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IL DOPPIO CÉLINE DI STENIO SOLINAS
di Gilberto Tura
Stenio Solinas, inviato de "Il Giornale", appartiene a quella generazione di intellettuali controcorrente che, nei roventi anni '70, aveva animato la "Nuova Destra" italiana sotto l'influsso dell'ideologo francese Alain Benoist e che è cresciuta riunendo nel proprio pantheon culturale e ideologico una schiera di intellettuali e scrittori spesso dimenticati, o meglio, deliberatamente abbandonati all'oblio più totale, perchè considerati non politically correct, o peggio ancora, impresentabili dall' establishment culturale dominante.
In un clima politico e culturale radicalmente mutato, nel 1999 Solinas pubblica "COMPAGNI DI SOLITUDINE - Una educazione intellettuale", edito da Ponte alle grazie di Firenze, in cui descrive le letture e gli scrittori che hanno concorso alla sua formazione intellettuale durante gli anni giovanili. Nella seconda parte del libro (la prima è dedicata alla descrizione del suo percorso politicio-intellettuale) Solinas compone una galleria di ritratti di scrittori e personaggi, in prevalenza francesi, nei confronti dei quali si dichiara apertamente debitore sul piano culturale. Tra questi si va da Drieu la Rochelle a Malraux, da Saint-Exupery a Hemingway, da Morand a Chatwin, da Rimbaud a Debray, da Ehrenburg a Munzenberg, per citarne alcuni, sino a Céline. Di quest'ultimo Solinas dichiara sin dall'inizio una totale ammirazione, sia sul piano artistico (Céline è inarrivabile) sia sul piano umano rimarcandone contraddizioni e astuzie intellettuali, bugie e verità, torti e ragioni, cinismo e dolcezza. Nel ritrarre l'ultimo scorcio di vita, Solinas descrive in maniera commovente l'ultimo, conclusivo ed estremo sforzo di Céline che, pur prigioniero di un fisico seriamente provato e precocemente invecchiato, ostracizzato ed emarginato dalla società letteraria e civile, consisterà nel voler dimostrare di essere ancora indiscutibilmente "in pista", rifiutandosi di congedarsi da sconfitto e che le terribili prove affrontate, se hanno stremato il fisico, non hanno minimamente scalfito l'unicità e la potenza della sua penna.
CÉLINE E IL SUO DOPPIO
di Stenio Solinas
Ci sono debiti intellettuali che a pagarli non ti basta una vita. Céline è uno di questi. Dico intellettuali e non artistici, perchè nell'arte, lì... nel cuore della scrittura, dell'invenzione e della trasposizione... Céline è inarrivabile, ti soverchia talmente che a imitarlo non ci provi nemmeno... perchè se poi fai il paragone, ti viene da piangere... Si, certo, i tre puntini di sospensione... un modo per rendere più veloce lo stile scritto, per adeguarlo a un racconto parlato... ma tutto il resto, l'enorme distruzione e ricostruzione della lingua che c'è dietro, è roba da titani delle lettere, gente che lavora per la propria immortalità, ci crede... mentre noi siam qui che tiriamo la carretta del contingente, del quotidiano, anche bravini a volte... non dico di no e me lo dico da solo... ma vuoi mettere... ma non c'è neanche da entrare in argomento... Il debito, allora, è dal punto di vista delle idee, perchè poi io... al fondo... sono uno da realismo socialista... e per me gli eroi sono tutti giovani e belli... e si muore per la causa... e si vive per gli ideali... Poi lui ti tocca sulla spalla, ti costringe a voltarti e ti fa vedere l'altra faccia della vita, la faccia sporca... ovvero la faccia vera... quel groviglio di interessi e di meschinità, di rancori e di accomodamenti, di miserie magnificate, grandezze rottamate... Non lo fa con cattiveria... non lo fa per deriderti... lo fa per metterti in guardia, perchè tu sappia a cosa vai incontro... in modo che sei preparato, sai cosa ti aspetta... Lo fa da quella figurina di Épinal che fu nella sua giovinezza... l'elmo da corazziere in testa... le cariche di cavalleria... le decorazioni e le mutilazioni... Lo fa come uno che quella faccia sporca... che conosceva... che vedeva tutti i giorni... ha cercato fin quando ha potuto di abbellirla a suon di emozioni... di balletti... di gambe femminili... di sanità fisica... sesso e carattere... paganità e bellezza... razza e purezza...
In ogni famiglia che si rispetti, c'è sempre un parente «pazzo» a rompere l'ordine costituito... Uno zio puttaniere, un nipote giocatore, un figlio megalomane... Dilapidano patrimoni, distruggono reputazioni, provocano rotture e riprovazioni. Di loro non si parla mai in tono normale, la voce è sempre o troppo bassa o troppo alta... se ne teme il contagio, li si isola perchè il germe non si propaghi, perchè il cattivo esempio non faccia proseliti... E però, qualcuno che li frequenti lo si trova comunque, qualcuno che non si fida di ciò che la norma garantisce come corretto, il buon senso comune bolla come insensato... E magari scopri che quello zio è soprattutto un innamorato delle donne, quel nipote disprezza il denaro, quel figlio è un generoso...
Anche le famiglie di pensiero hanno il loro «pazzo». Il «pazzo» della Destra è Céline. Naturalmente Céline non è di destra, la destra tradizionale, intendo, ma si ritrova a destra perchè nel Novecento quella famiglia si allarga, si fanno matrimoni d'interesse e di potere... si intrecciano relazioni adulterine, si regolarizzano unioni di fatto, nascono figli illegittimi... Quando per dissesti politici e ideologici, va tutto a scatafascio, se lo ritrova lo stesso sulle spalle; e é troppo ingombrante, e troppo compromesso, perchè qualcuno se lo pigli così com'è, ma è troppo grande e troppo compromettente per tenerlo così com'è...
E dunque... dai a distinguere... a sezionare... a disossare... e questa è la polpa... e questo è lo scarto... e qui c'è carne da brodo... e qua c'è solo grasso... Lo puoi anche fare, intendiamoci... è legittimo... purchè non perdi di vista la carcassa... purchè non cerchi di far passare il manzo per maiale... Poi, naturalmente, ci sono gli eccessi... il pazzo... si sa... chiama i pazzi... vien fuori un gran casino... A metà degli anni Settanta, da una tipografia di Ciarrapico, stampatore specializzato in libri esplosivi... li aprivi, e ti si sfasciavano tra le mani... volava via un foglio dietro l'altro... una casa editrice farlocca, Aurora, fece una traduzione, farlocca anche questa di Bagatelles... Addirittura, l'avevano attualizzato... ci avevano messo dentro Lyndon Johnson e Jacqueline Kennedy, così il pamphlet era al passo con i tempi, si erano detti, avevano convenuto... roba da vomitare, che se Céline l'avesse avuta fra le mani... lui che sudava sangue su ogni virgola, su ogni punto e virgola, e li avesse avuti di fronte, a Meudon, gli avrebbe aizzato contro i cani... E però era il lato «mangiatore di ebrei» che interessava, piangevano sul perseguitato, ma intanto si davano di gomito: «Hai visto come gliele canta, senti come gliene suona»...
A me dell'antisemitismo, delle brume profonde, del sangue e suolo non è mai fregato niente, e fra nord e sud scelgo il sud, il mare e il sole, le pelli abbronzate e, se la vogliamo dire tutta, i veri ariani, gli indoeuropei col botto... sono i curdi, mica i tedeschi... Così, allora, mi divertivo a dire, a scrivere, che Bagatelles non era tanto o solo un libro razzista, era qualcosa di peggio, dal mio punto di vista, dal punto di vista della scrittura, era un libro noioso, un libro fallito... Così come ora, quando trovo qualche smemorato di Cuneo o di Collegno, qualche esegeta di Brecht passato, senza colpo ferire, all'esegesi di Céline e che se ne esce parlando di «antisemitismo umorale», «paradossale»... mi viene spontaneo ricordargli che no, caro, non è così, è sostanziale, è razziale, fa parte della sua visione del mondo... Ripeto, ti può piacere di più il biancostato della trippa, ma non devi cercare di far passare il manzo per maiale...
Io devo a Céline anche alcune delle risate più piene della mia vita. Quelle pagine di Morte a credito il cui il ragazzo Ferdinand si scazzotta col padre, il mal di mare sulla Manica, l'inventore Courtial e l'altro, Rodiencourt, di Guignol's Band... comicità allo stato puro. Sapeva ridere, e far ridere... C'è un racconto di Marcel Aymé, Avenue Junot, in cui quel Céline lì allegro e beffardo, giganteggia... pieno di trovate, scoppiettante di ironia... E che gran conquistatore anche... Tanti anni fa, quando lessi le sue Lettres à des amies, mi venne la tentazione di scriverci intorno qualcosa, avevo persino trovato il titolo, Lo sai cosa faceva Céline alle donne?... Erano bionde, brune, rosse... c'era la psicologa e c'era la ballerina, la pianista e la studentessa, l'insegnante di ginnastica e la intellettuale, la francese e la straniera... Senza contare quelle in carica, sposate e poi abbandonate, non sposate e poi rimpiante, fino all'ultima, mai più lasciata... Consigli pratici, consigli di vita, consigli sessuali, riflessioni sulla bellezza, considerazioni sull'amore... É un altro Céline... il Céline prima della catastrofe, prima della riapparizione dall'inferno... quando non deve lottare per il suo riscatto, quando ancora crede di poter giocare e vincere la guerra delle idee.
Degli scrittori che ho qui raccolto, è quello che ammiro di più e sento di meno. Non c'è contraddizione: fra i compagni di solitudine non avrei potuto non inserirlo, perchè é poi quello che nel tempo mi ha maggiormente fatto compagnia; e tuttavia è il meno in sintonia con gli altri e con me stesso, così disperato e così esaltato, affascinato dalla morte e però spasmodicamente attaccato alla vita, talmente solo da crearsi un proprio universo di scrittura, autosufficiente e autorappresentativo. Il più amaro eppure il più poetico, in apparenza il più cinico e invece il più indifeso.
«Amica mia, non vi fate metter fretta. Odio la fretta. Non esistono dettagli in grado di annoiarmi. La minima virgola mi appassiona. Odio la faciloneria... Il bravo operaio si riconosce a lavoro finito... Non si stanca mai. Io sono instancabile. Ricordatevi sempre: non fatevi mettere fretta. Otto giorni in più non incidono sulle vendite e possono incidere sul libro. E il libro vien prima delle vendite». Un anno dopo: «Mio caro Doppio, penso a voi e alla fatica che presto vi infliggerò. In campana! Ho dovuto sgobbare per precedere i soviet. E tuttavia mi chiedo se non ce la faranno a sopraffarmi». Ancora un anno: «Mia cara bambina, la forza del libro sta nella sua estrema sgradevolezza per tutti quelli cui ho potuto pensare... Ricordate? Chi mi ha difeso per Morte a credito? I sostenitori dell'alta letteratura? Chi? É stato il più vigliacco, ingiusto, dannato hallalì mai visto... E allora... me ne fotto cosmicamente d'essere imparziale, scrupoloso... Sono in guerra contro tutti. Come tutti furono uniti nel cercare di annientarmi. Sarà un ragionamento meschino, ma è solido e ben meditato, non è aria fritta. I 'siate superiori'... 'siate nobili'... 'non mischiatevi alle bassezze' eccetera, sono discorsi da ebrei. Grazie ai quali, sorridendo, prendiamo calci nel culo e crepiamo in scioltezza. Noi cerchiamo di darci un contegno. Loro del contegno se ne fregano e sono Re del mondo. Voglio schiacciarli nella loro stessa meschinità. Questo libro è all'insegna dell'amarezza. Non è fatto per piacere a nessuno».
