Il Verri e Céline
di Gilberto Tura
E' solo verso la fine degli anni '60 che la critica italiana inizia a interessarsi seriamente di Céline, imponendosi un approccio scientifico rivolto al superamento della dimensione scandalosa e "politica" che fino ad allora era stato l'oggetto privilegiato degli studi céliniani. Finalmente viene messo al centro dell'indagine e dell'analisi la portata e il valore dell'innovazione stilistica dell'opera del medico-scrittore, i legami e le ascendenze con la tradizione letteraria francese, ma anche i parallelismi e i confronti con le espressioni più originali e avanzate del novecento.
In questo nuovo contesto la rivista letteraria IL VERRI, fondata a metà degli anni '50 da Luciano Anceschi (1911-1995), autorevole critico letterario e docente di estetica all' Università di Bologna, dedica (quasi integralmente) nel febbraio 1968 un numero speciale a Louis-Ferdinand Céline, precisamente il n. 26 . La pubblicazione contiene una raccolta di saggi del linguista e critico letterario austriaco Leo Spitzer, del poeta livornese, primo e unico traduttore in italiano di Mort a credit, Giorgio Caproni, dello scrittore, famoso per il lungo e fortunato sodalizio con Carlo Fruttero, Franco Lucentini, del critico Renato Barilli, della francesista Anna Licari e dello scrittore Gianni Celati.
Vi compaiono inoltre, per la prima volta tradotti in Italia, quattro scritti di Céline.
Il primo è la "Prefazione inedita alla tesi del dott. Destouches" pubblicato da Les Cahiers de l'Herne nel n. 5 del 1965.
Il secondo è l' "Omaggio a Zola", il famoso discorso pronunciato da Céline, il primo ottobre del 1933 in occasione dell'annuale anniversario della morte dell' autore di Teresa Raquin e Germinale. In una lettera all'amica scrittrice belga Evelyne Pollet, Cèline scrive «Devo parlare di Zola il primo ottobre [ ... ]. Per fare piacere a Descaves e ai suoi amici. Santo cielo, Zola non mi piace per niente - allora parlerò di me stesso, ma neanche questo mi piace tanto. Tutto ciò è molto seccante».
Il terzo è "L'argot è nato dall'odio. Non esiste più" pubblicato su Arts del 6 febbraio 1957 e sul n. 5 del 1965 dei Cahiers de l'Herne
Il quarto, che troverete trascritto al termine, "Rabelais ha fatto fiasco", prefazione in forma d'intervista apparsa su Gargantua et Pantagruel (1959), per Le Meilleur Livre du Moi e ripubblicato dai Cahiers de l'Herne n. 5.
Seguiranno, nei circa dieci anni successivi, quattro saggi monografici interamente consacrati a Céline:
Paolo Carile, Louis-Ferdinand Céline, un allucinato di genio, Bologna, Patròn, 1969
Michele Rago, Céline, Firenze, La Nuova Italia, 1973
Paolo Carile, Céline oggi, Roma, Bulzoni, 1974
Renato Della Torre, Invito alla lettura di Céline, Milano, Mursia, 1979
In conclusione va citato lo speciale che il primo canale della RAI trasmise nell'autunno del 1970, a cura di Ugo Leonzio all' interno della rubrica culturale «L' Approdo», dal titolo Céline, viaggio al centro del delirio.
RABELAIS HA FATTO FIASCO
Volete che vi parli di Rabelais? e va bene, ho frugato proprio stamattina nell'Enciclopedia, così adesso so tutto; perché c'è proprio tutto, nella Grande Enciclopedia. Si fanno delle belle carriere, col suo aiuto. Io dunque ho cercato alla voce "Rabelais".
Vedete, con Rabelais, si parla sempre di quello che non importa. Si dice, si ripete ovunque: "E' il padre della letteratura francese." E poi vengono l'entusiasmo, gli elogi, è una storia che si ripete da Victor Hugo a Balzac, a Malherbe. Il padre delle lettere francesi, un momento! non è mica così semplice. In realtà Rabelais ha fatto fiasco, sí, ha fatto fiasco, non è riuscito.
