"BAGATELLE PER UN MASSACRO", MEGLIO SAPERE O NON SAPERE?
Il caso è noto. L’assessorato alla Cultura prima supporta la presentazione di un saggio che prende in esame perché “Bagatelle per un massacro”, il testo di Louis-Ferdinand Céline del 1937 che in Italia quasi nessuno ha letto-perché censurato causa i contenuti antisemiti, poi, sulle rimostranze della “base” dei social network (e prima o poi del rapporto tra la giunta e facebook bisognerà scrivere qualcosa, perché affidarsi alla pancia non è sempre buona cosa per un amministratore), nega la presenza dell’assessore Stefano Boeri e spiega che la Sormani ha un programma di eventi autonomo (e ci mancherebbe altro che il palinsesto lo decidesse Boeri).
Coda o covone di paglia che sia, vorremmo un po’ più di pragmatismo. Bastava dare una scorsa al nome dei relatori (Marco Vallora, Giancarlo Pontiggia, Gian Paolo Serino, oltre al filosofo Franco De Benedetti, autore per Medusa di “Céline e il caso delle Bagatelle”), per capire che non si trattava di un convegno di Casa Pound. Il patrocinio di Palazzo Marino può andare dunque solo a quegli eventi incentrati su testi edificanti? Eppure nelle cineteche comunali è circolato più volte “Moloch” di Sokurov, incentrato sulla vita di coppia di Hitler e Eva Braun, e Leni Riefenstahl è stata premiata qualche anno fa a Palazzo dei Giureconsulti, con un riconoscimento alla carriera. Non è la stessa cosa, direte voi. E certamente gli esempi scelti sono volutamente grezzi. Perché di un tabù, e nulla di più, si tratta. Così come siamo interessati a osservare dallo spioncino il mènage extraconiugale del “mostro” Hitler, o a visionare le fotografie apologetiche del regime nazista di una talentuosa artista di propaganda, non vedo perché non si possa discutere serenamente sui motivi per cui oggi esiste ancora un libro all’indice, sui cui tutti esprimono un giudizio fermo, senza che nessuno l’abbia letto. Il motivo sta nel fatto che l’antisemitismo che vi è espresso è strettamente contiguo dal punto di vista temporale all’Olocausto. Questa è l’unica ragione.
Gian Paolo Serino ha ricordato in questi giorni che l’antisemitismo era diffuso tanto nella società americana quanto in quella europea sin dagli inizi del “secolo breve”. Era, aggiungiamo noi, altrettanto radicato nella civiltà cattolica, e i retaggi di quel radicamento si riscontrano ancora nel linguaggio e nella considerazione verso gli ebrei che caratterizza le aree “bianche” del nostro Paese. Nel caso di Céline, l’antisemitismo attraversava anche i romanzi, ma nessuno si è curiosamente mai messo ad analizzare da questo punto di vista “Viaggio al termine della notte” o “Morte a credito”. Eppure i testi di fiction di altri autori francesi, a partire da quello che, a torto o a ragione, è considerato l’erede di Céline, ossia Michel Houellebecq, da sempre sono passati alla lente d’ingrandimento, per provare a capire se il punto di vista dei protagonisti è in tal senso quello dell’autore. Da questo di punto di vista il dibattitto è particolarmente vivace. Può essere considerato decisivo al fine del giudizio ultimo sul valore dei romanzi dell’autore di “Piattaforma”, o venire liquidato come una pruderie, ma certamente nessuno si è mai sognato di mettere all’indice lo scrittore di punta di Flammarion. Ricordo invece una circostanza curiosa. La prima volta che mi procurai “Morte a Credito”, nella prima edizione italiana, quella di Garzanti del 1964, con la traduzione di Giorgio Caproni, il testo era censurato. Nel senso che ogni tanto il lettore incontrava degli spazi bianchi. Spesso si trattava di una sola parola, più raramente di intere frasi o periodi. Quelle cancellazioni non erano in alcun modo legate a passaggi di contenuto antisemita, e facevano riferimento piuttosto a situazioni scabrose, o utilizzavano termini allora “proibiti”. Di fatto dovemmo aspettare il 1997 per leggere la traduzione di Caproni nella sua integrità, grazie ai tipi di Tea (in precedenza c’era stata un’edizione Mondadori, nel 1987). Ma il fatto è che Ferdinand Bardamu era un alter ego di Céline. Altra cosa, nella percezione del lettore, è evidentemente un pamphlet, in cui non c’è possibile equivoco in merito tra la posizione di chi parla e quella dell’autore. È dunque solo una questione di codice? Quel che si può dire in un romanzo (i passi antisemiti non sono mai stati “sbianchettati”) non ha diritto di cittadinanza in un saggio? Evidentemente sì, per quanto poco voltairiano ci possa sembrare. Il paradosso