Chi scrive, lo si è capito, è Louis-Ferdinand Destouches, in arte Céline. Inconfondibile lo stile, altrettanto il contenuto: la letteratura come altissimo artigianato, la consapevolezza della propria unicità nel panorama culturale del suo tempo, la lingua come eccesso verbale, l'antisemitismo su cui fondare una vera e propria estetica, un senso di disperazione e di disastro incombente. Ma chi è l'«amica», la «bambina», addirittura il suo «Doppio»? Si chiama Marie Canavaggia, ha 40 anni, è figlia di un magistrato, fa la traduttrice per diletto, ama i classici, è d'origine còrsa. Ha una sorella pittrice, Jeanne, un'altra astrofisica, Renée, con cui divide casa a Parigi. «Le sorelle Brontë», le ribattezzerà Céline, ma parlando di loro userà sempre un tono rispettoso (per quanto rispettoso egli potesse essere... ). Dal 1936 Marie è la sua segretaria tuttofare: ne rivede i testi, corregge le bozze, procura e colleziona i ritaglia stampa, s'incarica della corrispondenza pubblica, svolge trattative editoriali in suo nome, si preoccupa persino delle cartelle dove archiviare via via manoscritti e successive stesure.
Non c'è un contratto fra loro, e neppure un rapporto, come dire, gerarchico o sentimentale (anche se Marie di Ferdinand è innamorata, come potrebbe esserlo una romantica donna inglese, e specie negli anni duri dell'esilio Céline si ritroverà a dover fronteggiare qualche scena di gelosia epistolare...) A ogni libro il sodalizio si riforma automaticamente, e ogni volta Marie si cala nell'universo artistico dell'altro come un palombaro va in fondo al mare. Ripesca le frasi, ne chiede conferma, suggerisce modifiche, controlla la punteggiatura, la sintassi, la grammatica. Negli abissi del linguaggio che lo scrittore naviga a suo piacimento, sforzando, distorcendo, inventando, Marie si muove a proprio agio, mai in maniera ottusa o codina, sempre nel nome di quella musicalità che Céline insegue e per la quale stravolge e rimodella le frasi. Un sodalizio perfetto, che dagli anni Trenta durerà fino alla morte dell'autore del Voyage, passando per quelli tremendi dell'esilio danese e della prigionia, durante i quali Marie sarà amica e consolatrice, garante e depositaria della sua opera. L'unica di cui lo scrittore, nel fluviale epistolario che terrà con vecchi amici e nuove conoscenze (quasi) mai si lamenterà, (quasi) sempre si fiderà e elogerà. Un record. Oltre 500 lettere, per un quarto di secolo di corrispondenza.
«Ci sono scrittori francesi che se ne stanno a Londra, parlando alla radio e scrivono sulla Francia. Io, invece, scrivo su Londra. Essi parlano di politica, e io, invece, no». Nel marzo del 1944, quando Guignol's Band I va in stampa così Céline riassume in un'intervista le ragioni e il senso del suo nuovo romanzo. Dopo tre pamphlet al vetriolo in cui ha prefigurato il carnaio della Seconda guerra mondiale; deriso e stigmatizzato la sconfitta della Francia; plaudito a una alleanza con la Germania hitleriana; cavalcato l'antisemitismo nel nome di un ritorno all'emozione pura, artistica, esistenziale di una razza, la propria, che sente minacciata; elaborato un programma nazionale di rigenerazione morale e sociale (basta con la scuola dell'obbligo, sì alla musica, allo sport, alle belle arti, nazionalizzazioni e politica per le famiglie...); dopo aver disseminato le redazioni dei giornali collaborazionisti di lettere in cui si polemizza con il regime di Vichy perchè non è all'altezza, si chiede maggiore durezza contro il nemico interno e si grida, ogni due per tre, al tradimento, eccolo uscirsene con un romanzo in cui d'attualità non cé nulla, di riferimenti immediati nemmeno, di ideologia nel senso stretto del termine, neppure. É la storia dell'educazione sentimentale e alla vita di un ragazzo nella Londra del 1916-17: «Mai si era chiavato così tanto!...», sintetizza il suo autore...
Che amici e nemici ne venissero colti in contropiede, è più che comprensibile. Parigi bruciava, le armate si attrezzavano per il gran finale, i regolamenti di conti si annunciavano, le liste di proscrizione si preparavano e lo scrittore più impegnato di Francia (a suo modo, certo, da artista e non da pensatore, individualmente e non in maniera organica, da solitario avversario d'ogni chiesa, partito, gruppo, redazione...) se la filava all'inglese a parlare di macrò e di puttane, del West End e di inventori pazzi, della mafia dei docks e della nebbia, del fascino del mare e della fascinazione del sesso...
Già, perchè la Londra di Céline è il tuffo all'indietro in un periodo magico, quando il ventenne corazziere mutilato ma uscito vivo dalla Grande guerra si ritrova nella capitale britannica a lavorare per il consolato francese. Qui trova il tempo di sposarsi con una entraîneuse e di fare un pò il magnaccia, di frequentare cabaret e music-hall e di imparare i primi rudimenti della medicina... É una sorta di continua festa mobile, al riparo dagli orrori e dove si dispiega tutta la forza della giovinezza. E è una Londra ricreata magistralmente, con i nomi esatti ma geograficamente falsi, scelti per il loro suono e non rispetto alla toponomastica, dove Shakespeare tiene banco nella caratterizzazione dei personaggi, il comico vince sul tragico e la magia di porti, fiumi, navi invita alla fuga. Il trionfo del sogno, perchè «la verità è la morte» e gli uomini «la strage ce l'hanno nel sangue». «L'emozione è tutto nella vita / Bisogna saperne approfittare! / L'emozione è tutto nella vita / E quando siete morti è finita!».
Eppure, la scrittura ha le sue ragioni che la ragione non conosce. La redazione di Guignol's Band I copre gli anni che vanno dal 1940 al 1944, scorre cioè parallela al Céline che interviene, scrive, polemizza, ha un suo ruolo e un'autorità pubblici. La penuria di carta fa sì che sullo stesso foglio un verso sia usato per un rabbioso o ironico intervento ideologico, l'altro per il romanzo in corso. In quell'arco di tempo c'è posto per Les beaux draps, scritto al fulmicotone impregnato dell'umore dell'epoca e per Scandale aux abysses, balletto marino che racconta amori e dolori di uomini e divinità.
C'è di più. Se la redazione materiale è di allora, l'idea è di sempre. «Infanzia. Guerra. Londra», è lo schema che ha davanti mentre scrive il suo secondo romanzo, Morte a credito, e che persegue fino a quando la realtà più impietosa (il carcere, l'esilio, la condanna in contumacia, il distacco dai fondamenti stessi della sua estetica: la sua lingua, la sua terra) rendono definitivamente impossibile la fuga all'indietro nell'immaginazione. Casse-pipe, che avrebbe dovuto dar conto del Ferdinand soldato, resta incompiuto; Guignol's Band II non arriva alla revisione definitiva. Biogarfo infedele e fantasioso di se stesso, Céline capisce che un ciclo narrativo di vita si è chiuso e un altro ne ha preso il posto. Non c'è più spazio, né tempo, per raccontare gli eccessi della giovinezza: più incalzanti e più necessari sono ormai gli anni della maturità.
É un cambio di prospettiva che nelle lettere scritte a Marie Canavaggia si avverte benissimo. Fino al 1943-44 Céline è un lottatore nonostante tutto. É all'offensiva, combatte per non soccombere. Dopo lo sarà malgrado tutto. É uno sconfitto, combatte per risuscitare.
«I critici dicono sempre fesserie. Giornalisti innanzitutto, lavorano di chiacchiere, piccoli ricatti... Ci vorrebbe qualcuno che si decidesse a coprirmi di sputi... questa loro moderazione è banale... e si dimentica presto. La gente è sadica, vigliacca, invidiosa, distruttrice. Ha bisogno di sentire il saccheggio, lo spappolamento, altrimenti non ci sta...». É una frase del 1936, quando Céline teme e aspetta le reazioni all'uscita di Morte a credito. Tre anni dopo, a guerra ormai dichiarata, il suo disgusto raggiunge il parossismo. «Bisogna vedere gli uomini come cani. Ciò che fanno, abbaiano, ringhiano, squartano, spiritualmente non significa niente, meno che zero... Purtroppo ci toccano le conseguenze materiali... ma moralmente cani, niet'altro che cani. Tutto è permesso, insomma, per evitare i loro morsi e ingannarli e aizzarli in modo che si sbranino fra loro... Meglio dimenticare tutto, mascherare in musica l'orrore del vivere.. Vado a Marsiglia. Sono risoluto a imbarcarmi... Non è più tempo di discussioni... ».
Negli anni di guerra il tono è questo, il tono di chi ha previsto il disastro, ma rimane egualmente colpito da ciò che da esso si sprigiona, il rancore sordo, come fiele; di chi accetterebbe anche «un pò di sano luciferismo» e si imbatte invece nei «rentiers d'horreur»; di chi nel «declino di un'intera razza» vede scomparire le «ragioni del vivere».
Quando l'uragano termina, Céline è un uomo finito. É in fuga, si nasconde, non sa cosa l'attende. «Una civiltà sta morendo in malo modo. Che il diavolo mi fulmini se mi occuperò ancora di lei». «Come rimpiango di non essere comunista. Ho perduto tutto per gli interessi, la difesa di questa borghesia infetta. Cornuto e mazziato che sono! C'è da vomitare!»
Con Marie, che la lontananza ha reso gelosa, che nei primi tempi vede più il romanticismo dell'esiliato che non la realtà del braccato (dopo pochi mesi Céline verrà arrestato), è dolcemente o amaramente sferzante. «La vostra lettera mi carica di complicazioni sentimentali. Sono più semplice, Marie, e più vecchio anche, è passato per me quel tempo. Voi chiedete a un mutilato di giocare a bocce». E ancora: «Siete viziosa, Marie, complicate le cose. Ai tempi di Londra vi avrei fatto ruotare nelle peggiori sardanapalerie e ne sareste uscita semplificata, libera, guarita e non meno affascinante, intelligente e sensibile di come siete». Ma è ancora lei che lentamente riannoda i fili editoriali destinati a lungo a spezzarsi, che tiene i contatti, che invia riviste, libri (denaro mai: «Preferirei crepare che ricevere un centesimo»), cartine geografiche, che corre in soccorso quando allo scrittore, isolato, cominciano a venir meno le parole (come si dice in francese questo termine, le scrive inviandole il disegno del moschettone a cui si aggancia il guinzaglio del cane...).