Quel che voleva fare lui, era un linguaggio per tutti, un linguaggio vero. Voleva democratizzare la lingua, una bella battaglia. Era contro la Sorbona, lui, e contro i dottori, e tutto il resto. Contro tutto quel che era ammesso e stabilito, il re, la Chiesa, lo stile.
No, non l'ha vinta lui, ma Amyot, il traduttore di Plutarco, che ha avuto, nei secoli seguenti, molto più successo di Rabelais. E ancora oggi viviamo su di lui e sulla sua lingua. Rabelais aveva voluto trasportare la lingua parlata in quella scritta: un fallimento. Quanto a Amyot, alla gente gli va sempre bene, Amyot e lo stile accademico. Questo si chiama scrivere della m...: un linguaggio imbalsamato. Le colonne di un grande quotidiano del mattino, che si vanta di avere dei redattori che sanno scrivere, ne sono piene. E questo porta a una cloaca dal tono ben scorrevole, con frasi ben costruite, e alla fine dell'articolo una piccola astuzia innocente. Non pericolosa, non troppo forte, per non spaventare il pubblico. Ecco il fallimento di Rabelais, ecco l'eredità di Amyot: della vera m..., ripeto.
Rabelais ha veramente voluto una lingua ricca e straordinaria. Ma tutti gli altri l'hanno castrata, questa lingua, fino a renderla completamente piatta. Così, oggi, scrivere bene vuol dire scrivere come Amyot, ma questa roba non sarà mai altro che una "lingua di traduzione."
Una nostra contemporanea quasi celebre ha detto una volta leggendo un libro: "Ah! Come si legge bene, sembra una traduzione!" Ecco a che punto siamo arrivati.
La smania moderna del francese è questa: fare e leggere delle traduzioni, parlare come nelle traduzioni. A me c'è della gente che m'è venuta a chiedere se non avevo preso questo o quel passo dei miei libri da Joyce. Sì, me l'han chiesto! ed è logico, perchè l'inglese è di moda. Io parlo l'inglese perfettamente, come il francese. Andare a prendere qualcosa da Joyce! No, come Rabelais, ho trovato tutto nel francese stesso.
Lanson dice: "Il francese non ha molto spirito artistico." Niente poesia in Francia, tutto è troppo cartesiano. Evidentemente ha ragione: Amyot, eccolo, un pre-cartesiano, ed è così che si è guastato tutto. Ma non era il caso di Rabelais: un vero artista.
Sí, Rabelais ha fallito, e Amyot ha vinto. La posterità d'Amyot son tutti quei romanzetti evirati che escono ai nostri tempi dalle migliori case editrici, migliaia all'anno. Ma io, di romanzi così, ne faccio uno all'ora.
Ora, dato che non si pubblica altro, dove è andata a finire la posterità di Rabelais, la vera letteratura? Scomparsa. Il perché è chiaro: bisognerebbe capire una volta per tutte (basta ipocrisie!) che il francese è una lingua volgare, da sempre, dalla sua nascita al trattato di Verdun. Solo che questa verità, nessuno la vuole accettare, e si continua a disprezzare Rabelais.
"Ah! è rabelaisiano!" si sente dire talvolta. Ciò significa: attenzione, non è fine, quell'espressione, è un pò scorretta. E così il nome di uno dei nostri più grandi scrittori è servito a raffazzonare un aggettivo peggiorativo. Che cosa mostruosa! sí, perchè era un bel tipo, Rabelais, scrittore, medico, giurista... Ha avuto le sue grane, poveretto, anche da vivo; e il suo tempo lo passava a cercar di non essere bruciato...
