Per noi Céline è il primo degli irregolari
di Luciano Lanna - 16/02/2010
Fonte: il Secolo d'Italia
Non c'è quasi giorno che sulle pagine (non solo) culturali dei grandi quotidiani non venga citato Céline. Solo a dare uno sguardo a quelli di ieri il nome del grande maledetto del Novecento era tirato fuori (con tanto di immancabile fotografia) sul Corriere della Sera, dove l'autore del Viaggio al termine della notte veniva scomodato come uno degli ispiratori del recente romanzo di Paolo Sorrentino, e su Messaggero, in cui lo stesso veniva considerato (insieme a Ezra Pound) uno dei classici pubblicati in Italia dallo storica casa editrice Scheiwiller. Ma gli esempi potrebbero continuare all'infinito sfogliando la qualsiasi collezione cronologica di qualsiasi testata. Di contro, c'è però il contemporaneo paradosso per il quale Céline viene considerato una sorta di reietto, quasi il prototipo dell'intellettuale militante e organico a una scelta totalitaria rispetto a quegli irregolari che rappresenterebbero ciò che resisterebbe "in positivo" della cultura del secolo scorso. Ma è un equivoco che cozza in realtà con tutta l'opera e la stessa biografia dello scrittore francese. Per fortuna è adesso arrivato un bel libro - Maledetto Céline. Un manuale del caos (Stampa Alternativa, pp. 240, € 13,00) - in cui Stefano Lanuzza riesce a dare ragione del "vero" Céline attraverso una specie di autobiografia ricavata dai testi dello scrittore, un'antologia tematica e la rassegna argomentata di tutte le opere del narratore. E dall'insieme dei materiali emerge la totale estraneità céliniana a qualsiasi appartenenza o incasellamento di parte. Per dirla tutta: forse nessuno quanto il romanziere di Meudon può essere assunto a modello di intellettuale "irregolare".
A parte l'estrema attualità delle pagine céliniane, in cui scorrono come in poche altre la descrizione delle banlieue - «dove ognuno s'asciuga i piedi, sputacchia bellamente, passa... dove il sorriso è vano, la fatica sprecata...» - o della crisi finanziaria internazionale o di epidemie di massa, Lanuzza ha il merito presentare Céline come il precursore dei nouveax philosophes della seconda metà degli anni Settanta, quei pensatori davvero irregolari che in controtendenza con le ideologie sino ad allora dominanti rifiutarono il rapporto con i vecchi partiti, contestarono la fede nella storia verbalizzata dagli interessi del potere, criticarono l'ottimismo del mito del progresso, la scienza manipolatrice e la tecnica che condizionava il comportamento e i consumi delle masse. Si pensi ad esempio alle tesi del famoso saggio La barbarie dal volto umano di Bernard-Henri Lévy. All'epoca, era il 1977, si cercarono gli ispiratori teorici in Solgenitsin, in Nietzsche, in Camus, in Lacan e Levi-Strauss... «Ma è possibile - ribatte oggi Lanuzza - che il sottaciuto guru, il vero "maestro nascosto", sia proprio quel Céline dagli imbarazzanti trascorsi». Tanto più che nel 1981 sulle pagine di Le Nouvel Observateur proprio Lévy, dopo essersi definito "célinista", arrivava esplicitamente a definire lo scrittore di Meudon «il più grande e il più attuale degli storici del Novecento, un secolo di cui egli è anche il sintomo e il rivelatore». Il più grande e attuale poiché, proprio ad anticipare di qualche decennio proprio i "nuovi filosofi", egli in tutti i suoi libri - continuava Lévy - dà una precisa idea di un certo universo occidentalizzato ancora «grondante di orrori, di crimini, di massacri» e col suo lessico metafilosofico precorre le analisi postideologiche sulla massificazione delle persone, ridotte «alla stregua di folle e greggi istupidite».