è che così continueremo a non sapere se “Bagatelle per un massacro” è una sorta di “Mein Kampf” o meno. In Italia esiste un’edizione di “Bagatelle” pubblicata da Guanda nel 1981, che venne ritirata dalle librerie tre mesi dopo la pubblicazione, a seguito delle rimostranze della vedova Céline. Non si trattò dunque di un vero e proprio episodio di censura, quanto piuttosto di tutela-attraverso strumenti indebiti-dello status raggiunto dallo stesso Céline con il corpus complessivo della sua opera. Era sufficiente il pamphlet per sporcarla? La risposta è legata a quella che personalmente considero un’evidenza: se non fosse avvenuto l’Olocausto, “Bagatelle per un massacro” sarebbe un vergognoso testo antisemita, trascurato dalla critica, pubblicato magari da qualche oscuro editore. Credo per esempio che in pochi sappiano che contiene la presentazione di tre balletti ideati per L’Expo del 1937, “La naissance d'une fée”, “Voyou Paul”, “Brave Virginie” e “Van Bagaden”. E che fu proprio il rifiuto di questi balletti scatena la furia razzista di Ferdinand, protagonista del libro. Perché, e questa immagino sia una sorpresa per molti, “Bagatelle” contiene anche molti elementi di finzione letteraria, al punto che potremmo persino pensare che gli alter ego di Céline siano due, lo stesso Ferdinand e il dottor Gutman, con cui il protagonista dialoga (ricordiamo che l’autore esercitava la professione di medico). Ci sono poi diversi passaggi in cui vengono criticati tutti i totalitarismi, e accenni a quelle stesse posizioni pacifiste espresse nel suo primo romanzo. Un pamphlet ha convenzioni diverse da un saggio, genere per cui Céline, anzitutto per organizzazione sintattica della sua prosa, sarebbe stato negato. La prosa di “Bagatelle” vede infatti ricorrere spesso le sperimentazioni/convenzioni del secondo Céline, a partire naturalmente dai tre puntini. Per chi volesse affrontarne la lettura, la traduzione di Giancarlo Pontiggia si trova in rete, in versione Pdf. Da notare che, al contrario di “Mein Kampf”, il successo di pubblico di “Bagatelle” fu enorme, e proseguì anche negli anni dell’occupazione. La critica di destra lo accolse però con qualche sospetto, legato al carattere d’invettiva e alla mancanza di una struttura argomentativa. A sinistra venne massacrato. Con l’eccezione eccellente di Andrè Gide, che si rifiutò di credere all’autenticità delle intenzioni di Céline, e definì il testo una finzione letteraria, assolvendo il dottor Destouches dal peggiore dei suoi crimini.
Non ero presente al dibattito in Sormani. Immagino che di questo e di molto altro abbiano discusso i relatori. Resto dell’idea che Boeri dovrebbe occuparsi di altro, che senza il patrocinio del Comune la discussione su di un testo all’indice resta comunque un evento culturalmente rilevante, e che né il timbro di Palazzo Marino né la presenza dell’assessore avrebbero aggiunto nulla. Qualche anno fa Vinicio Capossella dedicò un intero disco alla cosiddetta “Trilogia del Nord”, i romanzi in cui Céline ricostruisce le peripezie in Danimarca dopo la fuga dalla Francia in quanto collaborazionista. Quasi nessuno si accorse che l’album (s’intitolava “Canzoni a Manovella”) era direttamente ispirato ai climi di “Da un castello all’altro” e agli altri testi di finzione scritti a Meudon dopo il ritorno dalla Danimarca, nel Secondo Dopoguerra. Eppure la prima canzone si chiamava “Bardamù”, che è proprio il nome dell’alter ego di Céline nei suoi scritti di fiction. Vinicio ha più volte sostenuto che il Céline più interessante è quello degli ultimi romanzi, “che lascia le frasi a metà”.
Ma in mezzo tra i due capolavori universalmente riconosciuti come una vetta della narrativa del Novecento e i lavori più sperimentali, resta pur sempre l’autore di “Mea Culpa” e “Bagatelle per un massacro”, e la “Trilogia del Nord” narra le vicende dell’uomo Céline in quegli stessi anni in cui scriveva un testo esplicitamente collaborazionista come “La scuola dei cadaveri” (che in Italia è stato tradotto solo nel 1997 e pubblicato dall’oscuro Edizioni Soleil nella Collana del Nibbio Bianco-anche questo testo è reperibile in rete). Insomma, che piaccia o meno, Bardamù e Fernand sono la stessa persona, anche se la cosa nel dopoguerra infastidiva lo stesso Céline, che fu il primo a opporsi alla ripubblicazione di “Bagatelle”. La critica letteraria ha il dovere e il diritto di prenderne atto, a prescindere dall’ansia del “politicamente corretto” che pervade la giunta arancione.