No, la Francia non può più capire Rabelais: si è troppo impreziosita. Quel che è peggio da pensare, è che poteva essere il contrario, che la lingua di Rabelais poteva diventare il francese.
Ma ormai ci sono soltanto dei servi che hanno lo stesso odore del padrone e si sforzano di parlare come lui. Viva l'inglese e lo stupido contegno!
Rabelais, direte voi, sa un pò troppo di partito preso: certo, vorrei vedere, uno come lui braccato dalla persecuzione cattolica, partito lancia in resta contro i potenti. Sí, quel che faceva sapeva un pò di eresia.
Questo è l'essenziale di quel che volevo dirvi. Il resto (fantasia, capacità creativa, comicità. ecc.) non mi interessa. La lingua, solo la lingua. Ecco quel che conta. Tutto ciò che si può aggiungere si trascina un pò dappertutto, nei manuali di letteratura, nell'Enciclopedia. E se ne volete di più, andatelo a chiedere a tutti quei gran scrittori che, loro sí, han "delle idee su Rabelais." Ah, quanti ne conosco che si prenderebbero la testa tra le mani e vi direbbero seriamente: "Rabelais, che prodigioso inventore di parole!" Sono soltanto dei ciarlatani.
Attaccatevi piuttosto a quel che c'è di interssante in Rabelais: la sua intenzione un pò demagogica di attirare il pubblico parlando come lui, io lo capisco, Rabelais, era medico e scrittore, come me. Questo si vede da quel tanto di sboccatura. Era anche un buon anatomista e, cosa prodigiosa per quel tempo, faceva già operazioni. Perbacco, ha inventato perfino uno strumento chirurgico.
In Dio non doveva crederci molto, ma non osava dirlo. D'altra parte non è poi finito male, non l'hanno nemmeno suppliziato... Il supplizio è venuto dopo, quando hanno accademizzato il francese che lui parlava per farne una letteratura da esame di maturità e da diploma di magistrali.
Come dice Robert Poulet, hanno fatto un francese magro, mentre il suo era grasso. Peggio ancora, un francese scheletrico. Nemmeno Balzac è riuscito a resuscitare qualcosa. E' la piena vittoria della ragione.
La ragione! Bisogna esser matti. Non si può far niente a questo modo, così castrati. Mi fanno ridere. Guardate cosa basta a contraddirli: nessuno è mai riuscito a fare "ragionevolmente" un bambino. Niente da fare. Per la creazione ci vuole un attimo di delirio.
Ma no, in letteratura bisogna restare continenti. Ecco allora che oggi si usa mettere una fila di puntini quando succede qualcosa e poi si continua molto tranquillamente: "l'indomani erano entrambi invitati al ricevimento della duchessa." Oh! non raccomando mica l'erotomania, mi disgusta, ma quel che è terribile è un linguaggio così ripulito.
Quel che in effetti c'è di buono in Rabelais, è che lui metteva la sua pelle in gioco e la rischiava. La morte gli stava in agguato, ed è una cosa che ispira, la morte! è addirittura la sola cosa che riesca a ispirare, ne so qualcosa io, quando è là, alle spalle. Quando è in collera.
Non aveva un buon carattere, Rabelais, dicono, ma non è vero. Lavorava, lui, e, come per tutti quelli che lavorano, era una vita da galera: avrebbero voluto averlo in mano, condannarlo. Altre galere, quelle del papa, e sono esistite per davvero. E là i ragazzi dovevano sgobbare, o "bisognava che sgobbassero,"cone direbbe Duhamel. E anche Bardamu, il mio eroe del Voyage, direbbe così. Ah! i congiuntivi imperfetti...
Nella mia vita ho avuto lo stesso vizio di Rabelais. Ho passato anch'io il mio tempo a mettermi in situazioni disperate. Come lui non mi aspetto niente dagli altri, come lui non rimpiango niente.
