BARDAMU ED IL
RICCETTO
Perché
la ricompensa della vita è la morte...
LOUIS-FERDINAND
CÉLINE
A beneficio di quei
lettori che trovassero criptico, quando non incongruente, il titolo
che introduce le seguenti riflessioni, sembra opportuno e doveroso un
chiarimento da parte dell'autore. In queste pagine si è voluto
immaginare un possibile incontro tra il Riccetto, protagonista del
romanzo Ragazzi di vita (1955), ed il più celebre,
quanto lontano ed inatteso, Bardamu del Voyage au bout de la nuit
(1932): audace accostamento tra i loro creatori, ovvero Pier
Paolo Pasolini e Louis-Ferdinand Destouches – per la storia, non
solo letteraria, Céline.
Esplicitate le
fonti della suggestione, nel prosieguo della trattazione si
contempleranno alcuni frammenti di due esistenze che, per quanto
distanti l'una dall'altra, appaiono inequivocabilmente affratellate
da una simile libertà intellettuale, nonché dai suoi contrappassi
più mortificanti: l'incomprensione, l'emarginazione e la
persecuzione che il consorzio umano spesso riserva a tale libertà.
Lungi, almeno negli
intenti, da una dilettantesca e poco pertinente intromissione
nell'ambito delle letterature comparate, si auspica affiorino,
piuttosto, elementi utili per una riflessione sul nesso eziologico
tra la marginalità riservata ad un artista e la portata
'democraticamente sovversiva' della sua opera: sino al riscatto, in
morte, affidato a quell'universalità che sa trascendere le anguste
miserie inflitte dalla vita.
Entrambi avidi
studiosi delle teorie pionieristiche di Freud e Jung, tanto Céline
quanto Pasolini devono a quei 'padri dell'Io' dei raffinati strumenti
interpretativi, prezioso complemento della loro razionalità e
sensibilità innate. 1
Sembrano testimoniarlo la centralità che ambo gli autori riservarono
all'analisi del contesto famigliare di provenienza, dai cui irrisolti
antagonismi, non solo banalmente edipici, emergerebbero suggestive
quanto illuminanti affinità.
Cogliendo tra le
innumerevoli pagine che gli dedicò, lo scrittore francese ricorderà
così il genitore: “Era un grosso biondo mio padre, furioso per un
nonnulla […] Ruotava gli occhi ferocemente, quando gli montava la
collera.” 2
In una continuità
che non potrebbe lasciare indifferente un attento lettore, da par suo
confesserà il poeta italiano: “Tutta la mia vita è stata
influenzata dalle scenate che mio padre faceva a mia madre. Quelle
scenate hanno fatto nascere in me il desiderio di morire.” 3
Interessante
notare, a corollario di ciò, come il ramo paterno di entrambi gli
autori vantasse nobili origini, ed i rispettivi padri conservassero –
pur negli opprimenti dissesti finanziari di uno status sociale
che potrebbe dirsi di 'minuscola borghesia' – polverosi residui di
anacronistica alterigia aristocratica, che sfociavano sovente in una
violenta frustrazione, forse patologica, per l'inaccettabile amarezza
della realtà quotidiana.
Il fondatore, nel
Cotentin, del Casato dei Destouches – letteralmente 'Delle
stoccate': nomen omen per il futuro scrittore – i quali
potevano fregiarsi di uno stemma risalente al 1300, fu un tal Pierre
des Touches, “Seigneur” di Montmartin-sur-Mer. La Casata si
sarebbe poi divisa, nel XVIII secolo, in un ramo tedesco ed uno
brètone. Fernand, padre dello scrittore, sposerà nel 1883
Marguerite Guillou, figlia di Céline Lesjean in Guillou, che con
indubbia vocazione imprenditoriale da operaia era divenuta
proprietaria di tre negozi ad Asnières ed uno a Parigi (nonché
figura legata da reciproco odio al genero Fernand, almeno quanto
amata dal nipote Louis-Ferdinand). 4
L'infanzia di
quest'ultimo, nato nel 1894, avrà per cornice dominante quel Passage
Choiseul dove la madre gestiva una bottega di merletti ed
antiquariato, mentre il padre, fieramente eruditosi sino al diploma,
era impiegato presso un'agenzia di assicurazioni. La malsana
atmosfera di quelle brulicanti cittadelle commerciali rappresentate
dai Passages, ritornerà vivida alla memoria lucidamente allucinata
del romanziere: “Quanto a me, sono stato allevato al Passage
Choiseul nel gas di duecentocinquanta becchi lucenti. Del gas e degli
schiaffi, ecco quel che era, ai miei tempi, l'educazione. […] Oggi
ci si preoccupa dei complessi dei marmocchi. Tutto da ridere!”. 5
Il distacco da quel
'nido' ben poco pascoliano, su cui viene incentrata gran parte del
secondo romanzo, Morte a credito, si andrà consumando
progressivamente dall'arruolamento di un appena diciottenne Ferdinand
(evento magistralmente sublimato nel testo incompiuto Casse-pipe),
sino all'ultima visione materna nel 1942, alla vigilia della fuga da
Parigi: “La vedo ancora lasciarci come un povero cane abbandonato
all'angolo dell'avenue Junot. Ma cosa potevo fare allora?”. Un
