, provoca qui nientemeno che una decisione di vita o di morte." (J., 302-3)
Nella letteratura minore, infine – ed è questo il terzo carattere – tutto assume un valore collettivo. Infatti, proprio per la carenza, in essa, di talenti, non si danno le condizioni di una enunciazione individuata, che potrebbe essere per esempio quella dell’uno o dell’altro maestro e che potrebbe venir separata dall’enunciazione collettiva. La relativa mancanza di talenti finisce così per avere un effetto benefico e permette di concepire qualcosa di diverso da una letteratura di maestri: ciò che lo scrittore, da solo, dice, costituisce già un’azione comune e ciò che dice o fa è necessariamente politico, anche se gli altri non sono d’accordo. Il campo politico ha contaminato ogni enunciato. Ma soprattutto – ed è ciò che più conta – dal momento che la coscienza collettiva o nazionale è “spesso inattiva nella vita esterna e sempre in via di disgregazione," la letteratura viene ad assumere positivamente su di sé questo ruolo e questa funzione di enunciazione collettiva, e addirittura rivoluzionaria. È la letteratura che produce una solidarietà attiva, malgrado lo scetticismo; e se lo scrittore resta ai margini, o al di fuori, della sua fragile comunità, questa situazione lo aiuta ancor di più a esprimere un'altra comunità potenziale, a forgiare gli strumenti di un’altra coscienza e di un'altra sensibilità. Come il cane delle Indagini, che dalla sua solitudine fa appello a un'altra scienza. La macchina letteraria prende il posto di una macchina rivoluzionaria a venire non certo per ragioni ideologiche ma perché è la sola ad essere determinata a soddisfare le condizioni di un’enunciazione collettiva che, in quell’ambito, non sono presenti da nessun’altra parte: la letteratura è affare del popolo.[2] È proprio in questi termini che il problema si pone per Kafka. L'enunciato non rimanda a un soggetto d'enunciazione che ne sarebbe la causa, e neppure a un soggetto d'enunciato che ne sarebbe l'effetto. Indubbiamente, per un certo periodo, Kafka ha pensato secondo le tradizionali categorie dei due soggetti, autore e eroe, narratore e personaggio, sognatore e sognato.[3] Ma egli rinuncerà presto al principio del narratore, proprio come rifiuterà, malgrado l'ammirazione per Goethe, una letteratura d'autore o di maestri. Giuseppina la cantante-topo rinuncia all'esercizio individuale del suo canto per fondersi nell'enunciazione collettiva dell’innumerevole moltitudine degli eroi di [sua] gente. (R., 597) Passaggio dall’animale individuato alla muta o alla molteplicità collettiva: sette cani musicanti. Sempre nelle Indagini di un cane gli enunciati del solitario ricercatore tendono al concatenamento di un'enunciazione collettiva della specie canina, anche se questa collettività non è più – o non è ancora – data. Non c'è soggetto, ci sono solo concatenamenti collettivi d’enunciazione –e la letteratura esprime tali concatenamenti nelle condizioni in cui non sono dati al di fuori, e in cui esistono soltanto come potenze diaboliche a venire o come forze rivoluzionarie da costruire. Kafka è portato dalla sua solitudine ad aprirsi a tutto ciò che traversa la storia dei giorni nostri. La lettera K non designa più né un narratore né un personaggio ma un concatenamento tanto più macchinistico,[4] un agente che è collettivo nella misura in cui un individuo vi si trova innestato nella sua solitudine – solo in rapporto a un soggetto l’individuale diverrebbe separabile dal collettivo e potrebbe fare per suo conto gli affari propri.
I tre caratteri della letteratura minore sono quindi la deterritorializzazione della lingua, l'innesto dell'individuale sull'immediato-politico, il concatenamento collettivo d'enunciazione. Ciò equivale a dire che l’aggettivo "minore" non qualifica più certe letterature ma le condizioni rivoluzionarie di ogni letteratura all’interno di quell’altra letteratura che prende il nome di grande (o stabilita). Anche chi ha la sventura di nascere nel paese d'una grande letteratura deve scrivere nella propria lingua come un ebreo ceco scrive in tedesco, o come un uzbeko scrive in russo. Scrivere come un cane che fa il suo buco, come un topo che scava la sua tana. E, a tal fine, trovare il proprio punto di sotto-sviluppo, un proprio dialetto, un terzo mondo, un deserto tutto per lui. Si è discusso a lungo sul problema di cosa sia una letteratura marginale – o anche una letteratura popolare, proletaria e via dicendo. I criteri sono ovviamente molto difficili da stabilire se non si passa innanzitutto attraverso un concetto più obiettivo, quello di letteratura minore. È soltanto la possibilità di instaurare dall’interno un esercizio minore d’una lingua anche maggiore che permette di definire popolare, marginale ecc. una letteratura.[5] Solo a queste condizioni la letteratura diviene realmente macchina collettiva d’espressione e riesce a trattare, a coinvolgere i contenuti. Kafka dice precisamente che una letteratura minore riesce molto meglio delle altre a elaborare la materia.[6] Perché? e cos'è questa macchina d'espressione? Sappiamo che essa ha con la lingua un rapporto di deterritorializzazione molteplice: èla situazione degli Ebrei che hanno abbandonato il ceco insieme all'ambiente rurale, ma anche della lingua tedesca intesa come “linguaggio di carta”.
