lunedì 4 febbraio 2008

Da un Céline all'altro



Da un Céline all’altro

di Lucien Rebatet

Quando un mattino dei primi di novembre 1944 il mormorio si sparse per Sigmaringen: “Céline sta arrivando”, era dal suo Kränzlin che il povero diavolo giungeva direttamente. Memorabile ricomparsa in scena. Con negli occhi ancora le immagini del viaggio compiuto attraverso la Germania bombardata a tappeto, egli portava un berretto di tela bluastra, come i fuochisti delle locomotive verso il 1905, due o tre canadesi sovrapposte, sporche e piene di buchi, un paio di guanti tarmati appesi al collo e, al di sotto di questi, all’altezza dello stomaco, in un tascapane, il gatto Bébert, che mostrava il suo musetto flemmatico di puro parigino che ne ha viste ben di peggio. Bisognava vedere, all’apparizione di un simile girovago, le espressioni dei militanti di base, dei piccoli miliziani: “É questo il grande scrittore fascista, il geniale profeta?”. Io stesso rimasi ammutolito. Louis-Ferdinand, alternato a Le Vigan, descriveva per interiezioni la diffidenza di Kränzlin, un paesino sinistro di crucchi intontiti che detestavano i franciosi, la carestia m mezzo ad un branco di oche e di anatre. Insomma, Hauboldt era venuto a tirarlo gentilmente fuori da quel buco e Céline, apprendendo dell’esistenza a Sigmaringen di una colonia francese, non voleva più soffermarsi altrove. Passata la prima sorpresa, gli facemmo festa. Lo credevo ormai finito per la letteratura. Qualche mese prima, nel suo Guignol’s Band non avevo visto che un’epilettica caricatura del suo stile (l’ho riletto questa primavera e l’ho trovato un capolavoro inenarrabile, Céline è sempre stato dieci, quindici anni avanti a noi). Aveva comunque un passato di grande artista e rimaneva un prodigioso veggente. Durante quattro mesi ci siamo visti ogni giorno, da soli o in compagnia di La Vigue e di Lucette, dotata di uno splendido equilibrio in quello sfacelo e nella scia di un forsennato del genere. Céline al di là della sua preveggenza circa pericoli e cataclismi effettivi, fu costantemente tormentato dal demonio della persecuzione, che gli ispirava incredibili espedienti e scappatoie per sventare le manovre di una moltitudine di nemici immaginari. In continuazione stava a meditare su indizi percettibili a lui solo, per giungere a soluzioni a volte aberranti e sagaci. Intorno a lui la vita si esaltava subito di quella sussultante stramberia che costituisce il ritmo medesimo dei suoi maggiori libri. Ciò avrebbe potuto rendersi presto insopportabile. Se non che la gaiezza del vecchio funambolo travolgeva tutto. Il “Governo” francese lo aveva nominato medico della Colonia, dove prestò la sua opera, non desiderando d’altronde altri titoli. Abel Bonnard, la cui madre novantenne stava morendo in una camera della città, non ha mai dimenticato la dolcezza con la quale egli ne assistette la lunga agonia. Nello stesso modo poteva essere un eccellente medico per i bambini. Durante gli ultimi tempi, nella sua camera all’hotel Löwen, trasformata in un asfittico tugurio (e pensare che era stato specialista in igiene) curava una serie di malattie caratteristicamente céliniane, un’epidemia di scabbia, un’altra di scolo miliziano, di cui tracciava sbalorditivi resoconti. Lo rianimavano peraltro l’uditorio francese, il nostro affetto, restituendogli tutto il suo brio. Sebbene si nutrisse di poco, il vettovagliamento lo ossessionava; collezionava prosciutti, salsicce, petti d’oca affumicati tramite il mercato nero. E per distogliere i sospetti su queste tesaurizzazioni, uno dei suoi ingenui artifici era quello di venire ogni tanto nelle nostre locande, all’Altem Fritz, al Baren per condividerne le razioni ufficiali, la Stammgericht, infame brodaglia di cavoli rossi e rutabaga, come se non avesse avuto altre risorse. E mentre lui mandava giù la sbobba, Bébert il “cancelliere” si sporgeva a metà del tascapane, sfiorava un istante il piatto con le sue diffidenti narici e riguadagnava infine la sua tana con dignità offesa. Occhio Bébert!”, diceva Ferdinand. “Si lascerebbe crepare, piuttosto che toccare questa porcheria... Probabilmente è più delicato, più aristocratico di noi, rozzi sacchi di merda! Che ci rimpinziamo e ci rimpinzeremo delle porcherie più disgustose. Per forza!” Poi, soddisfatto delle sue manovre, delle nostre risate, si catapultava in un inaudito monologo: la morte, la guerra, le armi, i popoli, i continenti, i tiranni, i