Coda o covone di paglia che sia, vorremmo un po’ più di pragmatismo. Bastava dare una scorsa al nome dei relatori (Marco Vallora, Giancarlo Pontiggia, Gian Paolo Serino, oltre al filosofo Franco De Benedetti, autore per Medusa di “Céline e il caso delle Bagatelle”), per capire che non si trattava di un convegno di Casa Pound. Il patrocinio di Palazzo Marino può andare dunque solo a quegli eventi incentrati su testi edificanti? Eppure nelle cineteche comunali è circolato più volte “Moloch” di Sokurov, incentrato sulla vita di coppia di Hitler e Eva Braun, e Leni Riefenstahl è stata premiata qualche anno fa a Palazzo dei Giureconsulti, con un riconoscimento alla carriera. Non è la stessa cosa, direte voi. E certamente gli esempi scelti sono volutamente grezzi. Perché di un tabù, e nulla di più, si tratta. Così come siamo interessati a osservare dallo spioncino il mènage extraconiugale del “mostro” Hitler, o a visionare le fotografie apologetiche del regime nazista di una talentuosa artista di propaganda, non vedo perché non si possa discutere serenamente sui motivi per cui oggi esiste ancora un libro all’indice, sui cui tutti esprimono un giudizio fermo, senza che nessuno l’abbia letto. Il motivo sta nel fatto che l’antisemitismo che vi è espresso è strettamente contiguo dal punto di vista temporale all’Olocausto. Questa è l’unica ragione.
Gian Paolo Serino ha ricordato in questi giorni che l’antisemitismo era diffuso tanto nella società americana quanto in quella europea sin dagli inizi del “secolo breve”. Era, aggiungiamo noi, altrettanto radicato nella civiltà cattolica, e i retaggi di quel radicamento si riscontrano ancora nel linguaggio e nella considerazione verso gli ebrei che caratterizza le aree “bianche” del nostro Paese. Nel caso di Céline, l’antisemitismo attraversava anche i romanzi, ma nessuno si è curiosamente mai messo ad analizzare da questo punto di vista “Viaggio al termine della notte” o “Morte a credito”. Eppure i testi di fiction di altri autori francesi, a partire da quello che, a torto o a ragione, è considerato l’erede di Céline, ossia Michel Houellebecq, da sempre sono passati alla lente d’ingrandimento, per provare a capire se il punto di vista dei protagonisti è in tal senso quello dell’autore. Da questo di punto di vista il dibattitto è particolarmente vivace. Può essere considerato decisivo al fine del giudizio ultimo sul valore dei romanzi dell’autore di “Piattaforma”, o venire liquidato come una pruderie, ma certamente nessuno si è mai sognato di mettere all’indice lo scrittore di punta di Flammarion. Ricordo invece una circostanza curiosa. La prima volta che mi procurai “Morte a Credito”, nella prima edizione italiana, quella di Garzanti del 1964, con la traduzione di Giorgio Caproni, il testo era censurato. Nel senso che ogni tanto il lettore incontrava degli spazi bianchi. Spesso si trattava di una sola parola, più raramente di intere frasi o periodi. Quelle cancellazioni non erano in alcun modo legate a passaggi di contenuto antisemita, e facevano riferimento piuttosto a situazioni scabrose, o utilizzavano termini allora “proibiti”. Di fatto dovemmo aspettare il 1997 per leggere la traduzione di Caproni nella sua integrità, grazie ai tipi di Tea (in precedenza c’era stata un’edizione Mondadori, nel 1987). Ma il fatto è che Ferdinand Bardamu era un alter ego di Céline. Altra cosa, nella percezione del lettore, è evidentemente un pamphlet, in cui non c’è possibile equivoco in merito tra la posizione di chi parla e quella dell’autore. È dunque solo una questione di codice? Quel che si può dire in un romanzo (i passi antisemiti non sono mai stati “sbianchettati”) non ha diritto di cittadinanza in un saggio? Evidentemente sì, per quanto poco voltairiano ci possa sembrare. Il paradosso è che così continueremo a non sapere se “Bagatelle per un massacro” è una sorta di “Mein Kampf” o meno. In Italia esiste un’edizione di “Bagatelle” pubblicata da Guanda nel 1981, che venne ritirata dalle librerie tre mesi dopo la pubblicazione, a seguito delle rimostranze della vedova Céline. Non si trattò dunque di un vero e proprio episodio di censura, quanto piuttosto di tutela-attraverso strumenti indebiti-dello status raggiunto dallo stesso Céline con il corpus complessivo della sua opera. Era sufficiente il pamphlet per sporcarla? La risposta è legata