Nelle lettere vengono fuori anche tutti i grandi temi dell'autodifesa che Céline elabora per gli anni a venire. Negazione assoluta di ogni contatto con l'occupante tedesco e di qualsiasi ruolo nelle file collaborazioniste, gigantesca chiamata di correo nei confronti del Tout Paris intellettuale e mondano che l'«occupazione» accettò e sostenne spesso di buon grado; elevazione di se stesso a capro espiatorio (con l'antisemitismo equiparato all'anticelinismo...); la sua rivoluzione stilistica vista come fonte di disgrazie, molla del risentimento e dell'odio del mondo culturale nei suoi confronti... L'armamentario, insomma, con cui mischiando mezze verità, bugie e reticenze viene messa a punto la leggenda dello scrittore puro, interessato solo alla sua arte, vittima delle circostanze. Ma è anche vero che solo la consapevolezza del proprio genio e un odio assoluto per chi lo vuole vedere a terra, gli permettono in quel «tempo del disprezzo» che si trova a affrontare, di continuare a crescere, di vendicarsi e di riaffermarsi creando. Non c'è spazio per gli altri, non c'è tempo per gli esami di coscienza... La sgradevolezza, l'egoismo, il cinismo sono le armi con cui i grandi difendono se stessi dagli assalti della normalità. «Sono al lavoro, ma questa trasposizione mi fa crepare... So bene dove voglio andare a parare... ma è pieno di liane... bisogna abbattere... e poi riannodare... un sentiero... poi un ponte...è la foresta tropicale... si riforma dietro di noi... É un incubo. Ah, lavoro nell'odio e con odio. Questo stare ai remi, navigando sull'inchiostro per portare agli altri il sogno! Il pubblico... L'affogherei nell'inchiostro». La scrittura come dannazione. Benedetta... maledetta.
Dall'esilio danese del dopoguerra alla morte, il primo luglio del 1961, passano nemmeno quindici anni, quanto basta però per riportare sulla scena letteraria, e non solo, il più odiato, esecrato, ingiuriato, calunniato autore del '900. Un arco di tempo breve, ma sufficiente per la più incredibile rinascita artistica del nostro secolo, una specie di doppio salto mortale, carpiato, con avvitamento, al termine del quale un nome dimenticato risorge a gloria di Francia, degno della Pléiade, opera omnia (o quasi), in carta riso, con tanto di note, notizie e varianti al testo , glossarietti e appendici, legioni di specialisti al lavoro, lettori fedelissimi, maniacali addirittura, esemplari casi clinici nel loro amore privo di qualsiasi pudore, pronti a scusar tutto, anche il non scusabile, a spiegare ogni cosa, anche l'inspiegabile...
Impresa disperata, e disperante, ché l'uomo Céline non era - non è- facile da amare. E del resto lui stesso sarebbe stato il primo a ritrarsi inorridito di fronte a una simile pretesa. Impresa disperata, e disperante, oltretutto, perchè di rado in una sola persona si concentrerà una tale capacità affabulatoria e bugiarda, sempre tesa a distorcere la realtà, a forzare la verità, a riscrivere la vita; la propria, quella altrui.
Un fiume in piena di bugie, così si presenta l'autobiografia celiniana: bugie piccole e grandi, innocue e meschine, puerili e ben costruite, quasi mai frutto di un'invenzione totale, di un falso assoluto, quasi sempre basate su un'operazione di sottrazione o di accumulo dell'esistente, del dato di fatto, dell'accaduto. Di estrazione piccolo-borghese, con tracce pregresse di nobilato locale, fra le quali i Des Touches del cavaliere omonimo celebrato da Barbey d'Aurevilly, eccolo costruirsi un'identità proletaria e/o popolare: scrittore del popolo, figlio del popolo, voce del popolo.
E certo, di povera gente, di emarginati, di sfruttati, di operai e di falliti, di miserabili ha avuto frequentazione: li ha incrociati da ragazzino, li ha avuti come commilitoni da soldato, come compagni di lavoro in Africa, come pazienti nel dispensario di Clichy. Li ha conosciuti, li ha studiati, li ha registrati nel grande libro della memoria; ma non è mai stato uno di loro.
Invalido di guerra, potrebbe orgogliosamente mostrare le mutilazioni, le decorazioni, gli articoli di stampa per raccontare il suo coraggio. Non gli basta: al braccio martoriato deve aggiungere una trapanazione del cranio mai avvenuta; e trasformare, lavorando di colla e di forbici, resoconti giornalistici in copertine a lui dedicate. Medico di base, non sa resistere all'idea di arricchire il proprio curriculum con esperienze presso le officine Ford, negli Stati Uniti, da lui appena visitate. E dietro il cliché del «dottore dei poveri» fatica a scomparire il bell'uomo alto più d'un metro e ottanta, che indossa abiti di buon taglio e stoffa inglese, biondo e con gli occhi azzurri, che conosce il mondo e il bel mondo, uno che a Ginevra come a Vienna, a New York come a Londra, sa dove andare, come muoversi, cosa vedere, a proprio agio con pianiste come Lucienne Delforge, con scultrici come Louise Nevelson, con figlie della buona borghesia di provincia come Edith Follet, la sua prima moglie.
La falsificazione, meglio, la riscrittura di se stesso è sistematica, non riguarda solo pubblico e critica, ma avvolge amici e parenti. Il passaggio dalla Germania in fiamme alla Danimarca dove si troverà intrappolato, dura tre giorni. Ma nel raccontarlo a interlocutori fidati, eccolo trasformarsi in un'epopea di tre settimane... L'arresto nella casa di Karen Jansen, l'amica danese che lo ospiterà a Copenhagen, un modesto episodio di polizia, con Ferdinand che non apre perchè teme che dietro la porta ci siano dei comunisti venuti per assassinarlo, diventa una sorta di Helzapopping sui tetti, lui e Lucette in fuga fra lucernari, proiettili che fischiano, urla minacce... L'amico Robert Poulet chinerà pietoso il suo sguardo su quella povera testa di trapanato di guerra: perchè Ferdinand è riuscito a convincerlo di una cicatrice che non c'è...
Il gioco del vero-non vero, del verosimile che si trasforma in reale, del reale che diviene inesistente, tiene botta anche di fronte all'accusa che nell'immediato dopoguerra lo bolla a fuoco: collaborazionista. Oggi noi sappiamo, sulla base di documenti, di ricerche d'archivio, di riscontri incrociati, di epistolari rimasti a lungo sepolti, che quella qualifica era pertinente. Céline «collaborò», non si limitò a scrivere qualche lettera ai giornali: rivendicò l'aver capito prima degli altri il disastro che si preparava per il suo Paese; rivendicò l'aver chiesto un'alleanza franco-tedesca; rivendicò la necessità di uno scontro all'ultimo sangue contro bolscevismo e democrazie liberali; rivendicò una linea di condotta recisa contro gli ebrei; auspicò una Francia razzialmente pura, nordica, separata geograficamente dal suo Sud meticcio e mediterraneo... Scelse con attenzione i giornali dove far apparire le sue provocazioni, ne seguì la pubblicazione, se n'ebbe a male quando qualche frase troppo forte gli venne tagliata, polemizzò aspramente. Fra il '41 e il '44 scrisse trentuno lettere (e sei non vennero pubblicate perchè ritenute «eccessive»), rilasciò undici interviste, ripubblicò i suoi pamplet, partecipò a conferenze, tenne contatti con le autorità tedesche. E però aveva qualche fondamento di verità la sua linea di difesa del «non aver collaborato». Perchè non fu nel libro paga di giornali o movimenti, perchè la critica militante nazista trovava troppo nichilista il suo pensiero, perchè in sedute conviviali più o meno pubbliche la sua vena esplodeva sinistra, prefigurando scenari catastrofici e rese dei conti epocali, perchè si adoperò per salvare qualche vita e omise di denunciare qualche gollista poco smaliziato, e perchè alla fine sembrò che con i tedeschi avesse fornicato solo lui.
Il Céline che nell'estate del 1950 rientra in Francia dopo cinque anni di esilio forzato in Danimarca, inaugura l'ultimo, geniale travestimento, l'ultima grande interpretazione di uno scrittore risentito contro tutto e tutti, pieno di rabbia verso il suo Paese eppure troppo francese per potersene separare. Anche qui, il personaggio che dopo una «quarantena» di qualche anno riprenderà a tenere banco fino alla morte, è in parte vero e in parte costruito, frutto di un accorto dosaggio di verità e finzione. Certo, in terra danese Céline ha sofferto, è stato imprigionato, s'è ammalato, il fisico ha ceduto e il vigore e le baldanza di prima della guerra sono un tenue ricordo. Eppure, se si va a fare un conto spassionato, di galera vera ha fatto sei mesi, i restanti sei li ha passati in ospedale... Certo, è un uomo economicamente rovinato, rispetto alle possibilità economiche di prima della guerra: i suoi libri non si ristampano, e quando cominciano a essere ripubblicati non si vendono... Eppure, la casa di Meudon, dove va a vivere, viene a costare due milioni e passa di franchi dell'epoca (pagati vendendo le proprietà della moglie), Gallimard garantisce un anticipo pari a 300 milioni di lire di oggi, l'oro che lo ha preceduto nella fuga e che non è stato requisito dai tedeschi gli ha consentito di sopravvivere e pagarsi più d'un avvocato...
Di nuovo, insomma, il confine fra realtà e finzione è incerto, nebuloso fonte di errori. Chi è portato al compatimento si ritrova spesso e volentieri scavalcato dall'accorgersi che l'oggetto compatito in realtà calcola, sorveglia, non sbaglia una mossa, piange a comando, insulta e si ritrae. Chi vorrebbe smascherare il vecchio gigione, scopre orgogli insospettabili, nobiltà di comportamenti, suprema indifferenza per «valori» allora (come oggi) alla moda: il successo, gli agi, le comodità...