negri, i Gialli, gli intestini, la vagina, il cervello, i Catari, Plinio il Vecchio, Gesù Cristo. L’ambiente da tragedia pressava il suo genio come il torchio di una vendemmia. Il vino céliniano zampillava ovunque. Noi stavamo alla sorgente della sua arte. E per raccogliere il prodigio neanche un magnetofono in quella Germania della malora! (Adesso da Grunding ne escono cinquantamila al mese, per registrare le ordinazioni dei pescecani sommersi nel sevo del “miracolo” tedesco). Nella vasta biblioteca del castello degli Hohenzollern, Céline aveva scelto una vecchia collezione della “Revue des Deux Mondes”, 1875-1880. Non la finiva più riguardo la qualità degli studi che vi trovava: “Questo é un lavoro serio... analitico, profondo istruttivo... Di buono stile, alla mano... Niente bla-bla”. É l’unica lettura sulla quale si sia mai trattenuto con me. Era estremamente preoccupato di dissimulare i suoi “maestri”, la sua “formazione”. Come se la sua originalità non ne fosse da sola una magnifica prova. Di tanto in tanto, quando passeggiavamo insieme senza testimoni, gli ritornava la stizza per la sua carriera bruciata, ma senza patetismi, in tono sgarbato: “Ti rendi conto? Da come ero partito... Se non mi fossi infervorato a voler proferire delle verità... La grana che mi sarei fatto... Il grande scrittore mondiale della “sinistrorsa”... Il cantore dell’umana sofferenza. Dell’assurda coglioneria... Senza aver nulla da imbellettare. Tutto nello sbellicamenlo, Bardamu, Guignol, Rigodon... Premio Nobel... Le misere palate di merda animale che sarebbero, Aragon, Malraux, Hemingway, dopo Céline... vincitore in partenza... Ah! dimmi dunque, dove non sarei mai arrivato... “Ma-aestro”... II Nobel... Miliardario... II Grande Scarac-chio... Dottore honoris causa... Vedi dunque!” Chiaramente non era proprio il caso di pensar d’impiegare Céline in una qualsiasi propaganda, hitleriana o francese. Io stesso, affatto indifferente ai rimpasti “ministeriali”, trascorsi l’inverno a consultare i libri d’arte del Castello e ad ampliare il manoscritto del mio romanzo Les Deux Etendards. Dovemmo questo privilegio in gran parte al nostro comune amico il caro Karl Epting, che aveva diretto l’Istituto tedesco di Parigi, autentico letterato europeo, rimasto inalterabilmente francofilo anche dopo i due anni di Cherche-Midi, di cui ha fatto le spese. Oltre a questa preziosa amicizia, Céline aveva acquisito la benevolenza di tutti gli ufficiali tedeschi; e bisognava che fosse molta affinché questi potessero chiudere le orecchie ai suoi sarcasmi. In quanto Louis-Ferdinand era senz’altro il più intollerante, il più sboccato tra gli ospiti forzati del Reich. Per tutto dire, non perdonava a Hitler il tracollo che lo cacciava a sua volta il simili pasticci. Era questo l’unico argomento in cui perdeva la sua beffarda filosofia, si faceva astioso, cattivo. Per reazione, per contraddizione, l’antimilitarista sanguinante del Vovage ricomponeva il suo passato, un’anima da patriota alla Dérouléde. Ah! se continuerò a sentirlo il ritornello delle sue gesta militari nelle Fiandre, “Maresciallo d’alloggio Destouches, volontario per un’operazione di collegamento attuata sotto un fuoco d’estrema violenza” e del disegno che l’aveva immortalato sulla prima pagina de “L’Illustré National”. “A colori... Sul mio morello... Al galoppo, la sciabola al vento... Dodicesimo corazzieri... Prima medaglia al valore militare sul campo della cavalleria francese... Sono io e non sono cambiato. Presente!... chi é che mi ha spedito la pallottola nell’orecchio? Non gli inglesi, né i russi, né i merigani... Non li ho mai potuti nasare, io, i crucchi. Di vedermeli ciondolare dappertutto come qui, gli sporchi Feldgrau sinistri, ne ho piene le narici, io, piene le scatole!” – “Non dimenticare però Louis che qui sono a casa loro!” – “Non me lo dimentico, non me lo dimentico. eh! Ohibó! É ben questa la ragione... Giustamente... Artigliarli, sul posto! Un’occasione di cui approfittare, non si ripresenterà... Dentro. I Fritz, tutti, i civili come i marmittoni. Al Lag, dietro i reticolati, tripla recinzione elettrica... Tutti senza distinzione. Ecco come la vedo, io, la loro Crucchia”. Schiumava, da tanto era furioso. A tal punto subdorava tranelli dietro gli inviti più cordiali, che deviava di un chilometro per evitare un’auto-mobile la cui targa gli sembrasse “non franca”; si rilassava invece davanti alle targhe tedesche con una voluttà