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giovedì 20 maggio 2010

Céline. Gli artigli del gatto, di LL Rimbotti


Céline all'Istituto delle questioni ebraiche, Parigi, c. 1942.

Era ostile alla democrazia, al capitalismo, al marxismo, all’America, all’Unione Sovietica, al progressismo…era nazionalista, si diceva fiero di essere figlio di un fiammingo e di una bretone, rivendicava le sue radici nordiche, ammirava la Germania, era anche francamente razzista…e di sicuro detestava violentemente gli ebrei. Così a occhio, c’è n’è abbastanza per pensare che, dopotutto, Céline e il Nazionalsocialismo non fossero poi tanto lontani. Eppure, esiste un tipo di storiografia, o meglio di biografia, che tende – esattamente come per Jünger o per Evola – a mettere la sordina su certe imbarazzanti convergenze e a enfatizzare certe opportune discordanze. Dice: Céline era pacifista…parlò spesso male dei nazisti…non è vero che collaborò coi tedeschi dopo il 1940…mandò solo qualche lettera ai giornali collabo…criticava, accusava, insomma non era dei loro. E inoltre: sì, d’accordo, durante la guerra aveva amici all’ambasciata tedesca di Parigi, andava e veniva, va bene, prese parte a manifestazioni per l’amicizia franco-germanica, si sa, bandiere con la svastica, saluti, un certo clima…, ma certo, vide di buon’occhio anche la guerra ai sovietici…però insomma non era nazista. Anzi, coi nazisti ce l’aveva proprio.

Confessiamolo, in questo modo di ragionare c’è qualcosa che non va…Noi continuiamo a credere che non sia un’eresia pensare che il romanziere e il movimento hitleriano qualcosa in comune, sotto sotto, ce lo dovevano avere. Poi consideriamo che, appena gli americani misero piede in Normandia, nel giugno del 1944, Céline scappò in tutta fretta da Parigi. Uno si potrebbe chiedere: perchè scappare? E dove scappò? Forse tra le braccia dei “liberatori”? Niente affatto. Il più lontano possibile dagli odiati nazisti? Neppure. Va diritto a Sigmaringen, dove i tedeschi avevano sistemato il governo vichysta di Pétain e dove si ritrovarono quasi tutti i collaborazionisti, quelli duri che non mollavano, coi Doriot, coi Dèat. Ma perchè Céline, se era anti-nazista, andò proprio a Sigmaringen, in bocca al feroce teutone?

Leggi un tomo di oltre mille pagine e non riesci a trovare la risposta. Si tratta di Louis-Ferdinand Céline, gatto randagio di Marina Alberghini (Mursia). L’autrice, amante dei gatti, ha fatto di Céline il suo eroe e non si ha il cuore di chiederle di dire tutta la verità, nient’altro che la verità. Oggigiorno non si possono avere eroi nazisti, non sta bene, lo sanno tutti. Dunque bisogna accontentarsi. Anziché una biografia, abbiamo così un magnifico ritratto a olio. Difatti, sul perchè Céline andò a Sigmaringen, la Alberghini scrive che lo fece perchè…«prima di tutto a Sigmaringen c’era bisogno di un medico e questo su di lui era un forte richiamo…A Sigmaringen lo attendevano nuove esperienze, nuove avventure, cose da vedere».

Da non credere! Stai a vedere che, nell’Europa del 1944, di medici c’era bisogno solo a Sigmaringen! E allora chiediamo: ma davvero solo in quel preciso angolo di Reich, dove si ammassarono i fascisti francesi irriducibili, si potevano avere “nuove esperienze”, “nuove avventure”? L’autrice forse non ha colpa, per questo suo modo di piegare in quattro le biografie per farne ritrattini d’occasione. Si sarà certo detta: un così bravo scrittore, così affezionato al suo gatto Bébert…non può essere nazista.

Noi confermiamo che, difatti, Céline nazista dichiarato, iscritto, inquadrato, non lo fu mai. Un anarchico del genere, anzi, un anarchista del genere (poiché Céline non era funzionale neppure all’anarchia), non poteva avere un’ideologia condivisa con un’istituzione, un partito, un sistema. Certo, in questo senso Céline non fu mai nazista. Solo che si può dire in tutta tranquillità che ebbe le medesime idee dei nazisti, ma pensate in modo diverso. È mai possibile?