[Traduzione di Valeria Borsari]
E' solo verso la fine degli anni '60 che la critica italiana inizia a interessarsi seriamente di Céline, imponendosi un approccio scientifico rivolto al superamento della dimensione scandalosa e "politica" che fino ad allora era stato l'oggetto privilegiato degli studi céliniani. Finalmente viene messo al centro dell'indagine e dell'analisi la portata e il valore dell'innovazione stilistica dell'opera del medico-scrittore, i legami e le ascendenze con la tradizione letteraria francese, ma anche i parallelismi e i confronti con le espressioni più originali e avanzate del novecento.
In questo nuovo contesto la rivista letteraria IL VERRI, fondata a metà degli anni '50 da Luciano Anceschi (1911-1995), autorevole critico letterario e docente di estetica all' Università di Bologna, dedica (quasi integralmente) nel febbraio 1968 un numero speciale a Louis-Ferdinand Céline, precisamente il n. 26 . La pubblicazione contiene una raccolta di saggi del linguista e critico letterario austriaco Leo Spitzer, del poeta livornese, primo e unico traduttore in italiano di Mort a credit, Giorgio Caproni, dello scrittore, famoso per il lungo e fortunato sodalizio con Carlo Fruttero, Franco Lucentini, del critico Renato Barilli, della francesista Anna Licari e dello scrittore Gianni Celati.
Vi compaiono inoltre, per la prima volta tradotti in Italia, quattro scritti di Céline.
Il primo è la "Prefazione inedita alla tesi del dott. Destouches" pubblicato da Les Cahiers de l'Herne nel n. 5 del 1965.
Il secondo è l' "Omaggio a Zola", il famoso discorso pronunciato da Céline, il primo ottobre del 1933 in occasione dell'annuale anniversario della morte dell' autore di Teresa Raquin e Germinale. In una lettera all'amica scrittrice belga Evelyne Pollet, Cèline scrive «Devo parlare di Zola il primo ottobre [ ... ]. Per fare piacere a Descaves e ai suoi amici. Santo cielo, Zola non mi piace per niente - allora parlerò di me stesso, ma neanche questo mi piace tanto. Tutto ciò è molto seccante».
Il terzo è "L'argot è nato dall'odio. Non esiste più" pubblicato su Arts del 6 febbraio 1957 e sul n. 5 del 1965 dei Cahiers de l'Herne
Il quarto, che troverete trascritto al termine, "Rabelais ha fatto fiasco", prefazione in forma d'intervista apparsa su Gargantua et Pantagruel (1959), per Le Meilleur Livre du Moi e ripubblicato dai Cahiers de l'Herne n. 5.
Seguiranno, nei circa dieci anni successivi, quattro saggi monografici interamente consacrati a Céline:
Paolo Carile, Louis-Ferdinand Céline, un allucinato di genio, Bologna, Patròn, 1969
Michele Rago, Céline, Firenze, La Nuova Italia, 1973
Paolo Carile, Céline oggi, Roma, Bulzoni, 1974
Renato Della Torre, Invito alla lettura di Céline, Milano, Mursia, 1979
In conclusione va citato lo speciale che il primo canale della RAI trasmise nell'autunno del 1970, a cura di Ugo Leonzio all' interno della rubrica culturale «L' Approdo», dal titolo Céline, viaggio al centro del delirio.
RABELAIS HA FATTO FIASCO
Volete che vi parli di Rabelais? e va bene, ho frugato proprio stamattina nell'Enciclopedia, così adesso so tutto; perché c'è proprio tutto, nella Grande Enciclopedia. Si fanno delle belle carriere, col suo aiuto. Io dunque ho cercato alla voce "Rabelais".
Vedete, con Rabelais, si parla sempre di quello che non importa. Si dice, si ripete ovunque: "E' il padre della letteratura francese." E poi vengono l'entusiasmo, gli elogi, è una storia che si ripete da Victor Hugo a Balzac, a Malherbe. Il padre delle lettere francesi, un momento! non è mica così semplice. In realtà Rabelais ha fatto fiasco, sí, ha fatto fiasco, non è riuscito.