[…] Egli opterà per la lingua tedesca di Praga, così com’è, nella sua povertà stessa. Andare sempre più avanti nella deterritorializzazione... a forza di sobrietà. Poiché il vocabolario è disseccato, farlo vibrare in intensità. Opporre un uso puramente intensivo della lingua ad ogni uso simbolico, o significativo, o semplicemente significante. Arrivare a una espressione perfetta e non formata, un'espressione materiale intensa. […]
Quante persone vivono ancor oggi in una lingua che non è la loro? Oppure non conoscono neppure la loro, e conoscono male la lingua maggiore di cui sono costretti a servirsi? È il problema degli immigrati, e soprattutto dei loro figli. È il problema delle minoranze. Problema d’una letteratura minore e tuttavia anche nostro, di noi tutti: come strappare alla propria lingua una letteratura minore, capace di scavare il linguaggio e di farlo filare lungo una sobria linea rivoluzionaria? Come diventare il nomade, l'immigrato e lo zingaro della propria lingua? Kafka parla di strappare il bambino dalla culla, ballare su una corda tesa.
Ricco o povero che sia, un linguaggio qualsiasi implica sempre una deterritorializzazione della bocca, della lingua e dei denti. La bocca, la lingua e i denti trovano la loro territorialità primitiva negli alimenti. Votandosi all’articolazione dei suoni, la bocca, la lingua e i denti si deterritorializzano. Vi è dunque una certa disgiunzione tra mangiare e parlare – e, ancor di più, malgrado le apparenze, fra mangiare e scrivere: è certo possibile scrivere mangiando, è più facile che parlare mangiando, ma la scrittura trasforma in maggior misura le parole in cose capaci di competere con gli alimenti. Disgiunzione fra contenuto ed espressione. Parlare, e, soprattutto, scrivere, significa digiunare. Kafka dimostra una persistente ossessione dell’alimento, e di quell'alimento per eccellenza che è l'animale o la carne, l'ossessione del macellaio, e dei denti, dei grandi denti sporchi o dorati.[7] […]
Di solito, in effetti, la lingua compensa la sua deterritorializzazione con una riterritorializzazione nel senso. Una volta cessato di essere organo di un senso, essa diviene strumento del Senso. Ed è il senso, come senso proprio, che presiede all’assegnazione di designazione ai suoni (la cosa o lo stato di cose che la parola designa) e, come senso figurato, all'assegnazione di immagini e metafore (le altre cose alle quali la parola si applica sotto certi aspetti o certe condizioni). Di riterritorializzazioni non ce n'è quindi una soltanto, spirituale, nel "senso", ma un'altra, fisica, attraverso questo stesso senso. Parallelamente, il linguaggio esiste solo attraverso la distinzione e la complementarità di un soggetto di enunciazione, rispetto al senso, e di un soggetto d’enunciato, rispetto alla cosa designata, direttamente o metaforicamente. Questo uso ordinario del linguaggio può essere definito estensivoo rappresentativo: funzione riterritorializzante del linguaggio – così il cane cantante della fine delle Indagini costringe l'eroe a abbandonare il suo digiuno, una specie di riedipizzazione, insomma.