a quella che personalmente considero un’evidenza: se non fosse avvenuto l’Olocausto, “Bagatelle per un massacro” sarebbe un vergognoso testo antisemita, trascurato dalla critica, pubblicato magari da qualche oscuro editore. Credo per esempio che in pochi sappiano che contiene la presentazione di tre balletti ideati per L’Expo del 1937, “La naissance d'une fée”, “Voyou Paul”, “Brave Virginie” e “Van Bagaden”. E che fu proprio il rifiuto di questi balletti scatena la furia razzista di Ferdinand, protagonista del libro. Perché, e questa immagino sia una sorpresa per molti, “Bagatelle” contiene anche molti elementi di finzione letteraria, al punto che potremmo persino pensare che gli alter ego di Céline siano due, lo stesso Ferdinand e il dottor Gutman, con cui il protagonista dialoga (ricordiamo che l’autore esercitava la professione di medico). Ci sono poi diversi passaggi in cui vengono criticati tutti i totalitarismi, e accenni a quelle stesse posizioni pacifiste espresse nel suo primo romanzo. Un pamphlet ha convenzioni diverse da un saggio, genere per cui Céline, anzitutto per organizzazione sintattica della sua prosa, sarebbe stato negato. La prosa di “Bagatelle” vede infatti ricorrere spesso le sperimentazioni/convenzioni del secondo Céline, a partire naturalmente dai tre puntini. Per chi volesse affrontarne la lettura, la traduzione di Giancarlo Pontiggia si trova in rete, in versione Pdf. Da notare che, al contrario di “Mein Kampf”, il successo di pubblico di “Bagatelle” fu enorme, e proseguì anche negli anni dell’occupazione. La critica di destra lo accolse però con qualche sospetto, legato al carattere d’invettiva e alla mancanza di una struttura argomentativa. A sinistra venne massacrato. Con l’eccezione eccellente di Andrè Gide, che si rifiutò di credere all’autenticità delle intenzioni di Céline, e definì il testo una finzione letteraria, assolvendo il dottor Destouches dal peggiore dei suoi crimini.
Non ero presente al dibattito in Sormani. Immagino che di questo e di molto altro abbiano discusso i relatori. Resto dell’idea che Boeri dovrebbe occuparsi di altro, che senza il patrocinio del Comune la discussione su di un testo all’indice resta comunque un evento culturalmente rilevante, e che né il timbro di Palazzo Marino né la presenza dell’assessore avrebbero aggiunto nulla. Qualche anno fa Vinicio Capossella dedicò un intero disco alla cosiddetta “Trilogia del Nord”, i romanzi in cui Céline ricostruisce le peripezie in Danimarca dopo la fuga dalla Francia in quanto collaborazionista. Quasi nessuno si accorse che l’album (s’intitolava “Canzoni a Manovella”) era direttamente ispirato ai climi di “Da un castello all’altro” e agli altri testi di finzione scritti a Meudon dopo il ritorno dalla Danimarca, nel Secondo Dopoguerra. Eppure la prima canzone si chiamava “Bardamù”, che è proprio il nome dell’alter ego di Céline nei suoi scritti di fiction. Vinicio ha più volte sostenuto che il Céline più interessante è quello degli ultimi romanzi, “che lascia le frasi a metà”.
Ma in mezzo tra i due capolavori universalmente riconosciuti come una vetta della narrativa del Novecento e i lavori più sperimentali, resta pur sempre l’autore di “Mea Culpa” e “Bagatelle per un massacro”, e la “Trilogia del Nord” narra le vicende dell’uomo Céline in quegli stessi anni in cui scriveva un testo esplicitamente collaborazionista come “La scuola dei cadaveri” (che in Italia è stato tradotto solo nel 1997 e pubblicato dall’oscuro Edizioni Soleil nella Collana del Nibbio Bianco-anche questo testo è reperibile in rete). Insomma, che piaccia o meno, Bardamù e Fernand sono la stessa persona, anche se la cosa nel dopoguerra infastidiva lo stesso Céline, che fu il primo a opporsi alla ripubblicazione di “Bagatelle”. La critica letteraria ha il dovere e il diritto di prenderne atto, a prescindere dall’ansia del “politicamente corretto” che pervade la giunta arancione.
di Andrea Dusio da http://www.milanocultura.com/public/letteratura/saggistica/992-bagatelle-per-un-massacro-meglio-sapere-o-non-sapere.asp
__________________________
I miei complimenti a Serino per aver organizzato la presentazione e per la sua simpatia, e a De Benedetti, Pontiggia (che ringrazio per la dedica apposta sul mio Bagatelle Guanda) e Vallora per la competenza dei loro interessanti interventi.
Andrea Lombardi