Leggendo "La Nausea di Céline" scopriamo un'Europa simile alla nostra
Condannato e imperdonabile , sbandato e proscritto in vita, poi un classico, la riscoperto come genio creativo, unico e formidabile. È Louis-Ferdinand Céline, nato Destouches, “il più grande scrittore degli ultimi 2000 anni” secondo Charles Bukowski. Amato ed idolatrato, nonostante il suo passato controverso, fatto di deplorevoli opinioni politiche, di Céline resta il genio di un autore che fece di uno stile frammentario e delirante, espressionista e visionario, il marchio di fabbrica dei suoi capolavori. Dal Viaggio al termine della notte alla Trilogia Nord. Opere in cui emerge la grande capacità dell’autore di raccontare le peggiori infamie e meschinerie dell’uomo “dandogli verità”. Infamie che mostrano un uomo che è solo “una decomposizione in sospeso”. Nichilista e disincantata la prosa celiniana mostra personaggi orribili e miseri, crudeli e senza remore. Una prosa permeata da una profonda Nausea. Una nausea che è il centro del breve saggio del critico e accademico francese Jean-Pierre Richard: La Nausea di Céline (Passaggio al Bosco).
L’opera si presenta come l’immersione del saggista francese nel corpus dello scrittore dell’argot, soprattutto con il Voyage, in cui l’autore mette evidenza la cifra della cronaca dello scrittore: la nausea. La nausea, che era il centro dell’omonimo romanzo di Sartre, viene rivista, analizzata, raccontata in maniera differente, unica. “Questa, per Louis-Ferdinand Céline, non ha niente a che vedere con il silenzio ostinato; ancor meno, può essere paragonata all’assurdità fisica delle cose tangibili, dissezionate da Jean-Paul Sartre. Mentre il filosofo esistenzialista – infatti – dava al suo “disgusto d’esistere” una dimensione metafisica, Céline ha immediatamente situato il proprio nel piano sensoriale degli eventi”. La nausea del Voyage non è quella di un esistenzialista in un mondo piatto ed annoiato. È il tanfo della bestialità dell’uomo, è il riconoscere che l’umanità è un cadavere in lenta putrefazione. Richard attraversa la discesa in questo mondo putrescente, mostrando le carogne della modernità. Dalle trincee folli della prima guerra mondiale all’africa coloniale, allucinata e prepotente, violenta ed animalesca, mostrando lo squallore delle periferie parigine, l’omologazione della folla solitaria che sfila tra le strade alienate di Detroit. Il racconto dell’opera dello scrittore di Morte a credito è il viaggio di un mistico che vede la morte di tutto quello che è puro e vitale, buono e candido. Denunciando la solitudine della società di massa, la perdita di tutto il patrimonio culturale della vecchia Francia, attraverso una prosa frammentata raccontando un Europa atomizzata. Approfittando della notte dell’uomo per sprofondarvi e raccontarla in polemica col tempo e l’uomo. Una Europa così simile alla nostra, imbevuta di paroloni ed interessi economici mascherati di idealismo ed ottimismo, dal mito fintamente altruistico della fratellanza bergogliana, alle insopportabili tirate umanitariste (“son dei bei rompicoglioni i filantropi”). Rifugiandosi oltre questi miasmi nello stile, nella ricerca di una “petite musique”, nel buonsenso del mondo contadino. Ritornando alle fonti della vita: l’arte e la natura, contrapposte alla pubblicità e alle metropoli. Scagliandosi contro la cloaca di una società bestiale che è estensione del dominio della lotta e patetica pantomima. Flotte di gazzettieri e moralisti, di speculatori e opportunisti. Riscoprire la nausea di Céline, curata da il più appassionato degli studiosi dello scrittore espressionista (Andrea Lombardi, nonché responsabile locale di CI), almeno per non abituarsi agli aromi di quella palude che è il 21° secolo.
Nausea di Céline: la condizione umana nelle parole dell'autore
Passaggio al bosco, stavolta, ci porta in un viaggio nella poltiglia di sentimenti e detriti che inonda il secolo scorso e ci consegna un pamphlet da divorare in poche ore: “Nausea di Céline”, del critico letterario ed accademico francese Jean-Pierre Richard (scomparso un anno fa) nella traduzione di Daniele Gorret e nell’edizione a cura di Andrea Lombardi.
Siamo nel pieno di un clima esteticamente ed eticamente ben direzionato, quello del moderno che si sta affacciando al contemporaneo. Tutto è degenerato, il rischio del corrotto e del corruttibile pervade insistente. Si può solo sperimentare un ricorrente ed ostinato senso di nausea e a farlo, da perfettamente permeato, è l’uomo del Novecento: esposto ad avvenimenti, ideologie, modi di vivere e modi di agire che sono così disorganici da condannarlo al burrone violento del nichilismo in cui sta sempre per cadere pur ostinandosi ad aggrapparsi ad una piccola cordicina che ne sostenga ancora per un po’ la fisicità. Cordicina, sì: l’uomo del Novecento è un uomo molle, scarno, ontologicamente incapace di contenere strutture. La nausea diventa allora il perno di supporto, un’esperienza di verità, la sua sola: come spiega egregiamente Maxime Rovere nel saggio introduttivo. E se per Jean-Paul Sartre la nausea ha una dimensione metafisica ed è prevista una soluzione che tutto sommato dia filosoficamente forma a una materia viscida, per Louis-Ferdinand Céline non è affatto così e tutto il volume ne delinea le motivazioni.
Céline pone la nausea su un piano invece sensoriale, carnale, transeunte: la nausea è fango, umidità, decomposizione, “confessione emorragica di se stessi” senza un senso ultimo; è mero disgusto, lusso dello sfacelo, carneficina interna, esterna, bellica, sentimentale. Carneficina totale. La sola risposta che ne dà Céline, si vedrà nell’opera, è quella letteraria: si accetterà di far trasudare, lasciar passare, consentire la putrefazione della nausea stessa mediante il racconto di essa, la narrazione pedissequa ed invadente di come inonda. Si orchestrerà in un ritmo, fluido come quello della narrazione stessa del pamphlet, il modo di sapersi uomini: o ancor meglio, “alla scandalosa diarrea dell’essere” il linguaggio risponderà “con la propria logorrea”.
Un percorso in cui “l’essere s’infrollisce lentamente del non-essere” e canta la fine, perché non può fare altro; fino a portarsi a quello stato estremo céliniano noto ma mai abbastanza scandagliato: la notte del mondo, la notte dei tempi, la notte dell’uomo.