Ed ecco, la situazione del tedesco di Praga, come lingua disseccata, mescolata al ceco o allo jiddish, offrirà a Kafka la possibilità di una delle sue invenzioni. Se le cose stanno così ("è così, è così," formula cara a Kafka, protocollo di uno stato di fatto...), si abbandonerà il senso, lo si sottintenderà, per conservarne soltanto uno scheletro, o una sagoma di carta:
1) Mentre il suono articolato era un rumore deterritorializzato, che però si riterritorializzava nel senso, ora è il suono stesso che si accinge a deterritorializzarsi senza contropartita, assolutamente. Il suono o la parola che traversano questa nuova deterritorializzazione non sono linguaggio sensato, benché da esso derivino, e tanto meno una musica o un canto organizzato, benché in parte ne rendano l'effetto. Abbiamo già visto il pigolio di Gregorio che confonde le parole, il fischio di Giuseppina, la tosse della scimmia; ma anche il pianista che non suona, la cantante che non canta e fa nascere il suo canto dal fatto stesso di non cantare, i cani musicanti, la cui musicalità è diffusa in tutto il corpo nella misura in cui non emettono musica. Dappertutto la musica organizzata è traversata da una linea di abolizione, come il linguaggio sensato da una linea di fuga, per liberare una materia vivente espressiva che parla da sé e non ha più alcun bisogno di essere formata.[8] Questo linguaggio strappato al senso, conquistato sul senso, cheopera una neutralizzazioneattiva del senso, trova la propria direzione solo in un accento di parola, in un’inflessione: “Vivo soltanto qua e là in una parolina nella cui vocale, per esempio, perdo un istante la mia testa inutile. La prima e l'ultima lettera sono principio e fine del mio pesciforme sentimento."[9] I bambini sono molto abili in quell'esercizio che consiste nel ripetere una parola di cui s'intuisce solo vagamente il senso, per farla vibrare su se stessa (all'inizio del Castello, i bambini della scuola parlano tanto in fretta che non si capisce quello che dicono). Kafka racconta come, da bambino, ripetesse fra sé un'espressione del padre ("ultimo del mese, ultimo del mese"[10]) per farla filare su una linea di nonsenso. Il nome proprio, che non ha un senso di per se stesso, è particolarmente adatto a questo esercizio: Milena, con l'accento sulla i, ricorda in principio "un greco o un romano smarritosi in Boemia, violentato in ceco, ingannato nell'accento"; poi, con un'approssimazione più fine, evoca "una donna che si porta sulle braccia fuori dal mondo, fuori dal fuoco," e il forte accento sulla i indica allora la caduta sempre possibile o, al contrario, "il balzo di felicità che io stesso faccio con questo peso."[11]
2) Riteniamo che vi sia una certa differenza, relativa e sfumata finché si vuole, fra le due evocazioni del nome Milena; l'una è ancora connessa a una scena estensiva e figurata, del tipo fantasma; l'altra è già molto più intensiva e segna una caduta o un salto come soglia d'intensità compresa nel nome stesso. In effetti, come dice Wagenbach, quando il senso è attivamente neutralizzato, accade che "la parola regna sovrana e fa scaturire direttamente l'immagine." Ma come definire questo procedimento? Del senso resta soltanto quanto basta a dirigere le linee di fuga. Non c'è più designazione di qualcosa sulla base di un senso proprio, né assegnazione di metafore in base a un senso figurato. Ma la cosa come le immagini forma soltanto una sequenza di stati intensivi, una scala o un circuito di intensità pure che si può percorrere in un senso o nell'altro, dall'alto verso il basso o dal basso verso l'alto. L'immagine è questo percorso stesso, essa è divenuta divenire: divenir-cane dell'uomo e divenir-uomo del cane, divenir-scimmia o coleottero dell'uomo, e viceversa. Noi non ci troviamo più di fronte ad una comune lingua ricca, in cui per esempio il termine cane designa direttamente un animale e si applica per metafora ad altre cose di cui si potrebbe dire che sono "come un cane."[12] Diari, 6 dicembre 1921: "Le metafore sono una delle tante cose che mi fanno disperare dei miei scritti." Kafka sopprime deliberatamente ogni metafora, ogni simbolismo, ogni significazione come ogni designazione. La metamorfosi è il contrario della metafora. Non c’è più né senso proprio né senso figurato ma distribuzione di stati nel ventaglio della parola. La cosa e le altre cose non sono ormai che intensità percorse dai suoni o dalle parole deterritorializzate secondo la loro linea di fuga. E non si tratta d’una rassomiglianza fra il comportamento d'un animale e quello d'un uomo, e tanto meno di un gioco di parole. Non c'è più né uomo né animale, perché l'uno deterritorializza l'altro in una congiunzione di flusso, in un continuum di intensità reversibile. Siamo di fronte a un divenire che comprende al contrario il massimo di differenza come differenza di intensità, oltrepassamento di una soglia, innalzamento o caduta, abbassamento o erezione, accento di parola. L'animale non parla "come" un uomo, ma estrae dal linguaggio delle tonalità prive di significazione; le parole stesse non sono “come” degli animali, ma strisciano per loro conto, abbaiano e pullulano, essendo propriamente cani linguistici, insetti o topi.[13] Far vibrare delle sequenze, aprire la parola su intensità inaudite, insomma, un uso intensivo asignificante della lingua. Ovvero, non c’è più soggetto d'enunciazione né di enunciato: non è più ilsoggetto d’enunciato a essere un cane, mentre il soggetto d'enunciazione resterebbe "come" un uomo; non è più il soggetto di enunciazione ad essere "come" uno scarafaggio, mentre il soggetto d'enunciato resterebbe un uomo; ma è un circuito di stati che forma un mutuo divenire all’interno di un concatenamento necessariamente molteplice o collettivo.