interrogativo che avrebbe tormentato sino all'ultimo il dottor
Destouches. 6
Paterno sangue
aristocratico spettò in eredità anche a Pier Paolo Pasolini. Il
nonno del poeta, Argobasto Pasolini Dall'Onda, aveva lasciato
prematuramente orfano suo padre Carlo Alberto. Questi, dopo aver
dissipato nel gioco e nel vizio i beni di famiglia, era partito come
entusiasta volontario per la colonizzazione italiana della Libia, nel
1915: promosso sottotenente per meriti sul campo, avrebbe sposato con
'nozze riparatrici' Susanna Colussi, maestra di famiglia contadina
originaria di Casarsa della Delizia, in Friuli. Dalla sua nascita,
nel 1922, sino allo scoppio della guerra, la vita dello scrittore fu
caratterizzata dai continui spostamenti legati alla carriera militare
paterna, e da una condizione di relativa agiatezza economica,
sufficiente a consentirgli di dedicarsi con profitto agli studi
liceali classici onde poi conseguire, nell'immediato dopoguerra, la
laurea in lettere presso l'Università di Bologna. Ma la più cupa
povertà affliggerà in seguito il nucleo famigliare, che inizierà a
risollevarsi con l'affermazione del poeta nella prima metà degli
anni '50, grazie al successo del romanzo Ragazzi di vita e
soprattutto alla intensa attività di sceneggiatore svolta in quei
primi ed ardui anni romani.
Dunque un padre
estraneo e nemico, quel Carlo Alberto Pasolini, prima in quanto
rivale già sconfitto nell'amore materno (“mio padre era innamorato
pazzo di mia madre ma in un modo sbagliato, passionale, possessivo”)
e poi, dopo la vicenda giudiziaria per i fatti di Ramuscello, in
quanto espressione privata, domestica, di quella pubblica
riprovazione riservata all'omosessualità clandestina del giovane
Pier Paolo (“un altro al mio posto si ammazzerebbe;
disgraziatamente devo vivere per mia madre”). Sino alla morte,
giunta come epilogo di una senilità ormai lungamente segnata dalla
depressione e dall'alcoolismo (“'Non lo vedi che sto per morire'
pareva mi dicesse. Ed io continuavo a essere duro ed evasivo con lui,
sempre rimproverandogli le terribili sofferenze che aveva dato a mia
madre e a me” – ammetterà lo scrittore tra tardivi rimorsi di
figlio che, per altro verso, non risparmiarono neanche Céline). 7
Ma se il piccolo
Pier Paolo trovò nella venerata madre Susanna, nonché nel caro
fratello minore, Guido, scomparso durante la Resistenza, un
riferimento ed un conforto affettivo che dovettero compensare, almeno
in parte, i traumi provenienti dal dispotismo paterno, l'infanzia del
figlio unico Ferdinand ci appare come un'interminabile permanenza da
ospite sgradito; dove l'indigenza alimentava le marcescenti ambizioni
del padre e la pavida inettitudine della madre, responsabili del
costante stato di accusa che il bambino dovette percepire: tra
ricatti affettivi, schiaccianti aspettative e vani avviamenti ad una
carriera da commerciante, sino all'arruolamento ed all'invalidità
rimediata insieme con le decorazioni militari. L'anelata laurea in
medicina sarebbe giunta solo diversi anni dopo, anche grazie alla
temporanea agiatezza conseguente al matrimonio con la figlia di un
influente medico, il noto professor Follet, direttore dell'Ecole de
Médecine di Rennes.
Tali nette
variazioni su un tema comune di traumi precoci e definitivi, dota i
due artisti di approcci solo apparentemente antitetici, cui è
sotteso, a ben guardare, un non dissimile inappagamento filiale.
Così avremo in Pasolini una idealizzazione materna che tra
sublimazioni stilnovistiche trova un rifugio dalle derive incestuose
(tanto in versi: “Sei insostituibile. Per questo è dannata / alla
solitudine la vita che mi hai data”; quanto in prosa: “Lei crede
veramente nell'eroismo, nella carità, nella pietà, nella
generosità. E io ho assorbito tutto questo in maniera quasi
patologica.”). Mentre in Céline la catarsi da una soffocante
anaffettività sembra affidata al più beffardo e virile distacco
cinico: “Era come un vecchio trabiccolo, il pianoforte della
sventura che non suona più che note atroci...” dirà della madre,
ironizzando ferocemente sul carattere e, insieme, sulla penosa
zoppìa.
Entrambi saranno
comunque gravati dall'opprimente fragilità di figure materne mai
davvero capaci di protezione dalla minaccia dell'altro genitore, il
cui sordo rancore si sarebbe puntualmente stemperato in disprezzo ed
indifferenza – tipica evoluzione delle assillanti aspettative
riposte su una prole la quale, avvertendone l'invasiva estraneità,
non potrebbe che disattenderle. Entrambi subiranno madri la cui
impotenza non potrà dirsi innocente quanto quella dei loro figli, la
cui ipersensibile precocità critica vanificherà finanche il
conforto dell'illusione.