A questo accostamento ai "nuovi filosofi" andrebbe aggiunto il fatto che in Francia, sempre alla fine degli anni Settanta, usciva un libro di Pascal Ory, docente di storia all'università di Nanterre, intitolato L'anarchismo di destra, con un sottotitolo molto significativo: "Da Céline a Clint Eastwood", e in cui l'opera céliniana appariva come la chiave segreta della cinematografia di Sergio Leone, da Il buono, il brutto e il cattivo a Giù la testa. Non solo: lo sceneggiatore Luciano Vincenzoni - che per Leone scrisse proprio quei due film - nella sua autobiografia Pane e cinema (Gremese) ricorda: «Tra le motivazioni che mi hanno portato a fare cinema ce n'è una più forte delle altre: il mio incontro con Louis Destouches, in arte Céline. L'incontro fatale, la vera svolta. Avevo sedici anni, c'era la guerra, e una mattina, a Padova, dopo una grandinata di bombe americane, le sirene avevano dato il segnale di cessato allarme. Mi diressi verso casa, quando su una bancarella di libri usati vidi e comprai Viaggio al termine della notte, di Céline. Quella vecchia copia, polverosa e ingiallita, è anche ora davanti a me». Quel romanzo, prosegue lo sceneggiatore, è stato il sogno di tanti registi, lo avrebbero voluto realizzare Renoir, Carné, Clément...». E, alla fine, ci pensò anche Leone: «Aveva visto il romanzo sul mio tavolo, quella copia polverosa e ingiallita. Lo lesse e mi chiese cosa ne pensassi per un film. Gli comunicai il mio entusiasmo. E lui andò anche in Francia con l'intenzione di realizzarlo...».
Esempi, questi, che smontano e da subito lo stereotipo di un Céline reazionario, di estrema destra o addirittura filo-hitleriano. «Io - si legge in un passo di Bagattelle citato da Lanuzza - non sono un reazionario! Manco per un'unghia! Manco per un minuto! Tutti ti prendono subito per quello che non sei!». E d'altronde come si fa a considerare di estrema destra uno come Céline, le cui pagine - lo dimostra in pieno questo Maledetto Céline - traboccano di espliciti attacchi a tutti quei cosiddetti riferimenti che definirebbero la scala valoriale di qualsiasi reazionario?
Céline demolisce, nell'ordine: la scuola, l'esercito, la guerra, la famiglia, la fabbrica, la retorica della patria, il colonialismo, il modello americano, addirittura, nel 1958, la televisione... «La scuola - dice - non innalza nessuno, ma mutila, castra. È davvero il crimine peggiore rinchiudere i bambini per cinque e dieci anni a insegnargli le cose più vili, regole per stordirsi meglio, involgarirsi al massimo, limitare il loro entusiasmo...». Il suo Viaggio, il grande romanzo apparso nel 1932, in sostanza non era altro che una requisitoria, spiega Lanuzza, contro la retorica della patria, contro la borghesia, il perbenismo ipocrita, il capitalismo usuraio». Per gli stessi critici apparve come un «libro antimilitarista, anticolonialista, anarchico, nichilista, come il drammatico manuale di quel caos che, nell'Europa di primonovecento, avvolgeva l'umano consesso».
E che dire della sua profezia sulla tv? «È pericolosa per gli uomini. Presto - sosteneva nel 1958 - cambierà i modi di ragionare. È uno strumento ideale per la massa». Per non dire del suo giudizio sul nazismo: «Lo sbraitare hitleriano, quel romanticismo urlante, quel satanismo wahneriano mi è sempre parso osceno e insopportabile». Certo, contemporaneamente Céline definiva una «sciocchezza" la coscienza di classe: «`È un'invenzione demagogica. Ogni operaio chiede solo d'uscire dalla classe operaia, di diventare borghese nel modo più individuale possibile, conutti i più schifosi privilegi e infine con odio per la stessa classe operaia». È stato Fausto Bertinotti a riconoscere: «Ho imparato, leggendo Céline, l'intollerabilità della presunzione progressista». E, oltre ai nuovi filosofi, è del migliore '68 che il nostro - da autentico libertario - è stato un indubbio precursore: «Non a partire dalla scienze esatte, dal codice civile o dalle morali rigide, ma ricominciando tutto dalla belle arti, dall'entusiasmo, dall'emozione. Senza creazione continua, artistica, nessuna società è durevole...».
Grazie a Alberto Lombardo per la segnalazione!