giovedì 23 luglio 2009

Louis-Ferdinand Céline, I sotto uomini. Testi sociali



Il nostro lettore Antonio, che ringraziamo assieme a Marco Tarchi, ci ha segnalato una serie di recensioni di libri di Céline apparse su "Diorama letterario"; postiamo qui la prima:

da "Diorama letterario" n. 177, 2/1994.

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Louis-Ferdinand Céline, I sotto uomini. Testi sociali.
A cura di Giuseppe Lezzi, Shakespeare and Company, Roma 1993, pag. 155.

Céline, come è noto, fu anche medico. Fu il medico dei poveri di Meudon, nella cintura parigina, dove morì nel 1961 disgraziato e solo: i cani i gatti e Lucette, il cimitero vicino alla ferrovia, i parenti che tengono nascosta la notizia della morte. L’immaginetta così devotamente céliniana si può arricchire del sospetto che circolava tra i malati di Meudon, cirrosi e vene varicose, proletari alcolizzati e ignoranti, per quello strambo medico che non voleva farsi pagare, che si diceva avesse nascosto un tesoro in Danimarca. Eppure Céline si laureò, trentenne, in medicina con una tesi sulla vita e l’opera di Filippo Ignazio Semmelweis (tradotta in italiano da Adelphi nel 1975) che costituisce, nella sua produzione complessiva, un raro capolavoro. Si laureò con un omaggio all’ostetrico ungherese che scoprì, inascoltato, l’origine delle febbri puerperali derivate dal contatto delle mani impure di chi assisteva le partorienti dopo aver toccato cadaveri, e che morì pazzo di setticemia in seguito alla ferita a un dito. Morte, senza resurrezione, contagio e pazzia, ospedali e metropoli si ritroveranno poi nel repertorio dello scrittore maturo, sempre in primo piano: un’ossessione, uno stordimento. “La Medicina”, nota Guido Cernetti nella postfazione all’edizione adelphiana de Il dottor Semmelweis, “ha la sua perfetta doratura céliniana nell’assioma che apre Morte a credito: è merda. Il medico, un professionista sputtanato, un garagista, la vittima annoiata dalla connerie dei malati, che vogliono all’infinito essere toccati, ascoltati, misurati, radiografati, presi sul serio…” . Ma al Passage Choiseul, dove Céline ha trascorso la sua leggendaria infanzia tra merletti e polizze, la medicina incarna ancora la rispettabilità: “se si cerca un santo da venerare lo si elegge tra i medici”.
Céline sente nella propria carne l’orizzonte piccolo-borghese del riscatto sociale attraverso la professione (La Cittadella di Cronin), e ne prova orrore; d’altra parte sbeffeggia ferocemente il ceto dei camici bianchi, con il loro cinismo superficiale e da routine. La sua medicina è la stessa di Semmelweis: amore infinito per l’uomo; assolutamente. La medicina che ti fa vivere, anziché morire; che ti salva la ghirba, finché è possibile. Questo elevato concetto di bontà e l’umanitarsimo, che innervano l’opzione per questo tipo di medicina, saranno sempre presenti nella necessità artistica e nello stile di vita, a tutto tondo, di Céline. Il luogo comune può quindi essere perfettamente ribaltato: Céline non odia, ama.
Nel 1925 il dottor Louis-Ferdinand Destouches, funzionario medico della Società delle Nazioni, si reca negli Stati Uniti per un lungo viaggio di studio sulle realizzazioni della medicina del lavoro, osservate nella culla del massimo sviluppo capitalistico e industriale. Le relazioni di quell’esperienza, il testo di una conferenza ad essa connessa, alcune lettere e qualche articolo di giornale in materia sanitaria costituiscono i Testi sociali presentati da Giuseppe Lezzi al pubblico italiano col titolo, un po’ troppo calcato, I sotto uomini. I problemi affrontati sono quelli della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro; dell’occupazione, del salario e dell’organizzazione produttiva. Travalicano, con il loro grigiore, l’ispirazione letteraria del futuro scrittore ma ne documentano ulteriormente l’utopia umanitaria: anche un filisteo delle biografie, leggendoli a posteriori, potrebbe considerare inevitabilmente che Céline molli tutto per buttarsi come un forsennato nel Viaggio: “è andata così”.
Cominciamo dalla catena di montaggio e dalla visita alla fabbrica di automobili Ford di Detroit, che offre l’occasione per un’osservazione fondamentale: il lavoro è la migliore medicina per l’uomo malato della società industriale. Si tratta del lavoro standardizzato, quello “così semplificato, così specializzato che consiste in uno o due gesti ripetuti attorno a una macchina, un numero fisso di volte al giorno”. Si tratta del lavoro non professionale che Henry Ford (1863-1947), il pioniere della vettura privata di massa, era in gradi di dare “a tutti, o più esattamente a non importa chi”, pagando per giunta alti salari.
Il sistema Ford si basava sull’estrema razionalizzazione (taylorismo) e sulla lavorazione in serie, che avevano reso possibile una grandissima produzione con diminuzione dei costi e aumento delle paghe, senza con questo portare alla soppressione graduale della manodopera, “di cui un terzo, e in alcuni casi otto su dieci, sono buoni a nulla e possono essere sostituiti immediatamente da altre macchine, con un rendimento non uguale ma dal trenta al cinquanta per cento superiore”.
Possono essere sostituiti ma non lo sono. Di fronte a questa decisione antieconomica Céline rimane incantato, alla faccia della legge tendenziale di caduta del saggio di profitto. Effettivamente il circolo virtuoso fordiano alti salari-produzione di massa-consumi di massa si dovrebbe spezzare nel punto della razionalizzazione produttiva, che implica nell’immediato una riduzione della forza-lavoro per unità di prodotto e quindi disoccupazione, con conseguente flessione dei consumi sostenuti dai redditi di lavoro – ma tant’è. Nessuno se ne va dalla Ford, nessuno si assenta per malattia: il mantenimento dei livelli occupazionali, gli alti salari, l’inutilità di costosi tirocinii formativi si rifondono nel bozzetto céliniano dell’operaio che, pur non essendo in grado “di fornire che due piccole ore di lavoro al giorno, viene comunque in fabbrica e poi, quando è stanco, si siede o si stende in un cantuccio”. D’altra parte ci si muove “dalla mattina alla sera attorno a macchine rapide, martellanti, taglienti… in mezzo alla più grande monotonia industriale conosciuta. Monotonia rumorosa d’altronde, monotonia sovraeccitante, lo strepito è infernale in quasi tutti i reparti, non si può comunicare che all’orecchio e gridando con tutte le proprie forze”. Eppure gli operai non abbandonano il lavoro, in qualsiasi condizione di salute si trovino. Sembra quasi che ricambino l’immensa indifferenza professionale che li contraddistingue con la stessa moneta: “quello che fanno, quello che pensano, quello che succede alle persone che scortano questo macchinario a grande rendimento, non influenza molto la produzione”. […]

Francesco Bergomi

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Sull'America e gli americani, sul fordismo e capitalismo, cogliamo l'occasione per segnalare La mia scoperta dell'America, di Vladimir Majakovskij.




2 commenti:

johnny doe ha detto...

Una curiosità: il libro indicato nel 1993 é una prima edizione e i vari testi che lo compongono che date hanno?

Altro interessante contributo celiniano.

Andrea Lombardi ha detto...

Grazie!

Sì, la prima edizione è del 1993, i testi sono del 1925, 1928 e 1933.