In che senso la situazione del tedesco di Praga – vocabolario disseccato, sintassi scorretta – favorisce quest'uso? Si potrebbero chiamare in linea di massima intensivi o tensori gli elementi linguistici, per vari che siano, che esprimono “tensioni interne d'una lingua." In questo senso, appunto, il linguista Vidal Sephiha definisce intensivo "ogni strumento linguistico che permette di tendere verso il limite d'una nozione o di superarlo”, segnando un movimento della lingua verso gli estremi, verso un al di là o un al di qua reversibili.[14] Vidal Sephiha illustra bene la varietà di questi elementi che possono essere parole passe-partout, verbi o preposizioni che possono assumere un senso qualsiasi; verbi pronominali, o propriamente intensivi, come in ebraico; congiunzioni o interiezioni, avverbi: termini che connotano il dolore.[15] E si potrebbero anche citare gli accenti interni alle parole con la loro funzione discordante. Ora, a quanto risulta, una lingua di letteratura minore sviluppa in modo particolare questi tensori o questi intensivi. Wagenbach, nelle bellissime pagine in cui analizza iltedesco di Praga influenzato dal ceco, ricorda fra le caratteristiche salienti: l'uso erroneo di alcune preposizioni; l'abuso del prenominale; il ricorso a verbi passe-partout (ad esempio Geben per la serie “mettere, sedere, posare, togliere," che diviene così intensiva); la moltiplicazione e la successione degli avverbi; l’impiego di connotazioni dolorifere; l'importanza dell’accento come tensione interna alla parola, infine la distribuzione delle consonanti e delle vocali come discordanza interna. Wagenbach insiste poi sul fatto che tutti questi tratti di povertà sono presenti in Kafka, che tuttavia ne fa un uso creativo, mettendoli al servizio d'una sobrietà nuova, di una nuova espressività, di una nuova flessibilità, di una nuova intensità.[16] "Quasi nessuna delle parole che scrivo è adatta alle altre, sento come le consonanti stridono fra di loro con suono di latta e le vocali le accompagnano col canto come negri all'esposizione."[17] Il linguaggio cessa di essere rappresentativo per tendere verso i suoi limiti o i suoi estremi.La connotazione di dolore accompagna questa metamorfosi, come quando le parole divengono pigolio doloroso in Gregorio, o come il grido di Franz, "tutto d'un fiato e su un solo tono." Si pensi all'uso del francese come lingua parlata nei film di Godard. Anche qui accumulazione di avverbi e di congiunzioni stereotipate, che finiscono per costituire tutte le frasi: strana povertà, che fa del francese una lingua minore in francese; procedimento creativo che innesta direttamente la parola sull'immagine; mezzo che sorge in fine di sequenza, in relazione con l'intensivo del limite "basta, basta, ne ho piene le scatole"; l'intensificazione generalizzata, coincidente con una panoramica in cui la macchina da presa gira e spazza il campo senza spostarsi, facendo vibrare le immagini.