Trattandosi di Céline, tutto è possibile. Qualcuno lo ha scritto, ad esempio Elena Fiorioli, che nel suo Céline e la Germania, pubblicato a Verona nel lontano 1982, precisò che «l’antisemitismo céliniano non è sorretto da una argomentazione scientifica e proprio per questo suo aspetto d’improvvisazione differisce dalle teorie naziste». Erano due antisemitismi. Quello di Céline era tutto viscere e invettive, ma certo non meno radicale, tanto che ci fu chi, tra i nazisti, trovò sconveniente quella prosa così violenta. I pamphlet antisemiti di Céline ebbero fredda accoglienza nella Germania nazista: furono giudicati…troppo aggressivi. Eppure, scriveva sempre la Fiorioli, «Céline condivise con il nazionalsocialismo la convinzione che gli Ebrei, “commercianti di cannoni”, fossero i responsabili di tutte le guerre».

La Alberghini sottolinea parecchie volte che Céline era pacifista, che per un momento ce l’ebbe con gli ebrei, è vero, ma solo perchè gli sembrava che fossero loro a fomentare la guerra…in realtà nulla di personale, assolutamente. Céline era pacifista, quindi – così ragiona la Alberghini – non poteva essere nazista. Poi apri il Kershaw, sfogli l’Overy, leggi il Gobbi, insomma, storici di nome. E scopri che, nel 1939, e poi ancora nel 1940, ma anche dopo, se c’era un pacifista in Europa, quello era Hilter, che non volle la guerra, che ci rimase male quando gliela dichiararono, che offrì invano la pace agli inglesi una, due, tre volte, che incolpava gli ebrei di forzare la mano al governo di Londra per fargli continuare la guerra…insomma, le stesse convinzioni di Céline. Non piccole sfumature. La medesima lettura della situazione politica.

Allora ripensi a quanto ha scritto Philippe Alméras nella sua biografia di Céline del 1997. Una pagina a caso: il 29 ottobre 1942 «la “Commissione di studi giudaico-massonici” dà un pranzo in occasione dell’uscita del numero speciale di Welkampf, dedicato alla questione ebraica in Francia…Céline è citato in testa alle personalità francesi presenti…». Che ci faceva Céline, in quella data tarda, insieme agli “esperti” nazisti di giudaismo, e insieme a Montandon, a Pierre Costantini, a Henry Coston, il “meglio” della militanza francese anti-ebraica? Ma forse dobbiamo chiederci: dove avrebbe dovuto trovarsi, se non lì, uno che era amico di Abetz, di de Brinon, di Luchaire, di Daudet…uno che condivideva il nazionalismo radicale di Maurras ma che, a differenza del vecchio maestro, amava la Germania?

Céline, è vero, era proprio una specie di gatto randagio, e il titolo del libro della Alberghini è ben scelto. Ma era un gatto con artigli belli forti, in grado di far male. E li adoperò, quegli artigli, e distribuì graffi profondi un po’ a tutti. Ma per alcuni ne ebbe più che per altri. Come dire: «Io voglio che si faccia un’alleanza con la Germania e subito…Confederazione degli Stati Ariani d’Europa…L’alleanza franco-tedesca significa la potenza giudeo-britannica ridotta a zero. Il fondo stesso del problema colpito, infine. La Soluzione». Firmato: Céline, 1938. Diciamo che Streicher, ma anche Himmler, di sicuro Hitler, non avrebbero potuto che sottoscrivere. E ammettiamo senz’altro che, per non essere stato un nazista, Céline sapeva parlar chiaro. La verità, sullo speciale “anti-nazismo” di Céline, la disse un giorno Lucien Rebatet: «Céline non perdonò a Hitler di aver perso la guerra».

Luca Leonello Rimbotti

lunedì 28 dicembre 2009

Céline gatto randagio



Riceviamo da Marina e pubblichiamo volentieri questa immagine della premiazione del suo "Céline gatto randagio" (segnalata tra l'altro sul Bulletin Célinien di questo mese)...