Ciò non toglie che Céline che recita Céline sia uno spettacolo. E non per nulla Gen Paul, l'amico pittore della Butte, il gemello di Ferdinand nella Montmartre degli anni Trenta e Quaranta, trovava in lui una straordinaria rassomiglianza con il grande Louis Jouvet della Comédie française. Chi ha presente, attraverso le fotografie e le descrizioni, l'immagine del Céline circondato da cani e gatti, con il pappagallo Toto sulla scrivania, il foulard al collo, i pantaloni tenuti su da una corda, troppo larghi e troppo corti, i maglioni infilati l'uno sull'altro, la fronte solcata dalle rughe, la barba lunga e legge qualcuna delle interviste da lui rilasciate nel dopoguerra può farsene un'idea. Quei suoi n'est-ce pas cadenzati, quei suoi alors, bon, bah bah, non non non non, quel suo monologare apparentemente senza un filo conduttore, quel suo mischiare generi, quei suoi paragoni bizzarri, quei suoi sotterfugi ideologici. E tuttavia, chi non ha mai visto una ripresa televisiva con Céline nelle vesti di attore-protagonista non sa che cosa si è perduto. Le braccia e le mani tenute composte, immobili, come fossero di cera, un filo di voce iniziale, la testa piegata di lato, una specie di morto che parla. Poi, a poco a poco, il miracolo: il morto si rianima, gli arti si dimenticano d'essere come paralizzati, l'eloquio si fa più sicuro, i rari sorrisi lasciano il posto a un riso più disteso, il racconto s'impenna, fra sottolineature, imitazioni, libere interpretazioni. Riappare l'ombra del «Diavolo» che fu, quello che teneva banco fra atelier di pittori e bistrot di avenue Jounot e place du Tertre, quello che incantava e spaventava le signore, faceva ridere gli amici oppure scatenava interminabili risse verbali...
L'ultimo Céline ha un solo scopo, dichiarato anche se nel contempo negato e/o minimizzato. Riottenere quella dignità di scrittore liquidata come indegna alla luce del periodo collaborazionista. Della propria grandezza era stato consapevole fin dall'inizio, allorché, lasciando il dattiloscritto del Voyage da Gallimard, nel biglietto di presentazione aveva fatto notareche lì c'era «pane per un secolo intero di letteratura. E il premio Goncourt 1932 comodo comodo per il Felice Editore che saprà accettare questa opera senza pari, questo monumento capitale della natura umana»... Adesso, però, la partita appare difficile: sono tutti lì col fucile puntato, a aspettare il passo falso, il vagito, o grugnito, ideologico, per ricacciarlo nel girone dei dannati della scrittura. E perfino gli altri «dannati» come lui, lo aspettano al varco: vogliono vedere se rinnegherà, se farà pubblica abiura. Sanno benissimo che è di una pasta diversa, che il suo individualismo esasperato lo ha di fatto collocato altrove rispetto a loro, ma, volente o nolente, è dalla parte dei vinti che alla fine si è trovato e è anche dai vinti che dovrà essere giudicato.
Rivendicando a sé l'invenzione di una «petite musique», una piccola musica dello stile, Céline riesce a sfuggire sia ai primi, sia ai secondi, a ridursi per meglio ingigantirsi. Non ci si lasci ingannare da chi dando alla lingua di Céline, alla modernità del suo linguaggio un valore di pura sperimentazione, separa lo stile dal contenuto. Al contrario, Céline scrive in quel modo perchè dietro quella scrittura si cela una Weltanschauung dove l'emozione, l'irrazionale, il fantastico, il primordiale sono gli elementi fondanti. É il rimpianto e l'esaltazione di un mondo non dominato dalla ragione né dal progresso, dove l'istinto vince sul costruito, dove la bellezza fisica rimanda a uno stato di grazia premoderno quando la spontaneità, il naturale erano i cardini dell'esistenza. Per ricostruire questo stato dell'essere e del sentire, l'unico modo è sventrare una lingua francese cartesiana, illuminista e illuminata, fiera della sua chiarezza quale negli ultimi tre secoli almeno è andata formandosi. Céline usa l'ariete dello stile non per andare avanti, ma per tornare indietro. «Il fondo dell'Uomo malgrado tutto è Poesia. Il ragionamento si apprende, così come si impara a parlare. Il bebè canta, il cavallo galoppa, il trotto è di scuola... Tutto il mio lavoro è consistito nel cercare di rendere la prosa francese più sensibile, tesa, precisa, sferzante e cattiva, iniettandole un linguaggio parlato, il suo ritmo, il suo tipo di poesia e di tenerezza malgrado tutto».
Una volta innalzato il proprio monumento stilistico, alle possibili trappole ideologiche Céline risponde glissando, deviando, attaccando: «Sono un patriota sfrenato in un Paese di degenerati, lacchè e bastardi. Si tratta di ben altra cosa che tradimento, è precisamente il contrario. Sono gli altri, tutti gli altri, che galoppano urlando dietro la bandiera, gareggiando per farsi inculare dal miglior offerente. Per essi il mio caso è inespiabile». «Ci si accanisce a volermi considerare un massacratore di ebrei. Io sono un preservatore accanito di francesi e ariani e contemporaneamente, del resto, di ebrei...Ho peccato credendo al pacifismo degli hitleriani, ma lì finisce il mio crimine». Trasformato l'antisemitismo in pacifismo, scolorato piuttosto che negato, orientato in maniera diversa, ecco allora che l'unico vero ebreo, umiliato, offeso e perseguitato in fondo è propro lui. Ennesima trasformazione dove verità e menzogna si fondono al servizio di un genio fulminato.
Il fatto è che bisogna leggere o rileggere Céline, il biologo Céline, il razzista Céline, l'estremista Céline, l'irrazionalista Céline, il nicciano Cèline (nel suo Cèline écrivain Anne Henry ne dà una icostruzione esemplare e sfata una volta per tutte la leggenda di uno scrittore esagerato, senza basi filosofiche) se si vuol sapere qualcosa di più, e di più vero, sulla natura umana, sui suoi abissi di mostruosità, sui suoi deliri di grandezza, sui suoi istanti di dolcezza, sulla miseria del vivere e sulla certezza spaventosa del morire. Lì dove tacciono tutte le anime belle del pacifismo, dell'eguaglianza, della solidarietà, annichilite dall'orrore, incapaci di andare al di là dell'esecrazione e della condanna, ecco levarsi la sua voce per dirci che anche questo, è la vita.
Chi voglia capire che cosa da qualche anno ormai stia succedendo nei Balcani, nelle ex provincie dell'ex impero sovietico, in Medio Oriente, si vada a prendere i romanzi che Céline scrisse fra il 1957 e il 1961: Da un castello all'altro, Nord, Rigodon... Lì c'è tutto: la guerra come migrazione di popoli, il passato riscritto a seconda di chi vince, i bombardamenti come scienza, l'arrangiarsi fra le rovine, la canaglia che trionfa, la selezione naturale, i tradimenti, le delazioni, le menzogne, il disfrenarsi dei sensi, la voglia disperata di sopravvivenza e l'impulso irresisitibile alla distruzione, la tragedia annodata alla buffoneria, l'esplosione totale di un mondo - monumenti, leggi, vincoli, decreti, usi e costumi, tic e tabù - e la sua rimessa in forma, pezzo per pezzo, frantume per frantume con il Senso della Storia che si incarica poi di spiegare, di razionalizzare, di raccontare il perchè e il percome la Civiltà d'improvviso diventi Barbarie...
Nella Trilogia del Nord, una volta cambiate le date e gli scenari geografici, tutto il resto è di straordinaria attualità. «Pulizie etniche», la maledizione dei cecchini, il susseguirsi di ordini e contrordini, l'assurdità di avanzate e di ritirate, la paranoia delle gerarchie, la convivenza con il sangue, l'anormalità assunta come norma di comportamento, il sesso che diventa arma e commercio, premio e punizione, oasi e delirio, l'esistenza quotidiana che continua nonostante tutto, come le oche a cui tagli la testa ma che per impulso animale seguitano a camminare.
Cantore, di parte, di un continente messo a ferro e fuoco in un epocale regolamento di conti, sotto le mentite spoglie del cronista Céline racconta la fine di un'idea di Europa cui ha creduto e per la quale si è battuto: razziale, antidemocratica, panica e pagana, antimoderna e mitica. C'è del metodo in questo scrittore fintamente istintivo: c'è la consapevolezza e la volontà di opporre a un sistema di valori che detesta una visione del mondo in cui bellezza, purezza, perfezione fisica, emozione diano un senso al non senso della vita.
E ha ragione Henri Godard, il maggior specialista letterario di Céline a notare che il nichilismo celiniano va rovesciato, perchè in lui «è proprio l'idea della morte a fondare un valore principale che consiste, precisamente, nel lottare contro la morte, in un combattimento che si sa perdente ma che basta a dare un senso alla vita. Non potendo trionfare su di lei, è possibile tentare di ritardarla, e anche di opporle qualcosa su cui non abbia presa».
Scrittore antimaterialista, Céline cercò di combattere il materialismo usando uno strumento, la razza, altrettanto materiale e, come tale, incapace di cogliere differenze di valori e di sensibilità. Le Lettres des années noires che Philippe Alméras ha pubblicato in Francia fra mille polemiche, sono da questo punto di vista esemplari. L'ideale ariano, che Céline propugna fino a voler dividere la Francia in due, una suralgerina, l'altra nordica, e che altri si incaricheranno di mettere bestialmente in pratica, si trasformerà in beffa allorchè, dopo essere stato imprigionato in Danimarca, si troverà a scrivere: «Merda agli ariani. Durante 17 mesi di cella non un solo dannato fottuto dei 500 milioni di ariani d'Europa ha emesso un gridolino in mia difesa. Tutti i miei guardiani erano ariani!» Quando si predica la purezza c'è sempre qualcuno che si crede più puro di te.
di Gilberto Tura
Stenio Solinas, inviato de "Il Giornale", appartiene a quella generazione di intellettuali controcorrente che, nei roventi anni '70, aveva animato la "Nuova Destra" italiana sotto l'influsso dell'ideologo francese Alain Benoist e che è cresciuta riunendo nel proprio pantheon culturale e ideologico una schiera di intellettuali e scrittori spesso dimenticati, o meglio, deliberatamente abbandonati all'oblio più totale, perchè considerati non politically correct, o peggio ancora, impresentabili dall' establishment culturale dominante.
In un clima politico e culturale radicalmente mutato, nel 1999 Solinas pubblica "COMPAGNI DI SOLITUDINE - Una educazione intellettuale", edito da Ponte alle grazie di Firenze, in cui descrive le letture e gli scrittori che hanno concorso alla sua formazione intellettuale durante gli anni giovanili. Nella seconda parte del libro (la prima è dedicata alla descrizione del suo percorso politicio-intellettuale) Solinas compone una galleria di ritratti di scrittori e personaggi, in prevalenza francesi, nei confronti dei quali si dichiara apertamente debitore sul piano culturale. Tra questi si va da Drieu la Rochelle a Malraux, da Saint-Exupery a Hemingway, da Morand a Chatwin, da Rimbaud a Debray, da Ehrenburg a Munzenberg, per citarne alcuni, sino a Céline. Di quest'ultimo Solinas dichiara sin dall'inizio una totale ammirazione, sia sul piano artistico (Céline è inarrivabile) sia sul piano umano rimarcandone contraddizioni e astuzie intellettuali, bugie e verità, torti e ragioni, cinismo e dolcezza. Nel ritrarre l'ultimo scorcio di vita, Solinas descrive in maniera commovente l'ultimo, conclusivo ed estremo sforzo di Céline che, pur prigioniero di un fisico seriamente provato e precocemente invecchiato, ostracizzato ed emarginato dalla società letteraria e civile, consisterà nel voler dimostrare di essere ancora indiscutibilmente "in pista", rifiutandosi di congedarsi da sconfitto e che le terribili prove affrontate, se hanno stremato il fisico, non hanno minimamente scalfito l'unicità e la potenza della sua penna.