Può darsi che lo studio comparato delle lingue sia meno interessante di quello delle funzioni del linguaggio che possono esercitasi per un medesimo gruppo attraverso lingue diverse: bilinguismo, e persino multilinguismo. In effetti questo studio delle funzioni che possono incarnarsi in lingue distinte è il solo a tener conto direttamente dei fattori sociali, dei rapporti di forza, dei diversissimi centri di potere. Tale studio sfugge al mito “informativo” e valuta il sistema gerarchico e imperativo del linguaggio come trasmissione di ordini, esercizio del potere o resistenza a questo esercizio. Basandosi sulle ricerche di Ferguson e di Gumperz, Henri Gobard propone per parte sua un modello tetralinguistico: la lingua vernacolare, materna o territoriale, di comunità o di origine rurale; la lingua veicolare, urbana, statale o anche mondiale, lingua di società, di scambio commerciale, di trasmissione burocratica, ecc., la lingua di prima deterritorializzazione; la lingua referenziale, lingua del senso e della cultura, operatrice di una riterritorializzazione culturale; la lingua mitica all'orizzonte delle culture, lingua di riterritorializzazione spirituale e religiosa. Le categorie spazio-temporali di tali lingue si distinguono pressappoco nel seguente modo: la lingua vernacolare è qui; la veicolare dappertutto; la referenziale là; la mitica, al di là. Ma, soprattutto, la distribuzione delle lingue stesse varia da un gruppo all'altro, e, per uno stesso gruppo, da un epoca all’altra (prima di diventare lingua referenziale, poi mitica, il latino fu per molto tempo in Europa una lingua veicolare; l'inglese è oggi la lingua veicolare mondiale).[18] Ciò che può essere detto in una lingua non può esserlo in un’altra, e l’insieme di ciò che può essere detto e di ciò che non può esserlo varia necessariamente secondo le lingue e i rapporti che fra di esse si stabiliscono.[19] Inoltre, tutti questi fattori possono avere delle frange ambigue, con suddivisioni mobili, che differiscono in questa o quella materia. Una lingua può assolvere una certa funzione in questa materia, un'altra in un'altra materia. Ciascuna funzione di linguaggio si suddivide a sua volta e comporta molteplici centri di potere. Un miscuglio di lingue, non certo un sistema del linguaggio. E quindi comprensibile l’indignazione degli integralisti cui spiace che si dica messa in francese perché il latino viene destituito dalla sua funzione mitica. Ma la Società degli Abilitati è ancora più in ritardo e deplora che il latino sia stato destituito persino dalla sua funzione culturale referenziale. Si rimpiangono con questo quelle forme di potere, ecclesiastico o accademico, che si esercitavano attraverso tale lingua, e che oggi sono state ormai sostituite da altre forme. Ma ci sono degli esempi più seri che traversano i gruppi. Il risveglio dei regionalismi, con riterritorializzazione a mezzo dialetto o linguaggio locale, lingua vernacolare: in cosa fa il gioco di una tecnocrazia mondiale o sopra-statale; in cosa può giovare a movimenti rivoluzionari, poiché anch'essi si portano dietro degli arcaismi cui tentano di iniettare un senso attuale... Da Servan-Schreiber al bardo bretone, al cantore canadese francofono. D'altra parte la frontiera non passa neppure di qui, perché il cantore canadese può anche fare la più reazionaria delle riterritorializzazioni, la più edipica, ohi cara mamma, patria mia, la casetta mia, ohilí ohilà. Proprio come dicevamo, un pasticcio, una storia imbrogliata, una faccenda politica, che i linguisti non conoscono affatto, che non vogliono conoscere – perché loro, in quanto linguisti, sono “apolitici”, studiosi puri. Anche Chomsky non fa che compensare il suo apoliticismo di scienziato con la coraggiosa lotta contro la guerra del Vietnam.
Torniamo alla situazione dell'impero austro-ungarico. Lo sfacelo e il crollo dell'impero accelerano la crisi, accentuano dappertutto i movimenti di deterritorializzazione e suscitano riterritorializzazioni complesse, arcaizzanti, mitiche o simbolistiche. Citeremo, fra i contemporanei di Kafka, i primi che ci vengono in mente: Einstein e la sua deterritorializzazione della rappresentazione dell'universo (Einstein insegna a Praga, e il fisico Phillipp Frank vi tiene una serie di conferenze, cui assiste lo stesso Kafka); i teorici austriaci della dodecafonia, e la loro deterritorializzazione della rappresentazione musicale (il grido di morte di Maria in Woyzeck, o quello di Lulu, oppure il si doppio, ci sembrano percorrere una via musicale assai vicina per certi aspetti a Kafka); il cinema espressionista, e il suo doppio movimento di deterritorializzazione e di riterritorializzazione dell'immagine (Robert Wiene, di origine greca, Fritz Lang, nato a Vienna, Paul Wegener e il suo uso di temi praghesi). Aggiungiamo ovviamente la psicanalisi a Vienna, la linguistica a Praga.