Un bel ricordo di Giorgio Celli che, benchè ammalato, ha voluto esserciper parlare della Donazione di Giordano Alberghini alla Biblioteca diFiesole e del mio libro su Céline .Io sono l' ultima a destra, la giaccagialla è l' assessore alla Cultura Becattini. I libri sull' estrema destra. Auguri a tutti
Marina


...e Auguri di Buone Feste anche da parte mia!!!

sabato 11 aprile 2009

Louis-Ferdinand Céline, Gatto randagio, di Marina Alberghini, recensito su Libero



Diario dal carcere di uno scrittore randagio
Louis-Ferdinand Céline

Pubblicato il giorno: 26/03/09

9 gennaio 1946
Mia Lucette carissima, è dura avere il mondo intero contro di sé – a me, che non ho mai fatto male a una mosca, questo appare come un incubo spaventoso che non mi riguarda e tuttavia... Abbraccia i nostri amici per me e Bébert (l’amatissimo gatto di famiglia, ndr).
13 (o 20) gennaio 1946
Mia Lucette carissima sono solo molto debole per lo choc e le vertigini. Ma non soffro, sono pieno di medicine. Sono sempre con te e con Bébert e ti parlo continuamente. Sai come riesco facilmente ad astrarmi dalla vita reale. Sono così felice di saperti libera.È stato, io credo, il peggior supplizio che abbia potuto sopportare, senza nome. Ti amo talmente piccola mia che posso sopportare tutto, tutto tollerare e pazientare. Sono sempre con te. Non mi resti più che te. Ma curati, non essere troppo triste mangia bene cerca di danzare. Questo mi dà forza. Sai quanto amo quello che fai. Abbraccia Bente e madame Johansen e Bébert piccino.
6 febbraio 1946
Mia Lucette carissima, sono ritornato ieri in prigione (dall’infermeria al braccio della morte, ndr) come presentivo, ma ora sono tutto solo in cella e sto benissimo così. Mangio bene, qui mi viziano. (Céline mente per non precoccupare la moglie, ndr). Non essere triste per me questo mi fa male più di tutto il resto. Preferirei morire che saperti infelice. E poi tutto questo non potrà durare a lungo, una decisione sarà presa in un senso o nell’altro ma usciremo da questa atroce incertezza alla quale penso nessuna fibra potrebbe resistere a lungo e la mia vale già ben poco. Parlo con me stesso con te e con Bébert. Sono le brutalità che mi distruggono completamente, ho cuore e testa troppo malati ora per ritrovare il mio equilibrio come si dovrebbe. Io sono sempre con te, mia piccola cara e tu sai che per me brètone l’assente conta più del presente.
26 febbraio 1946
Mia piccola cara, mi svegliano verso le 4, le 5. Sento entrare le guardie, animarsi la prigione. Alle 5 mi alzo. Resto un po’ intontito. Mi faccio il letto e pulisco la stanza molto lentamente, tanto nessuno mi mette fretta – ho tutto il tempo che voglio – lavo per terra 2 volte la settimana, ma senza fatica. Le guardie sono molto gentili con me. Poi c’è la passeggiata fino alla mia gabbia dove sono da solo e resto 25 minuti all’aria aperta, il che è un favore, contemplo gli uccelli e il cielo e le cime degli alberi tutto lo spettacolo del mondo affascinante dei viventi. Non mi muovo molto perché sono sempre debole e soffro di leggere vertigini – ma mi lasciano libero di camminare sul mio ritmo. Finita la passeggiata torno in cella dove aspetto il pranzo. Resto con la testa fra le mani, mi trovo meglio così, penso agli affari miei e anche a pièces teatrali che faccio e disfaccio. Tu sai come mi sia facile entrare in uno stato semisonnambolico non troppo doloroso e anzi piacevole nello stato in cui mi trovo. Mi curano benissimo, mi danno un calmante la mattina, della paraffina e dei semi di lino. Arriva il pranzo curatissimo e copiosissimo. Dopo pranzo mi va, se non ho troppo mal di testa, lavoro alla storia delle nostre disgrazie che sto scrivendo. Ecco ben presto la cena ancora più ricca verso le 6. Là dopo 2 ore, assai penose – ma lo sono veramente la malinconia del giorno mi casca addosso. Ma posso ancora fuggire dal mio stato «secondo» se si può definirlo così e leggere e scrivere un poco. Otto ore la giornata è passata e si va a letto dopo un altro calmante paraffina e seme di lino. La prigione è un luogo sacro le cui regole sono misteriose e implacabili.
30 marzo 1946
