lunedì 28 marzo 2016

Cultura. Vanità e poesia di Céline nelle “Lettere alle amiche”


Cultura. Vanità e poesia di Céline nelle “Lettere alle amiche”
“Lettere alle amiche” di Louis-Ferdinand Céline, un gioiello pubblicato da Adelphi

“Se preferisco le donne agli uomini è perché hanno il vantaggio di essere più squilibrate, quindi più complicate, più perspicaci e più ciniche, senza contare quella superiorità misteriosa che conferisce una schiavitù millenaria” (E.M. Cioran – Confessioni e anatemi).

L’eccedenza femminile come fuoriuscita dalla norma, quale excedere, appunto, dalla mediocrità. Come un dono naturale la donna porta frutti all’uomo, per rivelarsi tuttavia ben presto un artificio: splendido e misterioso strumento di innalzamento interiore dell’amante, è capace nel contempo di una portentosa operazione di distruzione. Novella nichilista, promette e tradisce, disvela e occlude, mostrando la contraddizione del reale nella plasticità delle forme erotiche. Giocattolo reificato per alcuni, venerabile signora per altri: l’archetipo femminile è multiforme, perennemente oscillante fra la figura virginea della Madonna (mea domina) e l’emblema chiaroscurale di Maria Maddalena.

Lo sapeva bene Louis-Ferdinand Céline, che al confronto col mistero femminile ha dedicato tante energie, nella scrittura così come nel proprio percorso esistenziale. Lo testimoniano gli scambi epistolari intercorsi con sei donne, incontrate fra il 1932 e il 1935, recentemente pubblicati da Adelphi. Queste Lettere alle amiche mostrano un Céline ambiguo e ondivago: la sua postura nei confronti delle sei donne, amiche e amanti occasionali, rivela un dongiovanni scaltro e insaziabile, a tratti ipocrita, eppure sempre pronto a radicali aperture di umanità. Céline vive autenticamente il dissidio esistenziale che si manifesta nell’incontro della persona con l’alterità, nel rischio che l’individualità sia fagocitata dall’altro, così come nel pericolo opposto, quello della solitudine solipsistica.

Lo rivela Colin W. Nettelbeck nella premessa al testo: «Se è “andato a letto con quasi tutte le donne attraenti” che ha conosciuto (lettera a N., VII), è non tanto per il piacere, quanto perché in qualche modo convinto che le donne siano l’incarnazione di forze istintive che gli permettono di cogliere il mondo in modo più diretto e franco che non attraverso la parola. Conoscere una donna è un modo di entrare in contatto con l’altro, di uscire dall’unità mortale del proprio sé per andare verso la vita, molteplice e multiforme».

Per questa esigenza di vita originaria, Céline si atteggia spesso a bieco materialista, rivendicando l’importanza della sicurezza economica, la priorità del successo e dell’affermazione sociale, la centralità della soddisfazione dei bisogni fisici. Come a voler pretendere per le proprie corrispondenti quel profilo di serenità psicofisica di cui l’autore fu sempre privo – e con violenza privato. «Bisogna fare tutto il contrario della vita che ho scelto – annota Céline –. Specie per una donna. L’esatto contrario. Io almeno ho l’attenuante di avere una specie di vocazione a essere infelice». Un monito, questo, a superare quello stato di dannazione mortale che è stigma di larga parte della migliore cultura occidentale del Novecento. Noia, nausa, spleen, nichilismo: questi i compagni del viaggio al termine della notte dell’animo dell’autore.

«In futuro serviranno idee e cosce e vizi. Conservi e si procuri queste cose» scrive Céline a Erika Irrgang, giovane studentessa tedesca in cui “l’artigiano della parola” – per usare una sua metafora – aveva intravisto una possibile anima gemella. E ancora, ecco un invito alla fanciulla che è uno dei passaggi più volgari dell’intera raccolta dei carteggi: «Divenga decisamente viziosa sessualmente. É una cosa che aiuta molto e libera dal romanticismo, la peggiore delle debolezze femminili – e delle debolezze tedesche soprattutto. Impari a far l’amore “da dietro”. É una cosa che aiuta tantissimo a far contenti gli uomini senza alcun rischio. Davanti è una rovina. Attenzione! Massima attenzione!».

È d’altra parte proprio questa sete di concretezza, questa aspirazione al conseguimento di una pienezza esistenziale non astratta, bensì carnalmente spirituale, a spingere l’autore a celebrare un primato vitalistico in cui l’eros è potenza implicita e inestirpabile, nettamente superiore alla finzione artistica che tenta semplicemente di offrirne raffigurazione formale. «Questi letterati – scrive Céline con disprezzo – s’eccitano molto con le parole e basta. Sono figli del Vento. Il mio disprezzo della letteratura è grande, N. Per me non è più importante dello yoyo. Io la pratico proprio come fosse uno yoyo. Perché la vita mi è atroce, perché devo pur passare il tempo e perché con lo yoyo vero non so giocare». E, ancor più lapidariamente: «la letteratura è Morte. A tenerci in vita è solo l’affetto per le persone e le cose. Tutto il resto è niente».

Le istanze idealistiche e romantiche si spengono nella ruvida prosa céliniana, che pure nasconde territori di profonda dolcezza. Si tratta di quella pacatezza umana che nasce dopo aver guardato e accettato l’abisso, ove risiede quella verità che anche per Céline è tuttavia talvolta eccessiva e inaccettabile: «Non sono abbastanza forte per guardarla in tutto il suo orrore umano e mondiale» afferma lo scrittore. Una verità, quella scorta, che si mostra nell’evento metamorfico del suo presentarsi, spezzando tutte le certezze precostituite e inducendo l’autore a un’asserzione dai tratti Zen: «Io non ho opinioni. Non ci sono opinioni. L’acqua non ha opinioni».

La verità di Céline non è infatti mai statica, ma sempre plurale e in transizione; il daimon del francese è un mutaforme, un discendente di Proteo. «Sembra un po’ contraddittorio tutto questo – scrive l’autore –, ma solo le contraddizioni sono vitali e pratiche».

Il pessimismo radicale – «Gli anni passano nella diffidenza, nella vergogna e nella noia» – conduce Céline a formulazioni liriche estreme del proprio disagio interiore: «Lei lo sa che ho un’esistenza tormentata. In realtà sono un malato, cronico. Un passato di problemi tremendi, d’animale braccato, mi ha tolto per sempre il gusto di rischiare e d’impegnarmi. Moralmente, fisicamente vivo giorno per giorno. Faccio quello che posso – come posso. Ho voglia di morire più che di vivere – per dirla tutta».

L’atteggiamento del dottor Destouches nei confronti delle donne è dominato, nell’intera corrispondenza, da una precisa convinzione teorica e sentimentale: «Si possono amare molte persone contemporaneamente. É una verità che quasi sempre uno scopre quando muore». Tale predisposizione dipende tuttavia, a nostro avviso, non tanto dalla pur evidente carica erotica e pulsionale dell’uomo, quanto da un’intima tensione verso una polarità femminile archetipica che nelle singole creature trova ipostatizzazione contingente, ma che non si risolve mai in nessuna di esse. In ogni donna di cui si innamora Céline non riscontra una semplice amante carnale, bensì una manifestazione di un femmino originario. Ogni “amica” è, in fondo, un simbolo di Venere terrestre e Venere celeste: un viatico lungo il percorso in hac lacrimarum valle.

*Lettere alle amiche, di Louis-Ferdinand Céline, a cura di Colin W. Nettelbeck, (tr. it. di N. Muschitiello, Adelphi, Milano 2016, € 15)

@barbadilloit
Di Luca Siniscalco

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