[20] Qual è la situazione peculiare degli Ebrei di Praga in rapporto alle "quattro lingue"? La lingua vernacolare è, per questi Ebrei trapiantati dalla campagna, il ceco, che tuttavia tende a essere dimenticato e rimosso; quanto allo jiddish, è quasi sempre disprezzato o temuto, fa paura, come dice Kafka. Il tedesco è la lingua: veicolare delle città, lingua burocratica di Stato, lingua commerciale di scambio (ma già l’inglese comincia a diventare indispensabile a tale funzione). Il tedesco di nuovo, ma questa volta il tedesco di Goethe, ha una funzione culturale e referenziale (seguito, a qualche distanza, dal francese). L'ebraico è la lingua mitica – siamo infatti agli albori del sionismo, che si presenta ancora come sogno attivo. Per ciascuna di queste lingue andranno valutati i coefficienti di territorialità, di deterritorializzazione, di riterritorializzazione. La situazione dello stesso Kafka: uno dei pochi scrittori ebrei di Praga a conoscere e parlare il ceco – e questa lingua avrà una grande importanza nei suoi rapporti con Milena. Il tedesco svolge nel caso di Kafka proprio la doppia funzione di lingua veicolare e culturale con Goethe sempre all'orizzonte) – ma Kafka sa anche il francese, l'italiano, e indubbiamente un po’ d’inglese. L’ebraico, invece, lo imparerà solo più avanti. Più complicato è invece il rapporto con lo jiddish: in esso Kafka vede infatti non tanto una specie di territorialità linguistica per gli Ebrei quanto un movimento di deterritorializzazione nomade che travaglia il tedesco. Ad affascinarlo nello jiddish non è tanto una lingua di comunità religiosa, bensì una lingua di teatro popolare (Kafka divenne mecenate e impresario della troupe ambulante di Jizschak Löwy).[21] Degno di nota è il modo in cui Kafka presenta lo jiddish in una conferenza pronunciata di fronte a un pubblico di borghesi ebrei piuttosto ostili: lo jiddish è una lingua che fa paura più ancora che ribrezzo, "una paura non priva di avversione"; una lingua senza grammatica, che vive di vocaboli rubati, mobilizzati, emigrati, divenuti nomadi interiorizzando "dei rapporti di forza"; una lingua innestata sul medio alto tedesco, che lavora il tedesco talmente dall'interno che non si può tradurla in tedesco senza farla scomparire; si può capire lo jiddish solo "sentendolo," e con il cuore. Insomma, lingua intensiva o uso intensivo del tedesco, lingua o uso minori che devono travolgervi. “Allora sentirete la vera unità dello jiddish, e così forte, che avrete paura, ma non più dello jiddish: di voi stessi [...] Godetene meglio che potete!"[22]
Kafka non si orienta verso una riterritorializzazione attraverso il ceco; né verso un uso iperculturale del tedesco reso ancor più dotto dall'immissione di elementi onirici, simbolici e mitici, anche ebraicizzanti, come nella scuola di Praga; né verso uno jiddish orale e popolare; piuttosto egli prende la strada mostrata dallo jiddish in un modo ben diverso, per piegarla a una scrittura unica e solitaria. Poiché il tedesco di Praga è deterritorializzato a vari livelli, si andrà ancora più avanti, in intensità, ma nel senso di una nuova sobrietà, di una nuova inaudita correzione, di una rettificazione spietata, rialzare la testa. Gentilezza schizo, ebbrezza all'acqua pura.[23] Si farà filare il tedesco su una linea di fuga, ci si riempirà di digiuno, si strapperanno al tedesco di Praga tutti i punti di sotto-sviluppo che si tiene nascosti, lo si farà gridare, d’un grido sobrio e rigoroso. Si trarrà da esso il latrato del cane, la tosse della scimmia e il ronzio del maggiolino. Si farà una sintassi del grido, che si unirà alla sintassi rigida di questo tedesco disseccato. Lo si spingerà sino a una deterritorializzazione che non sarà più compensata dalla cultura o dal mito, una deterritorializzazione assoluta, anche se lenta, coagulata, vischiosa. Trascinare lentamente, progressivamente, la lingua del deserto. Servirsi della sintassi per gridare, dare al grido una sintassi.Di grande, di rivoluzionario non c'è che il minore. Odiare ogni letteratura dei padroni. Attrazione di Kafka per i servi e gli impiegati – stessa cosa, in Proust, per i servi e il loro linguaggio. Ma, altrettanto interessante, la possibilità di fare della propria lingua – posto che sia l’unica, e che sia stata, una lingua maggiore – un uso minore. Essere nella propria lingua come uno straniero – è questa la situazione del Grande Nuotatore di Kafka.