Imputato Céline, voi siete assolto!
di Ernesto Ferrero
La guerra, il colonialismo, le catene di montaggio, il degrado delle metropoli...Viaggio al termine della notte è probabilmente il romanzo che meglio d’ogni altro rappresenta i drammi del Novecento, e con una dirompente novità stilistica, la cui forza è ancora oggi intatta. Come è possibile che il suo autore, Louis-Ferdinand Destouches in arte Céline, il caritatevole medico dei poveri, abbia scritto tra il 1935 e il 1941 tre pamphlet che contengono deliranti invettive antisemite? Come è possibile che l’onesto dottor Jekyll si sdoppi nel mostruoso Mr. Hyde, che denuncia nelle lobbies ebraiche l’icona stessa del Male che avrebbe sommerso il mondo?
Gira gira, siamo sempre lì a interrogarci sulle scissioni che possono mettere l’uomo contro lo scrittore. Si sa: le qualità di un artista non producono per ciò stesso una corretta lettura della realtà e della Storia, e men che mai della politica. Pound docet. Ma qui il caso si presenta particolarmente spinoso e complesso. Questo è anche il nocciolo della ponderosa biografia che Marina Alberghini, francesista fiorentina che adora i gatti, dedica a Céline gatto randagio (Mursia, pp. 1160, e 29). Etichetta pertinente, visto il suo nomadismo insofferente d’ogni vincolo. E poi Céline è il felice padrone di Bébert, felino di intelligenza più che umana, amato come un figlio, uno dei pochi personaggi positivi della storia, insieme all’angelica moglie Lucette, la piccola danzatrice andalusa che fu la sua Beatrice.
È la prima biografia scritta in italiano, ovviamente debitrice delle tre apparse in Francia (Gibault, Alméras, Vitoux), delle migliaia di lettere uscite in questi anni, di una pubblicistica imponente, ma anche di indagini e interviste condotte di persona. Prende Céline tutto intero, in blocco, com’è giusto che sia: viscerale, magmatico, assetato di martirio. Il tono è quello, a volte quasi colloquiale e informale, di una appassionata arringa difensiva, che vorrebbe non soltanto scagionare l’imputato da accuse non provate, ma addirittura risarcirlo della proscrizione che lo tenne lontano dalla Francia sino al 1951, mentre altri, più colpevoli, se la cavarono con molto meno. In effetti Céline, bastian contrario sempre controcorrente, era un capro espiatorio ideale: per quanti s’erano compromessi con Vichy, e per quanti avevano aderito acriticamente al comunismo sovietico. Lo stesso Sartre, che dopo la guerra accuserà ingiustamente Céline d’essere stato pagato dai nazisti, durante l’occupazione era legato a una rivista collaborazionista. Ha buone ragioni la Alberghini nel sostenere che Céline, «comunista d'animo», come si autodefiniva, pagava anche la colpa di avere denunciato lo stalinismo sin dal 1936: «Tutto è polizia, burocrazia e caos infetto. Tutto bluff e tirannia...». Ma anche lì, il «socialismo reale» era per lui una metafora dell’eterna difettività dell’uomo. Come in Gadda, il suo furore accusatorio nasce dalla ferita di una delusione che non si dà pace.
Strano antisemita, con amici e fidanzate ebree, peraltro difeso ancora nel 1944 dal mensile del Movimento Nazionale Ebraico: «Il suo individualismo, la sua solitudine intellettuale lo fanno fratello degli ebrei». Nei tre libri «maledetti», che pochi hanno letto (per le sue stesse disposizioni testamentarie che la vedova fa rispettare rigorosamente) ne ha per tutti: i comunisti, gli stessi francesi, gli ariani, i giornali, il Capitale, la Chiesa, la borghesia crapulona, i colleghi imbolsiti. Chiama Pétain «Bédain», cioè trippa, e Hitler Dudule, famoso clown dell’epoca. Finché si sente l’unico a denunciare le cospirazioni degli ebrei guerrafondai, si sfrena in un delirio accusatorio che finisce per risultare comico-grottesco, la caricatura di se stesso: «essenzialmente metaforico e violentemente iperbolico», come diceva Raboni, per cui il lettore si ritrova scisso tra consenso estetico e dissenso etico.
Ma quando i tedeschi arrivano a Parigi e la persecuzione diventa una pratica effettiva, Céline si tiene in disparte, rifiuta le offerte di collaborazioni giornalistiche e radiofoniche, non entra in associazioni filo-tedesche. Il grande anarchico si ritira sull’Aventino di Montmartre aspettando il peggio che s’è costruito con le sue mani. Al piano di sotto si riuniscono degli esponenti della Resistenza che lui non denuncia, anzi. Quando ascoltano Radio Londra, li prega di aumentare il volume, perché lui da sopra non sente bene. Amava così poco i «fritzi» che, a 50 anni e invalido al 75 per cento, scoppiata la guerra si era perfino arruolato volontario.
In Germania il Viaggio era stato bollato come arte degenerata, e l’autore come un personaggio imbarazzante. Lui ricambiava, profetando sin dal 1933 che là si stavano preparando «immonde intraprese sadiche e mostruose», e che l’Europa intera sarebbe stata fascista per parecchio. L’invasato sapeva anche veder bene. Al giovane Arbasino che va a trovarlo nel 1959 predice che gli Stati comunisti si sarebbero aperti prima o poi al capitalismo. Aveva ragione Gide quando spiegava che non è la realtà che Céline dipinge, ma l’allucinazione che la realtà gli provoca. Chi lo frequentò ricorda che non guardava negli occhi l’interlocutore, come se obbedisse soltanto alle visioni oltranziste che lo agitavano dentro. L’uomo dall’insostenibile pesantezza dell’essere sapeva che il delirio può arrivare dove fallisce la ragione.