Quel che voleva fare lui, era un linguaggio per tutti, un linguaggio vero. Voleva democratizzare la lingua, una bella battaglia. Era contro la Sorbona, lui, e contro i dottori, e tutto il resto. Contro tutto quel che era ammesso e stabilito, il re, la Chiesa, lo stile.
No, non l'ha vinta lui, ma Amyot, il traduttore di Plutarco, che ha avuto, nei secoli seguenti, molto più successo di Rabelais. E ancora oggi viviamo su di lui e sulla sua lingua. Rabelais aveva voluto trasportare la lingua parlata in quella scritta: un fallimento. Quanto a Amyot, alla gente gli va sempre bene, Amyot e lo stile accademico. Questo si chiama scrivere della m...: un linguaggio imbalsamato. Le colonne di un grande quotidiano del mattino, che si vanta di avere dei redattori che sanno scrivere, ne sono piene. E questo porta a una cloaca dal tono ben scorrevole, con frasi ben costruite, e alla fine dell'articolo una piccola astuzia innocente. Non pericolosa, non troppo forte, per non spaventare il pubblico. Ecco il fallimento di Rabelais, ecco l'eredità di Amyot: della vera m..., ripeto.
Rabelais ha veramente voluto una lingua ricca e straordinaria. Ma tutti gli altri l'hanno castrata, questa lingua, fino a renderla completamente piatta. Così, oggi, scrivere bene vuol dire scrivere come Amyot, ma questa roba non sarà mai altro che una "lingua di traduzione."
Una nostra contemporanea quasi celebre ha detto una volta leggendo un libro: "Ah! Come si legge bene, sembra una traduzione!" Ecco a che punto siamo arrivati.
La smania moderna del francese è questa: fare e leggere delle traduzioni, parlare come nelle traduzioni. A me c'è della gente che m'è venuta a chiedere se non avevo preso questo o quel passo dei miei libri da Joyce. Sì, me l'han chiesto! ed è logico, perchè l'inglese è di moda. Io parlo l'inglese perfettamente, come il francese. Andare a prendere qualcosa da Joyce! No, come Rabelais, ho trovato tutto nel francese stesso.
Lanson dice: "Il francese non ha molto spirito artistico." Niente poesia in Francia, tutto è troppo cartesiano. Evidentemente ha ragione: Amyot, eccolo, un pre-cartesiano, ed è così che si è guastato tutto. Ma non era il caso di Rabelais: un vero artista.
Sí, Rabelais ha fallito, e Amyot ha vinto. La posterità d'Amyot son tutti quei romanzetti evirati che escono ai nostri tempi dalle migliori case editrici, migliaia all'anno. Ma io, di romanzi così, ne faccio uno all'ora.
Ora, dato che non si pubblica altro, dove è andata a finire la posterità di Rabelais, la vera letteratura? Scomparsa. Il perché è chiaro: bisognerebbe capire una volta per tutte (basta ipocrisie!) che il francese è una lingua volgare, da sempre, dalla sua nascita al trattato di Verdun. Solo che questa verità, nessuno la vuole accettare, e si continua a disprezzare Rabelais.
"Ah! è rabelaisiano!" si sente dire talvolta. Ciò significa: attenzione, non è fine, quell'espressione, è un pò scorretta. E così il nome di uno dei nostri più grandi scrittori è servito a raffazzonare un aggettivo peggiorativo. Che cosa mostruosa! sí, perchè era un bel tipo, Rabelais, scrittore, medico, giurista... Ha avuto le sue grane, poveretto, anche da vivo; e il suo tempo lo passava a cercar di non essere bruciato...
No, la Francia non può più capire Rabelais: si è troppo impreziosita. Quel che è peggio da pensare, è che poteva essere il contrario, che la lingua di Rabelais poteva diventare il francese.