CÉLINE E IL SUO DOPPIO
di Stenio Solinas
Ci sono debiti intellettuali che a pagarli non ti basta una vita. Céline è uno di questi. Dico intellettuali e non artistici, perchè nell'arte, lì... nel cuore della scrittura, dell'invenzione e della trasposizione... Céline è inarrivabile, ti soverchia talmente che a imitarlo non ci provi nemmeno... perchè se poi fai il paragone, ti viene da piangere... Si, certo, i tre puntini di sospensione... un modo per rendere più veloce lo stile scritto, per adeguarlo a un racconto parlato... ma tutto il resto, l'enorme distruzione e ricostruzione della lingua che c'è dietro, è roba da titani delle lettere, gente che lavora per la propria immortalità, ci crede... mentre noi siam qui che tiriamo la carretta del contingente, del quotidiano, anche bravini a volte... non dico di no e me lo dico da solo... ma vuoi mettere... ma non c'è neanche da entrare in argomento... Il debito, allora, è dal punto di vista delle idee, perchè poi io... al fondo... sono uno da realismo socialista... e per me gli eroi sono tutti giovani e belli... e si muore per la causa... e si vive per gli ideali... Poi lui ti tocca sulla spalla, ti costringe a voltarti e ti fa vedere l'altra faccia della vita, la faccia sporca... ovvero la faccia vera... quel groviglio di interessi e di meschinità, di rancori e di accomodamenti, di miserie magnificate, grandezze rottamate... Non lo fa con cattiveria... non lo fa per deriderti... lo fa per metterti in guardia, perchè tu sappia a cosa vai incontro... in modo che sei preparato, sai cosa ti aspetta... Lo fa da quella figurina di Épinal che fu nella sua giovinezza... l'elmo da corazziere in testa... le cariche di cavalleria... le decorazioni e le mutilazioni... Lo fa come uno che quella faccia sporca... che conosceva... che vedeva tutti i giorni... ha cercato fin quando ha potuto di abbellirla a suon di emozioni... di balletti... di gambe femminili... di sanità fisica... sesso e carattere... paganità e bellezza... razza e purezza...
In ogni famiglia che si rispetti, c'è sempre un parente «pazzo» a rompere l'ordine costituito... Uno zio puttaniere, un nipote giocatore, un figlio megalomane... Dilapidano patrimoni, distruggono reputazioni, provocano rotture e riprovazioni. Di loro non si parla mai in tono normale, la voce è sempre o troppo bassa o troppo alta... se ne teme il contagio, li si isola perchè il germe non si propaghi, perchè il cattivo esempio non faccia proseliti... E però, qualcuno che li frequenti lo si trova comunque, qualcuno che non si fida di ciò che la norma garantisce come corretto, il buon senso comune bolla come insensato... E magari scopri che quello zio è soprattutto un innamorato delle donne, quel nipote disprezza il denaro, quel figlio è un generoso...
Anche le famiglie di pensiero hanno il loro «pazzo». Il «pazzo» della Destra è Céline. Naturalmente Céline non è di destra, la destra tradizionale, intendo, ma si ritrova a destra perchè nel Novecento quella famiglia si allarga, si fanno matrimoni d'interesse e di potere... si intrecciano relazioni adulterine, si regolarizzano unioni di fatto, nascono figli illegittimi... Quando per dissesti politici e ideologici, va tutto a scatafascio, se lo ritrova lo stesso sulle spalle; e é troppo ingombrante, e troppo compromesso, perchè qualcuno se lo pigli così com'è, ma è troppo grande e troppo compromettente per tenerlo così com'è...
E dunque... dai a distinguere... a sezionare... a disossare... e questa è la polpa... e questo è lo scarto... e qui c'è carne da brodo... e qua c'è solo grasso... Lo puoi anche fare, intendiamoci... è legittimo... purchè non perdi di vista la carcassa... purchè non cerchi di far passare il manzo per maiale... Poi, naturalmente, ci sono gli eccessi... il pazzo... si sa... chiama i pazzi... vien fuori un gran casino... A metà degli anni Settanta, da una tipografia di Ciarrapico, stampatore specializzato in libri esplosivi... li aprivi, e ti si sfasciavano tra le mani... volava via un foglio dietro l'altro... una casa editrice farlocca, Aurora, fece una traduzione, farlocca anche questa di Bagatelles... Addirittura, l'avevano attualizzato... ci avevano messo dentro Lyndon Johnson e Jacqueline Kennedy, così il pamphlet era al passo con i tempi, si erano detti, avevano convenuto... roba da vomitare, che se Céline l'avesse avuta fra le mani... lui che sudava sangue su ogni virgola, su ogni punto e virgola, e li avesse avuti di fronte, a Meudon, gli avrebbe aizzato contro i cani... E però era il lato «mangiatore di ebrei» che interessava, piangevano sul perseguitato, ma intanto si davano di gomito: «Hai visto come gliele canta, senti come gliene suona»...
A me dell'antisemitismo, delle brume profonde, del sangue e suolo non è mai fregato niente, e fra nord e sud scelgo il sud, il mare e il sole, le pelli abbronzate e, se la vogliamo dire tutta, i veri ariani, gli indoeuropei col botto... sono i curdi, mica i tedeschi... Così, allora, mi divertivo a dire, a scrivere, che Bagatelles non era tanto o solo un libro razzista, era qualcosa di peggio, dal mio punto di vista, dal punto di vista della scrittura, era un libro noioso, un libro fallito... Così come ora, quando trovo qualche smemorato di Cuneo o di Collegno, qualche esegeta di Brecht passato, senza colpo ferire, all'esegesi di Céline e che se ne esce parlando di «antisemitismo umorale», «paradossale»... mi viene spontaneo ricordargli che no, caro, non è così, è sostanziale, è razziale, fa parte della sua visione del mondo... Ripeto, ti può piacere di più il biancostato della trippa, ma non devi cercare di far passare il manzo per maiale...
Io devo a Céline anche alcune delle risate più piene della mia vita. Quelle pagine di Morte a credito il cui il ragazzo Ferdinand si scazzotta col padre, il mal di mare sulla Manica, l'inventore Courtial e l'altro, Rodiencourt, di Guignol's Band... comicità allo stato puro. Sapeva ridere, e far ridere... C'è un racconto di Marcel Aymé, Avenue Junot, in cui quel Céline lì allegro e beffardo, giganteggia... pieno di trovate, scoppiettante di ironia... E che gran conquistatore anche... Tanti anni fa, quando lessi le sue Lettres à des amies, mi venne la tentazione di scriverci intorno qualcosa, avevo persino trovato il titolo, Lo sai cosa faceva Céline alle donne?... Erano bionde, brune, rosse... c'era la psicologa e c'era la ballerina, la pianista e la studentessa, l'insegnante di ginnastica e la intellettuale, la francese e la straniera... Senza contare quelle in carica, sposate e poi abbandonate, non sposate e poi rimpiante, fino all'ultima, mai più lasciata... Consigli pratici, consigli di vita, consigli sessuali, riflessioni sulla bellezza, considerazioni sull'amore... É un altro Céline... il Céline prima della catastrofe, prima della riapparizione dall'inferno... quando non deve lottare per il suo riscatto, quando ancora crede di poter giocare e vincere la guerra delle idee.
Degli scrittori che ho qui raccolto, è quello che ammiro di più e sento di meno. Non c'è contraddizione: fra i compagni di solitudine non avrei potuto non inserirlo, perchè é poi quello che nel tempo mi ha maggiormente fatto compagnia; e tuttavia è il meno in sintonia con gli altri e con me stesso, così disperato e così esaltato, affascinato dalla morte e però spasmodicamente attaccato alla vita, talmente solo da crearsi un proprio universo di scrittura, autosufficiente e autorappresentativo. Il più amaro eppure il più poetico, in apparenza il più cinico e invece il più indifeso.
«Amica mia, non vi fate metter fretta. Odio la fretta. Non esistono dettagli in grado di annoiarmi. La minima virgola mi appassiona. Odio la faciloneria... Il bravo operaio si riconosce a lavoro finito... Non si stanca mai. Io sono instancabile. Ricordatevi sempre: non fatevi mettere fretta. Otto giorni in più non incidono sulle vendite e possono incidere sul libro. E il libro vien prima delle vendite». Un anno dopo: «Mio caro Doppio, penso a voi e alla fatica che presto vi infliggerò. In campana! Ho dovuto sgobbare per precedere i soviet. E tuttavia mi chiedo se non ce la faranno a sopraffarmi». Ancora un anno: «Mia cara bambina, la forza del libro sta nella sua estrema sgradevolezza per tutti quelli cui ho potuto pensare... Ricordate? Chi mi ha difeso per Morte a credito? I sostenitori dell'alta letteratura? Chi? É stato il più vigliacco, ingiusto, dannato hallalì mai visto... E allora... me ne fotto cosmicamente d'essere imparziale, scrupoloso... Sono in guerra contro tutti. Come tutti furono uniti nel cercare di annientarmi. Sarà un ragionamento meschino, ma è solido e ben meditato, non è aria fritta. I 'siate superiori'... 'siate nobili'... 'non mischiatevi alle bassezze' eccetera, sono discorsi da ebrei. Grazie ai quali, sorridendo, prendiamo calci nel culo e crepiamo in scioltezza. Noi cerchiamo di darci un contegno. Loro del contegno se ne fregano e sono Re del mondo. Voglio schiacciarli nella loro stessa meschinità. Questo libro è all'insegna dell'amarezza. Non è fatto per piacere a nessuno».
Chi scrive, lo si è capito, è Louis-Ferdinand Destouches, in arte Céline. Inconfondibile lo stile, altrettanto il contenuto: la letteratura come altissimo artigianato, la consapevolezza della propria unicità nel panorama culturale del suo tempo, la lingua come eccesso verbale, l'antisemitismo su cui fondare una vera e propria estetica, un senso di disperazione e di disastro incombente. Ma chi è l'«amica», la «bambina», addirittura il suo «Doppio»? Si chiama Marie Canavaggia, ha 40 anni, è figlia di un magistrato, fa la traduttrice per diletto, ama i classici, è d'origine còrsa. Ha una sorella pittrice, Jeanne, un'altra astrofisica, Renée, con cui divide casa a Parigi. «Le sorelle Brontë», le ribattezzerà Céline, ma parlando di loro userà sempre un tono rispettoso (per quanto rispettoso egli potesse essere... ). Dal 1936 Marie è la sua segretaria tuttofare: ne rivede i testi, corregge le bozze, procura e colleziona i ritaglia stampa, s'incarica della corrispondenza pubblica, svolge trattative editoriali in suo nome, si preoccupa persino delle cartelle dove archiviare via via manoscritti e successive stesure.