Mia piccola diletta bambina, presto la luce del lunedì (il giorno di visita di Lucette, ndr) e poi la notte di sette giorni! So che di tutto questo tu soffri più di me, mio tesoro. Io soffro, io, di saperti tanto sola, così desolata, là a poca distanza dalla mia prigione. Non oso chiedermi che ne sarà di te. Sarebbe troppo angoscioso, immobilizzato come sono. La tortura vedi non è tanto la prigione (che già basterebbe da sola) quanto l’incertezza del tempo del supplizio. Ci si prepara, si programma una certa resistenza per un tempo definito. È inumano chiederci l’infinito, e restare nel vago che per un prigioniero è l’infinito. Mi hanno detto tre settimane, sono già tre mesi. E ora tre anni? Trent’anni! Questo non ha senso. Io non sono impaziente, mia cara, ma ho un’età, ecco tutto. Non sono sicuro di durare a lungo, perché servire da giocattolo ai maniaci e ai cavillatori? Non sono ancora alla fine, mia cara piccolina. Non crederlo. Non prendere sul tragico tutto ciò che ti scrivo. Mi fa bene scriverti quello che penso. Non chiederei di meglio che pensare a qualche altra cosa, ma le sbarre sono là e le chiavi. Gli esseri umani così futili e smemorati finora non hanno realizzato che una sola stabilità sociale: la Prigione. Sono sempre vicino al tuo cuore.
Aprile 1946 s.d.
Si deve arrivare al misticismo come gli anacoreti nel deserto – una dolce idea fissa – l’infinito a due e Bébert. Si è così molto felici – nessuno vi secca più – si soffre a riattaccarsi al mondo, personalmente io sono già morto. Non piangere per noi, niente può essere peggio di così! È finita ormai noi siamo dei gentili morti molto affettuosi – Tu verrai a trovarmi al Père Lachaise – Io sarò sempre con te. Ho talmente sofferto l’esilio, che la morte là sotto mi sarà assai dolce. Mai più si deve essere tristi ma anzi ridere – come un tempo i monaci – è una fede che ci vuole ecco tutto. E tu l’hai. – il martirio è un piacere, una volta che si è disprezzato a fondo il boia.
Dopo la lettera precedente, nella quale è evidente che Céline si sta preparando alla morte, Lucette, per rianimarlo, riesce a portargli di nascosto nell’infermeria, nella quale lo scrittore viene ricoverato periodicamente, il gatto Bébert chiuso in una borsa.
9-15 aprile 1946
Che gioia ho provato a rivedere il mio Bébert, con la sua faccetta da farfalla sempre tanto graziosa! e come è stato gentile! Quanto lo amo.
Quanto Bébert è gentile e intelligente! Lui capisce benissimo la situazione...
6 settembre 1946
Mia piccola cara, eccoci tornati sull’abisso. Pare che non ci sia niente da fare. Non piangere. Anzi, stai su con la vita. Non ricadere nella disperazione di prima. Che aggiunge angoscia alla mia angoscia. Tutti i sadismi sono scatenati, imbacuccati in alibi eccellenti, patriottici ecc... Che vuoi farci? Noi si è fatto il possibile. E allora, come la bestia troppo braccata... si comincia a chiedere il colpo di grazia. Tutto qui. Sono anni ormai che la mia non è più una vita. Ogni giorno ogni settimana è un surplus di orrore o di pena. È un calvario interminabile, in cui decado progressivamente. Allora, tanto peggio! ... io non soffro, ma sono troppo sensibile, troppo malandato ora, per sopportare questi colpi, troppo vecchio anche. Come ho saccheggiato la tua vita! Quanto mi pento di avere sconquassato, per i miei eccessi, tanti focolari, tanta brava gente, tanti affetti Sono stato stupido e vigliacco. Avrei dovuto sparire prima. Essere solo io a pagare per i miei errori. E invece ti ho trascinata in tutto questo, povero tenero innocente tesoro. Che bruto! Penso a te e al nostro povero passato – Saint-Malo – Scavo il passato nella cenere calda. La vera vita, ha detto Renan, la vera esistenza, dopo tutto, non è che quella che continua nel cuore di coloro che ci amano. Allora, vedi, se si va al peggio, il che è assai probabile, per come stanno andando le cose, non bisogna piangere. Io sarò sempre una piccola parte che vivrà in te, ecco tutto. Che può, contro questo, l’infinita crudeltà degli uomini? Niente di niente. Contro questo, essi sono disarmati! E poi, saremo giunti alla fine delle pene. È questo che conta. Io non sono sempre stato affettuoso con te quanto meritavi ma, sai, io vivo da tanto tempo nell’angoscia. Veramente, anzi, io non vivo più, sono come intronato dalla brutalità del mondo. Mi ci sono buttato dentro come affascinato dall’abisso – e l’abisso mi ha inghiottito – è normale – è la vertigine. [...] Io non soffro. Non penso che a te.


a cura di Marina Alberghini