Ma ormai ci sono soltanto dei servi che hanno lo stesso odore del padrone e si sforzano di parlare come lui. Viva l'inglese e lo stupido contegno!
Rabelais, direte voi, sa un pò troppo di partito preso: certo, vorrei vedere, uno come lui braccato dalla persecuzione cattolica, partito lancia in resta contro i potenti. Sí, quel che faceva sapeva un pò di eresia.
Questo è l'essenziale di quel che volevo dirvi. Il resto (fantasia, capacità creativa, comicità. ecc.) non mi interessa. La lingua, solo la lingua. Ecco quel che conta. Tutto ciò che si può aggiungere si trascina un pò dappertutto, nei manuali di letteratura, nell'Enciclopedia. E se ne volete di più, andatelo a chiedere a tutti quei gran scrittori che, loro sí, han "delle idee su Rabelais." Ah, quanti ne conosco che si prenderebbero la testa tra le mani e vi direbbero seriamente: "Rabelais, che prodigioso inventore di parole!" Sono soltanto dei ciarlatani.
Attaccatevi piuttosto a quel che c'è di interssante in Rabelais: la sua intenzione un pò demagogica di attirare il pubblico parlando come lui, io lo capisco, Rabelais, era medico e scrittore, come me. Questo si vede da quel tanto di sboccatura. Era anche un buon anatomista e, cosa prodigiosa per quel tempo, faceva già operazioni. Perbacco, ha inventato perfino uno strumento chirurgico.
In Dio non doveva crederci molto, ma non osava dirlo. D'altra parte non è poi finito male, non l'hanno nemmeno suppliziato... Il supplizio è venuto dopo, quando hanno accademizzato il francese che lui parlava per farne una letteratura da esame di maturità e da diploma di magistrali.
Come dice Robert Poulet, hanno fatto un francese magro, mentre il suo era grasso. Peggio ancora, un francese scheletrico. Nemmeno Balzac è riuscito a resuscitare qualcosa. E' la piena vittoria della ragione.
La ragione! Bisogna esser matti. Non si può far niente a questo modo, così castrati. Mi fanno ridere. Guardate cosa basta a contraddirli: nessuno è mai riuscito a fare "ragionevolmente" un bambino. Niente da fare. Per la creazione ci vuole un attimo di delirio.
Ma no, in letteratura bisogna restare continenti. Ecco allora che oggi si usa mettere una fila di puntini quando succede qualcosa e poi si continua molto tranquillamente: "l'indomani erano entrambi invitati al ricevimento della duchessa." Oh! non raccomando mica l'erotomania, mi disgusta, ma quel che è terribile è un linguaggio così ripulito.
Quel che in effetti c'è di buono in Rabelais, è che lui metteva la sua pelle in gioco e la rischiava. La morte gli stava in agguato, ed è una cosa che ispira, la morte! è addirittura la sola cosa che riesca a ispirare, ne so qualcosa io, quando è là, alle spalle. Quando è in collera.
Non aveva un buon carattere, Rabelais, dicono, ma non è vero. Lavorava, lui, e, come per tutti quelli che lavorano, era una vita da galera: avrebbero voluto averlo in mano, condannarlo. Altre galere, quelle del papa, e sono esistite per davvero. E là i ragazzi dovevano sgobbare, o "bisognava che sgobbassero,"cone direbbe Duhamel. E anche Bardamu, il mio eroe del Voyage, direbbe così. Ah! i congiuntivi imperfetti...
Nella mia vita ho avuto lo stesso vizio di Rabelais. Ho passato anch'io il mio tempo a mettermi in situazioni disperate. Come lui non mi aspetto niente dagli altri, come lui non rimpiango niente.
[Traduzione di Valeria Borsari]
2 commenti:
Sarò di parte, ma Gilberto ha fatto una scheda veramente bella! ;-)
Andrea
io non lo sono ma Gilberto non sbaglia un colpo
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