Non c'è un contratto fra loro, e neppure un rapporto, come dire, gerarchico o sentimentale (anche se Marie di Ferdinand è innamorata, come potrebbe esserlo una romantica donna inglese, e specie negli anni duri dell'esilio Céline si ritroverà a dover fronteggiare qualche scena di gelosia epistolare...) A ogni libro il sodalizio si riforma automaticamente, e ogni volta Marie si cala nell'universo artistico dell'altro come un palombaro va in fondo al mare. Ripesca le frasi, ne chiede conferma, suggerisce modifiche, controlla la punteggiatura, la sintassi, la grammatica. Negli abissi del linguaggio che lo scrittore naviga a suo piacimento, sforzando, distorcendo, inventando, Marie si muove a proprio agio, mai in maniera ottusa o codina, sempre nel nome di quella musicalità che Céline insegue e per la quale stravolge e rimodella le frasi. Un sodalizio perfetto, che dagli anni Trenta durerà fino alla morte dell'autore del Voyage, passando per quelli tremendi dell'esilio danese e della prigionia, durante i quali Marie sarà amica e consolatrice, garante e depositaria della sua opera. L'unica di cui lo scrittore, nel fluviale epistolario che terrà con vecchi amici e nuove conoscenze (quasi) mai si lamenterà, (quasi) sempre si fiderà e elogerà. Un record. Oltre 500 lettere, per un quarto di secolo di corrispondenza.
«Ci sono scrittori francesi che se ne stanno a Londra, parlando alla radio e scrivono sulla Francia. Io, invece, scrivo su Londra. Essi parlano di politica, e io, invece, no». Nel marzo del 1944, quando Guignol's Band I va in stampa così Céline riassume in un'intervista le ragioni e il senso del suo nuovo romanzo. Dopo tre pamphlet al vetriolo in cui ha prefigurato il carnaio della Seconda guerra mondiale; deriso e stigmatizzato la sconfitta della Francia; plaudito a una alleanza con la Germania hitleriana; cavalcato l'antisemitismo nel nome di un ritorno all'emozione pura, artistica, esistenziale di una razza, la propria, che sente minacciata; elaborato un programma nazionale di rigenerazione morale e sociale (basta con la scuola dell'obbligo, sì alla musica, allo sport, alle belle arti, nazionalizzazioni e politica per le famiglie...); dopo aver disseminato le redazioni dei giornali collaborazionisti di lettere in cui si polemizza con il regime di Vichy perchè non è all'altezza, si chiede maggiore durezza contro il nemico interno e si grida, ogni due per tre, al tradimento, eccolo uscirsene con un romanzo in cui d'attualità non cé nulla, di riferimenti immediati nemmeno, di ideologia nel senso stretto del termine, neppure. É la storia dell'educazione sentimentale e alla vita di un ragazzo nella Londra del 1916-17: «Mai si era chiavato così tanto!...», sintetizza il suo autore...
Che amici e nemici ne venissero colti in contropiede, è più che comprensibile. Parigi bruciava, le armate si attrezzavano per il gran finale, i regolamenti di conti si annunciavano, le liste di proscrizione si preparavano e lo scrittore più impegnato di Francia (a suo modo, certo, da artista e non da pensatore, individualmente e non in maniera organica, da solitario avversario d'ogni chiesa, partito, gruppo, redazione...) se la filava all'inglese a parlare di macrò e di puttane, del West End e di inventori pazzi, della mafia dei docks e della nebbia, del fascino del mare e della fascinazione del sesso...
Già, perchè la Londra di Céline è il tuffo all'indietro in un periodo magico, quando il ventenne corazziere mutilato ma uscito vivo dalla Grande guerra si ritrova nella capitale britannica a lavorare per il consolato francese. Qui trova il tempo di sposarsi con una entraîneuse e di fare un pò il magnaccia, di frequentare cabaret e music-hall e di imparare i primi rudimenti della medicina... É una sorta di continua festa mobile, al riparo dagli orrori e dove si dispiega tutta la forza della giovinezza. E è una Londra ricreata magistralmente, con i nomi esatti ma geograficamente falsi, scelti per il loro suono e non rispetto alla toponomastica, dove Shakespeare tiene banco nella caratterizzazione dei personaggi, il comico vince sul tragico e la magia di porti, fiumi, navi invita alla fuga. Il trionfo del sogno, perchè «la verità è la morte» e gli uomini «la strage ce l'hanno nel sangue». «L'emozione è tutto nella vita / Bisogna saperne approfittare! / L'emozione è tutto nella vita / E quando siete morti è finita!».
Eppure, la scrittura ha le sue ragioni che la ragione non conosce. La redazione di Guignol's Band I copre gli anni che vanno dal 1940 al 1944, scorre cioè parallela al Céline che interviene, scrive, polemizza, ha un suo ruolo e un'autorità pubblici. La penuria di carta fa sì che sullo stesso foglio un verso sia usato per un rabbioso o ironico intervento ideologico, l'altro per il romanzo in corso. In quell'arco di tempo c'è posto per Les beaux draps, scritto al fulmicotone impregnato dell'umore dell'epoca e per Scandale aux abysses, balletto marino che racconta amori e dolori di uomini e divinità.
C'è di più. Se la redazione materiale è di allora, l'idea è di sempre. «Infanzia. Guerra. Londra», è lo schema che ha davanti mentre scrive il suo secondo romanzo, Morte a credito, e che persegue fino a quando la realtà più impietosa (il carcere, l'esilio, la condanna in contumacia, il distacco dai fondamenti stessi della sua estetica: la sua lingua, la sua terra) rendono definitivamente impossibile la fuga all'indietro nell'immaginazione. Casse-pipe, che avrebbe dovuto dar conto del Ferdinand soldato, resta incompiuto; Guignol's Band II non arriva alla revisione definitiva. Biogarfo infedele e fantasioso di se stesso, Céline capisce che un ciclo narrativo di vita si è chiuso e un altro ne ha preso il posto. Non c'è più spazio, né tempo, per raccontare gli eccessi della giovinezza: più incalzanti e più necessari sono ormai gli anni della maturità.
É un cambio di prospettiva che nelle lettere scritte a Marie Canavaggia si avverte benissimo. Fino al 1943-44 Céline è un lottatore nonostante tutto. É all'offensiva, combatte per non soccombere. Dopo lo sarà malgrado tutto. É uno sconfitto, combatte per risuscitare.
«I critici dicono sempre fesserie. Giornalisti innanzitutto, lavorano di chiacchiere, piccoli ricatti... Ci vorrebbe qualcuno che si decidesse a coprirmi di sputi... questa loro moderazione è banale... e si dimentica presto. La gente è sadica, vigliacca, invidiosa, distruttrice. Ha bisogno di sentire il saccheggio, lo spappolamento, altrimenti non ci sta...». É una frase del 1936, quando Céline teme e aspetta le reazioni all'uscita di Morte a credito. Tre anni dopo, a guerra ormai dichiarata, il suo disgusto raggiunge il parossismo. «Bisogna vedere gli uomini come cani. Ciò che fanno, abbaiano, ringhiano, squartano, spiritualmente non significa niente, meno che zero... Purtroppo ci toccano le conseguenze materiali... ma moralmente cani, niet'altro che cani. Tutto è permesso, insomma, per evitare i loro morsi e ingannarli e aizzarli in modo che si sbranino fra loro... Meglio dimenticare tutto, mascherare in musica l'orrore del vivere.. Vado a Marsiglia. Sono risoluto a imbarcarmi... Non è più tempo di discussioni... ».
Negli anni di guerra il tono è questo, il tono di chi ha previsto il disastro, ma rimane egualmente colpito da ciò che da esso si sprigiona, il rancore sordo, come fiele; di chi accetterebbe anche «un pò di sano luciferismo» e si imbatte invece nei «rentiers d'horreur»; di chi nel «declino di un'intera razza» vede scomparire le «ragioni del vivere».
Quando l'uragano termina, Céline è un uomo finito. É in fuga, si nasconde, non sa cosa l'attende. «Una civiltà sta morendo in malo modo. Che il diavolo mi fulmini se mi occuperò ancora di lei». «Come rimpiango di non essere comunista. Ho perduto tutto per gli interessi, la difesa di questa borghesia infetta. Cornuto e mazziato che sono! C'è da vomitare!»
Con Marie, che la lontananza ha reso gelosa, che nei primi tempi vede più il romanticismo dell'esiliato che non la realtà del braccato (dopo pochi mesi Céline verrà arrestato), è dolcemente o amaramente sferzante. «La vostra lettera mi carica di complicazioni sentimentali. Sono più semplice, Marie, e più vecchio anche, è passato per me quel tempo. Voi chiedete a un mutilato di giocare a bocce». E ancora: «Siete viziosa, Marie, complicate le cose. Ai tempi di Londra vi avrei fatto ruotare nelle peggiori sardanapalerie e ne sareste uscita semplificata, libera, guarita e non meno affascinante, intelligente e sensibile di come siete». Ma è ancora lei che lentamente riannoda i fili editoriali destinati a lungo a spezzarsi, che tiene i contatti, che invia riviste, libri (denaro mai: «Preferirei crepare che ricevere un centesimo»), cartine geografiche, che corre in soccorso quando allo scrittore, isolato, cominciano a venir meno le parole (come si dice in francese questo termine, le scrive inviandole il disegno del moschettone a cui si aggancia il guinzaglio del cane...).
Nelle lettere vengono fuori anche tutti i grandi temi dell'autodifesa che Céline elabora per gli anni a venire. Negazione assoluta di ogni contatto con l'occupante tedesco e di qualsiasi ruolo nelle file collaborazioniste, gigantesca chiamata di correo nei confronti del Tout Paris intellettuale e mondano che l'«occupazione» accettò e sostenne spesso di buon grado; elevazione di se stesso a capro espiatorio (con l'antisemitismo equiparato all'anticelinismo...); la sua rivoluzione stilistica vista come fonte di disgrazie, molla del risentimento e dell'odio del mondo culturale nei suoi confronti... L'armamentario, insomma, con cui mischiando mezze verità, bugie e reticenze viene messa a punto la leggenda dello scrittore puro, interessato solo alla sua arte, vittima delle circostanze. Ma è anche vero che solo la consapevolezza del proprio genio e un odio assoluto per chi lo vuole vedere a terra, gli permettono in quel «tempo del disprezzo» che si trova a affrontare, di continuare a crescere, di vendicarsi e di riaffermarsi creando. Non c'è spazio per gli altri, non c'è tempo per gli esami di coscienza... La sgradevolezza, l'egoismo, il cinismo sono le armi con cui i grandi difendono se stessi dagli assalti della normalità. «Sono al lavoro, ma questa trasposizione mi fa crepare... So bene dove voglio andare a parare... ma è pieno di liane... bisogna abbattere... e poi riannodare... un sentiero... poi un ponte...è la foresta tropicale... si riforma dietro di noi... É un incubo. Ah, lavoro nell'odio e con odio. Questo stare ai remi, navigando sull'inchiostro per portare agli altri il sogno! Il pubblico... L'affogherei nell'inchiostro». La scrittura come dannazione. Benedetta... maledetta.