[24] Anche unica, una lingua resta un pasticcio, un miscuglio schizofrenico, un costume di Arlecchino attraverso il quale si esercitano delle funzioni di linguaggio molto differenti e dei centri di potere distinti, che suggeriscono ciò che può essere detto e ciò che non può: si userà una funzione contro l'altra, si faranno giocare i coefficienti di territorialità e di deterritorializzazione relativi. Anche se maggiore, una lingua può prestarsi a un uso intensivo che la faccia filare secondo linee di fuga creatrici, un uso che, per lento e cauto che sia, formi una deterritorializzazione, assoluta, questa volta. Quanta invenzione, e non solo invenzione lessicale – il lessico conta poco – ma sobria invenzione sintattica, per scrivere come un cane (“Ma un cane non scrive." – “Appunto, appunto”); ciò che Artaud ha fatto delfrancese, il grido-soffio; ciò che Céline ha fatto del francese, seguendo un'altra linea, l'esclamativo spinto all'estremo. L'evoluzione sintattica di Céline: dal Voyage a Mort à crédit, poi da Mort à crédit sino a Guignol's band I – dopo, Céline non ebbe più niente da dire, a parte le sue disgrazie, non ebbe cioè più voglia di scrivere, aveva solo bisogno di soldi. E vanno sempre a finire così le linee di fuga del linguaggio: il silenzio, l’interrotto, l'interminabile, o peggio. Ma che creazione folle intanto, che macchina di scrittura! Tutti lodavano ancora Célineper il Voyage quando lui era già molto più avanti, in Mort à crédit, poi nel prodigioso Guignol's Band,in cui la lingua aveva ormai solo intensità. Céline parlava della "musichetta." Anche Kafka è solo “musichetta," un'altra, ma sempre una musica di suoni deterritorializzati, un linguaggio che fila via con la testa in avanti, facendo capriole. Ecco dei veri autori minori. Una via d'uscita per il linguaggio, per la musica, per la scrittura. È quello che si chiama Pop – musica Pop, filosofia Pop, scrittura Pop: Wórterflucht. Servirsi del polilinguismo nella propria lingua, fare di essa un uso minore o intensivo, opporre il carattere oppresso di questa lingua al suo carattere oppressivo, trovare i punti di non-cultura e di sottosviluppo, le zone linguistiche di terzo mondo attraverso le quali una lingua sfugge, un animale si inserisce, un concatenamento si innesta. Quanti stili, o generi, o movimenti letterari, anche minimi, sognano una cosa sola: assolvere una funzione maggiore del linguaggio, offrire i propri servizi come lingua di Stato, lingua ufficiale (la psicanalisi di oggi, che si presenta come padrona del significante, della metafora e del gioco di parole). Fare il sogno contrario: saper creare un divenir-minore – c’è una chance per quella filosofia che per secoli formò un genere ufficiale e referenziale? Oggi l'antifilosofia vuol essere linguaggio del potere. Approfittiamone.



[1] Cfr. la lettera a Brod del giugno 1921 (E., 396-400) e il commento di K. Wagenbach, op. cit., p. 84.
[2] Diari, 25 dicembre 1911 (J., p. 298):"La letteratura non riguarda tanto la storia letteraria quanto il popolo.”
[3] Cfr. Preparativi di nozze in campagna (R., 58): "Fino a che dici si anziché io la cosa può andare." E i due soggetti riappaiono più avanti (R., 60): "Non ho neppure bisogno di andare proprio io in campagna, non é necessario. Vi mando il mio corpo vestito," mentre il narratore rimane a letto come un coleottero, un cervo volante o un maggiolino. Probabilmente abbiamo qui una delle origini del divenir-coleottero di Gregorio nella Metamorfosi. Kafka, d'altra parte, rinuncia a raggiungere Felice e preferisce restare a letto. Ma, appunto nella Metamorfosi, l'animale assume il valore di un vero e proprio divenire e non qualifica più in alcun modo il ristagnare d'un soggetto d'enunciazione.
[4] In francese, machinique (N.d.T.).
[5] Cfr. M. Ragon, Histoire de la littérature prolétarienne en France, éd. Albin Michel, a proposito della difficoltà dei criteri e della necessità di passare attraverso il concetto di "letteratura di seconda zona."
[6] Diari, 25 dicembre 1911 (J., 298): “La memoria di una nazione piccola non è minore di quella di una grande e perciò elabora più a fondo la materia esistente."
[7] Il tema dei denti ritorna costantemente in Kafka. Il nonno macellaio; la scuola al Fleischmarkt; le mascelle di Felice; il rifiuto di mangiar carne, salvo quando dorme con Felice, a Marienbad. Si veda l'articolo di Michel Cournot sul "Nouvel Observateur" del 17 aprile 1974: "Tu che ha dei denti così grandi." È uno dei più bei testi che mai siano stati scritti su Kafka. Un'opposizione di segno analogo, fra mangiare e parlare, è in Lewis Carroll, e anche qui si ha uno sbocco finale nel non senso.