che superava ogni prudenza. Per aiutarci Karl Epting aveva progettato d’istituire una Associazione degli Intellettuali francesi in Germania. Presso il Comune di Sigmaringen si era riunito un comitato. Céline vi era stato invitato al posto d’onore. Tempo mezz’ora lui l’aveva trasformata in una babilonia da cui niente era possibile cavare. Tuttavia la sera ebbe luogo una cena composta da un piatto unico a base di pesce e da una sfilza di bottiglie di vino rosso. Ghiotte di appetitoso spirito parigino, numerose autorità militari ed amministrative del Gau si erano fatte invitare. C’era addirittura un generale con tanto di croce di guerra al collo. Céline, che non beveva un goccio di vino, intavolò un accanito parallelo tra la sorte delle “spie”, che avevano trovato il modo di farsi sconfiggere, per rientrare però subito nei loro ranghi di bravi soldati e bravi cittadini, con la coscienza pulita, non dovendo rendere conto a nessuno ed avendo assolto il loro dovere di patrioti; e quella dei “collaborazionisti” francesi che avevano tutto da perdere, beni, onori e vita, in una simile impresa da fessi. Quindi Céline non vedeva più cosa gli potesse impedire di proclamare che la divisa tedesca l’aveva sempre avuta in antipatia e che altrettanto non era stato abbastanza ponderante per immaginarsi che sotto un’egida del genere la collaborazione non poteva essere che un terribile maleficio. Gli altri gradi militari presenti avevano però deciso di trovare la battuta eccellente, rallegrandosene assai, e quando Ferdinand andò a dormire, venne rimpianto. I tedeschi consentivano tutto a Céline, non certo per i suoi libelli, che conoscevano poco, ma perché per loro era il grande scrittore del Voyage, la cui traduzione era stata uno strepitoso successo. Lo stesso famoso colonnello Bömelburg, terribile bulldog del S.D. e capo della polizia di Sigmaringen, si era lasciato ammansire dell’energumeno. Bisognava bene che Céline fosse daltronde trattato come ospite eccezionale, per essere riuscito ad ottenere il fenomenale Ausweis militare, diplomatico, culturale ed ultra segreto, lungo un metro e mezzo, che gli permetteva, favore unico, di varcare le frontiere dell’Hitleria assediata. Egli non aveva fatto mistero in merito ai suoi progetti danesi; dato che per la Germania tutto era andato in fumo, desiderava raggiungere a tutti i costi Copenaghen, dove sin dall’inizio della guerra aveva affidato ad un fotografo di Corte il suo capitale di diritti d’autore convertito in oro; che questi aveva sotterrato sotto un albero del suo giardino. L’esistenza, il recupero o la perdita di questo rocambolesco tesoro non hanno mai avuto modo di essere verificate in seguito. Dunque verso la fine di febbraio o gli inizi di marzo si apprese che proprio Céline aveva ricevuto il mitico Ausweis per la Danimarca. Due o tre giomi dopo per la prima volta egli offrì un giro di birra, che lasciò peraltro da pagare al suo collega, il dottor Jacquot. Durante la notte ci ritrovammo sul marciapiede della stazione. C’erano Véronique, Abel Bonnard, Paul Marion, Jacquot, La Vigue, riconciliatosi con Ferdinand dopo la dodicesima discordia dell’inverno, e due o tre altri intimi. La coppia Destouches − Lucette sempre impeccabile, serena, accomodante − portava a braccia duecento chili circa di bagagli, senza dubbio le rimanenze dei famosi bauli, cuciti dentro due sacchi da marinaio ed appesi a delle pertiche, un vero e proprio equipaggiamento da savana, da Bambola-Bamagance. Un drittone, approssimativo infermiere, li accompagnò fino alla frontiera per aiutarli nel trasbordo, che si preannunziava come una faticosa epopea, attraverso quella Germania sbriciolata ed incendiata. Céline, con Bébert sull’ombelico, era visibilmente raggiante. Finite le “bombarde” e la rassegnata attesa del fantaccino in fondo alla trappola. Il nostro ricordo non lo angustierà. Il treno, uno di quei miserabili treni dell’agonia tedesca, giunse al binario con la sua locomotiva a carbone. Ci si abbracciò a lungo e si issò faticosamente l’equipaggiamento. Ferdinand dispiegava ed agitava un’ultima volta il suo incredibile passaporto. Il convoglio si mosse, come una ferrovia di Dubout. Noi altri restammo nell’infernale caldaia, con il cuore stretto. Ma senza gelosia alcuna. Se dovessimo proprio restarci, che almeno il migliore, il più grande di tutti noi se la scampi.

Traduzione di Moreno Marchi +

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