Dall'esilio danese del dopoguerra alla morte, il primo luglio del 1961, passano nemmeno quindici anni, quanto basta però per riportare sulla scena letteraria, e non solo, il più odiato, esecrato, ingiuriato, calunniato autore del '900. Un arco di tempo breve, ma sufficiente per la più incredibile rinascita artistica del nostro secolo, una specie di doppio salto mortale, carpiato, con avvitamento, al termine del quale un nome dimenticato risorge a gloria di Francia, degno della Pléiade, opera omnia (o quasi), in carta riso, con tanto di note, notizie e varianti al testo , glossarietti e appendici, legioni di specialisti al lavoro, lettori fedelissimi, maniacali addirittura, esemplari casi clinici nel loro amore privo di qualsiasi pudore, pronti a scusar tutto, anche il non scusabile, a spiegare ogni cosa, anche l'inspiegabile...
Impresa disperata, e disperante, ché l'uomo Céline non era - non è- facile da amare. E del resto lui stesso sarebbe stato il primo a ritrarsi inorridito di fronte a una simile pretesa. Impresa disperata, e disperante, oltretutto, perchè di rado in una sola persona si concentrerà una tale capacità affabulatoria e bugiarda, sempre tesa a distorcere la realtà, a forzare la verità, a riscrivere la vita; la propria, quella altrui.
Un fiume in piena di bugie, così si presenta l'autobiografia celiniana: bugie piccole e grandi, innocue e meschine, puerili e ben costruite, quasi mai frutto di un'invenzione totale, di un falso assoluto, quasi sempre basate su un'operazione di sottrazione o di accumulo dell'esistente, del dato di fatto, dell'accaduto. Di estrazione piccolo-borghese, con tracce pregresse di nobilato locale, fra le quali i Des Touches del cavaliere omonimo celebrato da Barbey d'Aurevilly, eccolo costruirsi un'identità proletaria e/o popolare: scrittore del popolo, figlio del popolo, voce del popolo.
E certo, di povera gente, di emarginati, di sfruttati, di operai e di falliti, di miserabili ha avuto frequentazione: li ha incrociati da ragazzino, li ha avuti come commilitoni da soldato, come compagni di lavoro in Africa, come pazienti nel dispensario di Clichy. Li ha conosciuti, li ha studiati, li ha registrati nel grande libro della memoria; ma non è mai stato uno di loro.
Invalido di guerra, potrebbe orgogliosamente mostrare le mutilazioni, le decorazioni, gli articoli di stampa per raccontare il suo coraggio. Non gli basta: al braccio martoriato deve aggiungere una trapanazione del cranio mai avvenuta; e trasformare, lavorando di colla e di forbici, resoconti giornalistici in copertine a lui dedicate. Medico di base, non sa resistere all'idea di arricchire il proprio curriculum con esperienze presso le officine Ford, negli Stati Uniti, da lui appena visitate. E dietro il cliché del «dottore dei poveri» fatica a scomparire il bell'uomo alto più d'un metro e ottanta, che indossa abiti di buon taglio e stoffa inglese, biondo e con gli occhi azzurri, che conosce il mondo e il bel mondo, uno che a Ginevra come a Vienna, a New York come a Londra, sa dove andare, come muoversi, cosa vedere, a proprio agio con pianiste come Lucienne Delforge, con scultrici come Louise Nevelson, con figlie della buona borghesia di provincia come Edith Follet, la sua prima moglie.
La falsificazione, meglio, la riscrittura di se stesso è sistematica, non riguarda solo pubblico e critica, ma avvolge amici e parenti. Il passaggio dalla Germania in fiamme alla Danimarca dove si troverà intrappolato, dura tre giorni. Ma nel raccontarlo a interlocutori fidati, eccolo trasformarsi in un'epopea di tre settimane... L'arresto nella casa di Karen Jansen, l'amica danese che lo ospiterà a Copenhagen, un modesto episodio di polizia, con Ferdinand che non apre perchè teme che dietro la porta ci siano dei comunisti venuti per assassinarlo, diventa una sorta di Helzapopping sui tetti, lui e Lucette in fuga fra lucernari, proiettili che fischiano, urla minacce... L'amico Robert Poulet chinerà pietoso il suo sguardo su quella povera testa di trapanato di guerra: perchè Ferdinand è riuscito a convincerlo di una cicatrice che non c'è...
Il gioco del vero-non vero, del verosimile che si trasforma in reale, del reale che diviene inesistente, tiene botta anche di fronte all'accusa che nell'immediato dopoguerra lo bolla a fuoco: collaborazionista. Oggi noi sappiamo, sulla base di documenti, di ricerche d'archivio, di riscontri incrociati, di epistolari rimasti a lungo sepolti, che quella qualifica era pertinente. Céline «collaborò», non si limitò a scrivere qualche lettera ai giornali: rivendicò l'aver capito prima degli altri il disastro che si preparava per il suo Paese; rivendicò l'aver chiesto un'alleanza franco-tedesca; rivendicò la necessità di uno scontro all'ultimo sangue contro bolscevismo e democrazie liberali; rivendicò una linea di condotta recisa contro gli ebrei; auspicò una Francia razzialmente pura, nordica, separata geograficamente dal suo Sud meticcio e mediterraneo... Scelse con attenzione i giornali dove far apparire le sue provocazioni, ne seguì la pubblicazione, se n'ebbe a male quando qualche frase troppo forte gli venne tagliata, polemizzò aspramente. Fra il '41 e il '44 scrisse trentuno lettere (e sei non vennero pubblicate perchè ritenute «eccessive»), rilasciò undici interviste, ripubblicò i suoi pamplet, partecipò a conferenze, tenne contatti con le autorità tedesche. E però aveva qualche fondamento di verità la sua linea di difesa del «non aver collaborato». Perchè non fu nel libro paga di giornali o movimenti, perchè la critica militante nazista trovava troppo nichilista il suo pensiero, perchè in sedute conviviali più o meno pubbliche la sua vena esplodeva sinistra, prefigurando scenari catastrofici e rese dei conti epocali, perchè si adoperò per salvare qualche vita e omise di denunciare qualche gollista poco smaliziato, e perchè alla fine sembrò che con i tedeschi avesse fornicato solo lui.
Il Céline che nell'estate del 1950 rientra in Francia dopo cinque anni di esilio forzato in Danimarca, inaugura l'ultimo, geniale travestimento, l'ultima grande interpretazione di uno scrittore risentito contro tutto e tutti, pieno di rabbia verso il suo Paese eppure troppo francese per potersene separare. Anche qui, il personaggio che dopo una «quarantena» di qualche anno riprenderà a tenere banco fino alla morte, è in parte vero e in parte costruito, frutto di un accorto dosaggio di verità e finzione. Certo, in terra danese Céline ha sofferto, è stato imprigionato, s'è ammalato, il fisico ha ceduto e il vigore e le baldanza di prima della guerra sono un tenue ricordo. Eppure, se si va a fare un conto spassionato, di galera vera ha fatto sei mesi, i restanti sei li ha passati in ospedale... Certo, è un uomo economicamente rovinato, rispetto alle possibilità economiche di prima della guerra: i suoi libri non si ristampano, e quando cominciano a essere ripubblicati non si vendono... Eppure, la casa di Meudon, dove va a vivere, viene a costare due milioni e passa di franchi dell'epoca (pagati vendendo le proprietà della moglie), Gallimard garantisce un anticipo pari a 300 milioni di lire di oggi, l'oro che lo ha preceduto nella fuga e che non è stato requisito dai tedeschi gli ha consentito di sopravvivere e pagarsi più d'un avvocato...
Di nuovo, insomma, il confine fra realtà e finzione è incerto, nebuloso fonte di errori. Chi è portato al compatimento si ritrova spesso e volentieri scavalcato dall'accorgersi che l'oggetto compatito in realtà calcola, sorveglia, non sbaglia una mossa, piange a comando, insulta e si ritrae. Chi vorrebbe smascherare il vecchio gigione, scopre orgogli insospettabili, nobiltà di comportamenti, suprema indifferenza per «valori» allora (come oggi) alla moda: il successo, gli agi, le comodità...
Ciò non toglie che Céline che recita Céline sia uno spettacolo. E non per nulla Gen Paul, l'amico pittore della Butte, il gemello di Ferdinand nella Montmartre degli anni Trenta e Quaranta, trovava in lui una straordinaria rassomiglianza con il grande Louis Jouvet della Comédie française. Chi ha presente, attraverso le fotografie e le descrizioni, l'immagine del Céline circondato da cani e gatti, con il pappagallo Toto sulla scrivania, il foulard al collo, i pantaloni tenuti su da una corda, troppo larghi e troppo corti, i maglioni infilati l'uno sull'altro, la fronte solcata dalle rughe, la barba lunga e legge qualcuna delle interviste da lui rilasciate nel dopoguerra può farsene un'idea. Quei suoi n'est-ce pas cadenzati, quei suoi alors, bon, bah bah, non non non non, quel suo monologare apparentemente senza un filo conduttore, quel suo mischiare generi, quei suoi paragoni bizzarri, quei suoi sotterfugi ideologici. E tuttavia, chi non ha mai visto una ripresa televisiva con Céline nelle vesti di attore-protagonista non sa che cosa si è perduto. Le braccia e le mani tenute composte, immobili, come fossero di cera, un filo di voce iniziale, la testa piegata di lato, una specie di morto che parla. Poi, a poco a poco, il miracolo: il morto si rianima, gli arti si dimenticano d'essere come paralizzati, l'eloquio si fa più sicuro, i rari sorrisi lasciano il posto a un riso più disteso, il racconto s'impenna, fra sottolineature, imitazioni, libere interpretazioni. Riappare l'ombra del «Diavolo» che fu, quello che teneva banco fra atelier di pittori e bistrot di avenue Jounot e place du Tertre, quello che incantava e spaventava le signore, faceva ridere gli amici oppure scatenava interminabili risse verbali...