[8] Il processo: "Infine si accorse che parlavano con lui, ma non capiva, sentiva soltanto il rumore che empiva il locale e sembrava attraversato da uno squillo alto e sempre uguale come quello di una sirena." (384)
[9] Diari, 20 agosto 1911 (J., 169-70).
[10] Diari, 24 dicembre 1911 (J. 294): "Senza pretendere anche un significato, quell'espressione l'ultimo rimase per me un penoso mistero." Tanto più che si ripeteva tutti i mesi – lo stesso Kafka suggerisce che tale espressione rimaneva priva di senso per pigrizia e "leggera curiosità." Spiegazione negativa che fa ricorso a una mancanza o impotenza puntualmente ripresa da Wagenbach. Eppure è normale per Kafka presentare, o nascondere, così gli oggetti della propria passione.
[11] Lettere a Milena (E., 686). Attrazione di Kafka per i nomi propri, a cominciare da quelli che egli stesso inventa; cfr. J., 376-7, a proposito dei nomi propri della Condanna.
[12] Le interpretazioni dei commentatori di Kafka sono a questo proposito tanto più cattive quanto più si fondano su metafore. Marthe Robert, per esempio, ricorda che gli Ebrei sono come cani e, più avanti, afferma "tutti trattano l'artista come un morto di fame e Kafka ne fa un campione di digiuno; o come un parassita, ed egli ne fa un enorme ammasso di vermi" (Oeuvres complètes, cit., t.V., p. 311). Ci sembra che sia questa una concezione troppo semplicistica della macchina letteraria – Robbe-Grillet ha peraltro insistito sulla distruzione di ogni metafora operata da Kafka.
[13] Si veda per esempio la lettera a O. Pollak del 20 dicembre 1902 (E., 10-2).
[14] Cfr. H. Vidal Sephiha, Introduction à l'étude de l'intensif, in "Langages." La parola "tensore" è tratta dal lessico di J.-F. Lyotar, che se ne serve per indicare il rapporto dell'intensità e della libido.
[15] Cfr. H. Vidal Sephiha, op. cit.: "Possiamo pensare che ogni formula che accompagna una nozione negativa di dolore, di male, di paura, di violenza possa sbarazzarsene per mantenete solo il suo valore limite, o intensivo": ne sarebbe un esempio il sehr tedesco, che deriva dal medio alto tedesco sêr, "doloroso."
[16] " Cfr. K. Wagenbach, op. cit., pp. 77-88.
[17] Diari, 15 dicembre 1910 (J., 140-1).
[18] H. Gobard, De la véhicularité de la langue anglaise,"Langues modernes," gennaio 1972(e Analyse tétraglossique, di prossima pubblicazione).
[19] Michel Foucault insiste sull'importanza della distribuzione fra ciò che può essere detto in una lingua in un momento dato e ciò che non può essere detto – anche se può essere fatto. Georges Dévereux (citato da H. Gobard) analizza il caso dei giovani Mohaves che parlano volentieri della sessualità nella loro lingua vernacolare ma ne sono incapaci nella lingua che è per loro veicolare, cioè in inglese; e ciò non accade soltanto perché il maestro inglese esercita una funzione repressiva, c’è qui un problema di lingue. Cfr. Essais d’ethnopsychiatrie générale, Gallimard, pp.125-6.)
[20] Sul circolo di Praga, e sull'influenza da esso esercitata in linguistica, si vedano i nn. 3 e 10 di "Change." (È vero che il circolo di Praga fu fondato soltanto nel 1926, ma Jakobson venne a Praga nel 1920 e vi trovò una scuola ceca già costituita e animata da Mathesius; tale scuola era legata anche ad Anton Marty, che aveva insegnato nelle università tedesche. Kafka seguì negli anni fra il 1902 e il 1905 i corsi di Marty, discepolo di Brentano, e partecipò alle riunioni dei brentanisti.)
[21] Sui rapporti di Kafka con Löwy e il teatro jiddish cfr. M. Brod, op. cit., pp. 129-31 e K. Wagenbach, op. cit., pp. 181-3. In questo teatro-pantomima dovevano esserci molte teste basse e teste sollevate.
[22] Discorso sulla lingua jiddish, J., 100-5.
[23] Il direttore d'una rivista afferma che la prosa di Kafka ha "una pulizia fanciullesca che bada a se stessa." Cfr. K. Wagenbach op.cit., p. 81.
[24] Il campione di nuoto è senz'altro uno dei testi più "beckettiani" di Kafka: "Per prima cosa voglio constatare che qui non mi trovo nella mia patria e che, nonostante i miei sforzi, non capisco una sola parola di quello che qui si dice." (J., 911).