(fonte: Tuttolibri, in edicola sabato 4 aprile)
Gira gira, siamo sempre lì a interrogarci sulle scissioni che possono mettere l’uomo contro lo scrittore. Si sa: le qualità di un artista non producono per ciò stesso una corretta lettura della realtà e della Storia, e men che mai della politica. Pound docet. Ma qui il caso si presenta particolarmente spinoso e complesso. Questo è anche il nocciolo della ponderosa biografia che Marina Alberghini, francesista fiorentina che adora i gatti, dedica a Céline gatto randagio (Mursia, pp. 1160, e 29). Etichetta pertinente, visto il suo nomadismo insofferente d’ogni vincolo. E poi Céline è il felice padrone di Bébert, felino di intelligenza più che umana, amato come un figlio, uno dei pochi personaggi positivi della storia, insieme all’angelica moglie Lucette, la piccola danzatrice andalusa che fu la sua Beatrice.
È la prima biografia scritta in italiano, ovviamente debitrice delle tre apparse in Francia (Gibault, Alméras, Vitoux), delle migliaia di lettere uscite in questi anni, di una pubblicistica imponente, ma anche di indagini e interviste condotte di persona. Prende Céline tutto intero, in blocco, com’è giusto che sia: viscerale, magmatico, assetato di martirio. Il tono è quello, a volte quasi colloquiale e informale, di una appassionata arringa difensiva, che vorrebbe non soltanto scagionare l’imputato da accuse non provate, ma addirittura risarcirlo della proscrizione che lo tenne lontano dalla Francia sino al 1951, mentre altri, più colpevoli, se la cavarono con molto meno. In effetti Céline, bastian contrario sempre controcorrente, era un capro espiatorio ideale: per quanti s’erano compromessi con Vichy, e per quanti avevano aderito acriticamente al comunismo sovietico. Lo stesso Sartre, che dopo la guerra accuserà ingiustamente Céline d’essere stato pagato dai nazisti, durante l’occupazione era legato a una rivista collaborazionista. Ha buone ragioni la Alberghini nel sostenere che Céline, «comunista d'animo», come si autodefiniva, pagava anche la colpa di avere denunciato lo stalinismo sin dal 1936: «Tutto è polizia, burocrazia e caos infetto. Tutto bluff e tirannia...». Ma anche lì, il «socialismo reale» era per lui una metafora dell’eterna difettività dell’uomo. Come in Gadda, il suo furore accusatorio nasce dalla ferita di una delusione che non si dà pace.
Strano antisemita, con amici e fidanzate ebree, peraltro difeso ancora nel 1944 dal mensile del Movimento Nazionale Ebraico: «Il suo individualismo, la sua solitudine intellettuale lo fanno fratello degli ebrei». Nei tre libri «maledetti», che pochi hanno letto (per le sue stesse disposizioni testamentarie che la vedova fa rispettare rigorosamente) ne ha per tutti: i comunisti, gli stessi francesi, gli ariani, i giornali, il Capitale, la Chiesa, la borghesia crapulona, i colleghi imbolsiti. Chiama Pétain «Bédain», cioè trippa, e Hitler Dudule, famoso clown dell’epoca. Finché si sente l’unico a denunciare le cospirazioni degli ebrei guerrafondai, si sfrena in un delirio accusatorio che finisce per risultare comico-grottesco, la caricatura di se stesso: «essenzialmente metaforico e violentemente iperbolico», come diceva Raboni, per cui il lettore si ritrova scisso tra consenso estetico e dissenso etico.
Ma quando i tedeschi arrivano a Parigi e la persecuzione diventa una pratica effettiva, Céline si tiene in disparte, rifiuta le offerte di collaborazioni giornalistiche e radiofoniche, non entra in associazioni filo-tedesche. Il grande anarchico si ritira sull’Aventino di Montmartre aspettando il peggio che s’è costruito con le sue mani. Al piano di sotto si riuniscono degli esponenti della Resistenza che lui non denuncia, anzi. Quando ascoltano Radio Londra, li prega di aumentare il volume, perché lui da sopra non sente bene. Amava così poco i «fritzi» che, a 50 anni e invalido al 75 per cento, scoppiata la guerra si era perfino arruolato volontario.
In Germania il Viaggio era stato bollato come arte degenerata, e l’autore come un personaggio imbarazzante. Lui ricambiava, profetando sin dal 1933 che là si stavano preparando «immonde intraprese sadiche e mostruose», e che l’Europa intera sarebbe stata fascista per parecchio. L’invasato sapeva anche veder bene. Al giovane Arbasino che va a trovarlo nel 1959 predice che gli Stati comunisti si sarebbero aperti prima o poi al capitalismo. Aveva ragione Gide quando spiegava che non è la realtà che Céline dipinge, ma l’allucinazione che la realtà gli provoca. Chi lo frequentò ricorda che non guardava negli occhi l’interlocutore, come se obbedisse soltanto alle visioni oltranziste che lo agitavano dentro. L’uomo dall’insostenibile pesantezza dell’essere sapeva che il delirio può arrivare dove fallisce la ragione.
(fonte: Tuttolibri, in edicola sabato 4 aprile)
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