L'ultimo Céline ha un solo scopo, dichiarato anche se nel contempo negato e/o minimizzato. Riottenere quella dignità di scrittore liquidata come indegna alla luce del periodo collaborazionista. Della propria grandezza era stato consapevole fin dall'inizio, allorché, lasciando il dattiloscritto del Voyage da Gallimard, nel biglietto di presentazione aveva fatto notareche lì c'era «pane per un secolo intero di letteratura. E il premio Goncourt 1932 comodo comodo per il Felice Editore che saprà accettare questa opera senza pari, questo monumento capitale della natura umana»... Adesso, però, la partita appare difficile: sono tutti lì col fucile puntato, a aspettare il passo falso, il vagito, o grugnito, ideologico, per ricacciarlo nel girone dei dannati della scrittura. E perfino gli altri «dannati» come lui, lo aspettano al varco: vogliono vedere se rinnegherà, se farà pubblica abiura. Sanno benissimo che è di una pasta diversa, che il suo individualismo esasperato lo ha di fatto collocato altrove rispetto a loro, ma, volente o nolente, è dalla parte dei vinti che alla fine si è trovato e è anche dai vinti che dovrà essere giudicato.
Rivendicando a sé l'invenzione di una «petite musique», una piccola musica dello stile, Céline riesce a sfuggire sia ai primi, sia ai secondi, a ridursi per meglio ingigantirsi. Non ci si lasci ingannare da chi dando alla lingua di Céline, alla modernità del suo linguaggio un valore di pura sperimentazione, separa lo stile dal contenuto. Al contrario, Céline scrive in quel modo perchè dietro quella scrittura si cela una Weltanschauung dove l'emozione, l'irrazionale, il fantastico, il primordiale sono gli elementi fondanti. É il rimpianto e l'esaltazione di un mondo non dominato dalla ragione né dal progresso, dove l'istinto vince sul costruito, dove la bellezza fisica rimanda a uno stato di grazia premoderno quando la spontaneità, il naturale erano i cardini dell'esistenza. Per ricostruire questo stato dell'essere e del sentire, l'unico modo è sventrare una lingua francese cartesiana, illuminista e illuminata, fiera della sua chiarezza quale negli ultimi tre secoli almeno è andata formandosi. Céline usa l'ariete dello stile non per andare avanti, ma per tornare indietro. «Il fondo dell'Uomo malgrado tutto è Poesia. Il ragionamento si apprende, così come si impara a parlare. Il bebè canta, il cavallo galoppa, il trotto è di scuola... Tutto il mio lavoro è consistito nel cercare di rendere la prosa francese più sensibile, tesa, precisa, sferzante e cattiva, iniettandole un linguaggio parlato, il suo ritmo, il suo tipo di poesia e di tenerezza malgrado tutto».
Una volta innalzato il proprio monumento stilistico, alle possibili trappole ideologiche Céline risponde glissando, deviando, attaccando: «Sono un patriota sfrenato in un Paese di degenerati, lacchè e bastardi. Si tratta di ben altra cosa che tradimento, è precisamente il contrario. Sono gli altri, tutti gli altri, che galoppano urlando dietro la bandiera, gareggiando per farsi inculare dal miglior offerente. Per essi il mio caso è inespiabile». «Ci si accanisce a volermi considerare un massacratore di ebrei. Io sono un preservatore accanito di francesi e ariani e contemporaneamente, del resto, di ebrei...Ho peccato credendo al pacifismo degli hitleriani, ma lì finisce il mio crimine». Trasformato l'antisemitismo in pacifismo, scolorato piuttosto che negato, orientato in maniera diversa, ecco allora che l'unico vero ebreo, umiliato, offeso e perseguitato in fondo è propro lui. Ennesima trasformazione dove verità e menzogna si fondono al servizio di un genio fulminato.
Il fatto è che bisogna leggere o rileggere Céline, il biologo Céline, il razzista Céline, l'estremista Céline, l'irrazionalista Céline, il nicciano Cèline (nel suo Cèline écrivain Anne Henry ne dà una icostruzione esemplare e sfata una volta per tutte la leggenda di uno scrittore esagerato, senza basi filosofiche) se si vuol sapere qualcosa di più, e di più vero, sulla natura umana, sui suoi abissi di mostruosità, sui suoi deliri di grandezza, sui suoi istanti di dolcezza, sulla miseria del vivere e sulla certezza spaventosa del morire. Lì dove tacciono tutte le anime belle del pacifismo, dell'eguaglianza, della solidarietà, annichilite dall'orrore, incapaci di andare al di là dell'esecrazione e della condanna, ecco levarsi la sua voce per dirci che anche questo, è la vita.
Chi voglia capire che cosa da qualche anno ormai stia succedendo nei Balcani, nelle ex provincie dell'ex impero sovietico, in Medio Oriente, si vada a prendere i romanzi che Céline scrisse fra il 1957 e il 1961: Da un castello all'altro, Nord, Rigodon... Lì c'è tutto: la guerra come migrazione di popoli, il passato riscritto a seconda di chi vince, i bombardamenti come scienza, l'arrangiarsi fra le rovine, la canaglia che trionfa, la selezione naturale, i tradimenti, le delazioni, le menzogne, il disfrenarsi dei sensi, la voglia disperata di sopravvivenza e l'impulso irresisitibile alla distruzione, la tragedia annodata alla buffoneria, l'esplosione totale di un mondo - monumenti, leggi, vincoli, decreti, usi e costumi, tic e tabù - e la sua rimessa in forma, pezzo per pezzo, frantume per frantume con il Senso della Storia che si incarica poi di spiegare, di razionalizzare, di raccontare il perchè e il percome la Civiltà d'improvviso diventi Barbarie...
Nella Trilogia del Nord, una volta cambiate le date e gli scenari geografici, tutto il resto è di straordinaria attualità. «Pulizie etniche», la maledizione dei cecchini, il susseguirsi di ordini e contrordini, l'assurdità di avanzate e di ritirate, la paranoia delle gerarchie, la convivenza con il sangue, l'anormalità assunta come norma di comportamento, il sesso che diventa arma e commercio, premio e punizione, oasi e delirio, l'esistenza quotidiana che continua nonostante tutto, come le oche a cui tagli la testa ma che per impulso animale seguitano a camminare.
Cantore, di parte, di un continente messo a ferro e fuoco in un epocale regolamento di conti, sotto le mentite spoglie del cronista Céline racconta la fine di un'idea di Europa cui ha creduto e per la quale si è battuto: razziale, antidemocratica, panica e pagana, antimoderna e mitica. C'è del metodo in questo scrittore fintamente istintivo: c'è la consapevolezza e la volontà di opporre a un sistema di valori che detesta una visione del mondo in cui bellezza, purezza, perfezione fisica, emozione diano un senso al non senso della vita.
E ha ragione Henri Godard, il maggior specialista letterario di Céline a notare che il nichilismo celiniano va rovesciato, perchè in lui «è proprio l'idea della morte a fondare un valore principale che consiste, precisamente, nel lottare contro la morte, in un combattimento che si sa perdente ma che basta a dare un senso alla vita. Non potendo trionfare su di lei, è possibile tentare di ritardarla, e anche di opporle qualcosa su cui non abbia presa».
Scrittore antimaterialista, Céline cercò di combattere il materialismo usando uno strumento, la razza, altrettanto materiale e, come tale, incapace di cogliere differenze di valori e di sensibilità. Le Lettres des années noires che Philippe Alméras ha pubblicato in Francia fra mille polemiche, sono da questo punto di vista esemplari. L'ideale ariano, che Céline propugna fino a voler dividere la Francia in due, una suralgerina, l'altra nordica, e che altri si incaricheranno di mettere bestialmente in pratica, si trasformerà in beffa allorchè, dopo essere stato imprigionato in Danimarca, si troverà a scrivere: «Merda agli ariani. Durante 17 mesi di cella non un solo dannato fottuto dei 500 milioni di ariani d'Europa ha emesso un gridolino in mia difesa. Tutti i miei guardiani erano ariani!» Quando si predica la purezza c'è sempre qualcuno che si crede più puro di te.
5 commenti:
Il parossismo cosmico di Celine mi fa tornare in mente, a mò di parabola simbolica, l'illuminante delirio del professor Princhard, c'è lo ricordiamo tutti il suo smoderato attacco a una umanità, una società che andava via via definendosi sempre assetata di materialismo, più ipocrita e più assassina: "Ve lo dico io, gentucola, coglioni della vita, bastonati, derubati, sudati da sempre, vi avverto, quando i grandi di questo mondo si mettono ad amarvi, è che vogliono ridurvi in salsicce da battaglia...". Visto retrospettivamente, mi appare come una fatalità, quasi una chiaroveggenza di quel che gli sarebbe potuto accadere, e che gli accadde, nella vita, che per quanto controversa, si è trattato comunque (combattere contro idee e accuse disgustose, criteri volgari) di una situazione agghiacciante e assolutamente insostenibile.
Quindi l'irritabilità di Celine non ha tanto rapporto col temperamento, ma con una straordinaria chiaroveggenza di quel che è giusto o ingiusto. Chiaroveggenza che non è altra cosa se non un corollario della viva percezione del vero, della giustizia, della proporzione, in una parola: del bello! senso che nello stesso tempo racchiude egualmente ogni deformità e sproporzione.
Per questo Celine è stato, e rimarrà per sempre, (anche nel suo delirio, nella sua vasta prigione, tragedia il cui orrore è accresciuto dalla trivialità) Grande!!!
Personalmente Amo più "il primo" Celine. Amo profondamente il Voyage, tantevvero... che in un progetto (fine-art, -?- boh... è così che la chiamano;) che ho appena realizzato, non ho resistito.... v'è tanto di quel Celine.... anche nei titoli... e sottotitoli. Si, poiché per ogni opera oltre al titolo ho aggiunto, un pensiero, un aforisma, tra questi, alcuni estrapolati (adattati... contestualizzati...) da quel pozzo interminabile di Poesia qual è il Voyage. In più di una, vi si può vedere, immaginare, lo stesso Bardamu a New York, o Celine nell'ora d'aria: "vasta come la solitudine" di Meudon.
Ah... dimenticavo: E' meravigliosa la scoperta di questo sito!!!!!! quanto tempo c'ho già passato..... grazie Andrea! grazie tutti...!
Grazie anche a Stenio. Trovo questo suo saggio... vivido... e, come suol dirsi.... "politically correct".
in gamba!! Aldo
Grazie per il commento e per i complimenti, che estendo a Gilberto (come me spesso tra lo sbalordito e l'imbarazzato per le ripetute attestazioni di stima di voi céliniani internauti nei nostri confronti) e agli amici del Blog!
Grazie ancora,
Andrea
Errata corrige: quasi involontariamente, oggi, mi ritrovo a rileggere il mio primo commento qui, sul Nostro e sull'articolo di Solinas; con rammarico m'accorgo che nei "ringraziamenti" a Solinas mi sono incartato in questo passo conclusivo: "Trovo questo suo saggio... vivido... e, come suol dirsi... "politically correct".
Ma in realtà intendevo...: "Trovo questo suo saggio... vivido sì, ma ahimè, come suol dirsi... siamo alla solita "retorica politically correct".
Boh... può capitare, no?
Scusatemi ma ci tenevo...
...e bravo Fiorucci, complimenti!
sottoscrivo il tuo giudizio sull'articolo, per quel che vale, da "innamorata persa" di Céline...
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