Così il poeta
italiano in Orgia: “Un padre che apriva bocca per emettere
schifosi suoni di comando, reso torvo come un vecchio soldato dal
vino e dalla mezza povertà […]. Una madre, incosciente e lontana
come un uccellino, che apriva bocca per difendersi o piangere o
protestare inopportunamente”.
A fargli eco,
l'autore di Mort à crédit: “Mia madre si guarda anche dal
raccontar come lui se la trascinasse dietro, Auguste, per i capelli,
nel retrobottega. Dice soltanto che vivevamo alle strette ma che ci
volevamo un bene immenso.”
Concludendo questo
excursus dalle innocenti velleità psicoanalitiche, si
potrebbe ipotizzare che la 'diseducazione sentimentale' di
quelle famiglie abbia fortemente sospinto i figli a legare la propria
opera ed esistenza alle sorti dell'umanità più indifesa, quegli
oppressi dimenticati, o evocati solo dalla retorica di una borghesia
che, in Pasolini come in Céline, fu crudele matrigna non meno che in
Leopardi.
Scrive la biografa
céliniana Alberghini: “Vivendo con dei commercianti il piccolo
Louis impara presto anche a conoscere coloro dai quali dipende il
benessere della famiglia e che Marguerite [la madre] considera un po'
come Dèi dispensatori di favori: i Ricchi. Il suo odio per il potere
della ricchezza e della grande finanza nascerà dall'umiliazione di
quegli anni”.
Specularmente, nel
suo Pasolini Requiem, Schwartz: “Il ragazzo che non poteva
permettersi di andare dal barbiere perché non aveva le cento lire
necessarie, che vedeva il padre mantenuto poiché con l'inflazione la
sua pensione andava svanendo e Susanna prezzolata per prendersi cura
dei bambini di altre famiglie, non avrebbe mai dimenticato né
perdonato”.
Due figli, tout
court unici, di una borghesia 'piccola piccola' (irrinunciabile,
qui, il richiamo al capolavoro di Monicelli) che, come naviganti
danteschi, “per seguir virtute e canoscenza” prestarono ascolto a
quel “canto popolare”, già morente nell'orizzonte della
Dopostoria borghese, levatosi da coloro “che non mi sono fraterni,
eppure sono / fratelli proprio nell'avere / passioni di uomini / che
allegri, inconsci, interi / vivono di esperienze / ignote a me”. 8
L'uno tenterà di
riscattarli mediante l'economia politica marxista, l'altro mediante
una scienza medica devotamente fedele al giuramento di Ippocrate; ben
consci, inoltre, che celebrare quel popolo in letteratura avrebbe
imposto di risciacquare i propri panni nel dialetto di borgata come
nell'argot di banlieue: due universi linguistici
percorsi da un odio tanto povero di coscienza di classe quanto ricco
di vitale creatività. Sebbene Céline, non è superfluo ribadirlo,
si distinguerà per non avere mai ceduto a certa mitizzazione della
povertà e della sofferenza, quali fattori redentori della crudeltà
umana, a suo giudizio innata; né si lascerà mai sedurre
politicamente da quelle “belle bandiere” che ancora oggi tentano
di proporsi quali numi tutelari degli eterni esclusi dalla tavola
imbandita del Capitalismo. Così, respingendo le seduzioni della
sinistra francese e la sua fervida idolatria del modello
rivoluzionario bolscevico, l'autore del Mea culpa replicherà:
“Il guaio in tutto questo è che non esiste il popolo nel senso
preciso in cui l'intendete, non ci sono che degli sfruttatori e degli
sfruttati, ed ogni sfruttato non chiede che di diventare sfruttatore.
Non capisce altro. Il proletariato eroico egualitario non esiste. E'
un sogno vuoto. […] Il proletario è un borghese fallito.” 9
Una borghesia
matrigna dalla quale, tuttavia, i due scrittori mai sapranno recidere
del tutto i legami. Sembrano confortare questa conclusione sia il
rapporto con i vari editori che l'atteggiamento verso i più
prestigiosi premi letterari – per quanto Céline come Pasolini
abbiano sempre perorato la propria causa dichiarando di considerarli
strumenti e non fini. Ma riesce difficile non vedere ambizioni da
dotato studente di ottime letture, dietro l'amaro che dovettero
masticare entrambi, nel caso del Goncourt per il Voyage (“Il
premio Goncourt è fallito. E' un affare tra editori. […] Ma me ne
è rimasta addosso la volgarità, la grossolanità, l'impudenza di
tutto questo affare.”), come dello Strega per Una vita violenta
(“Forse lei, come editore, qualche mossa può farla. E' la
prima volta che le chiedo qualcosa del genere: sono molto confuso e
vergognoso...”).
Quando invece si
troveranno ad esplorare il cuore pulsante del Capitalismo
occidentale, l'ottica del viaggiatore europeo, che ci si attenderebbe
culturalmente compassata, nel francese divergerà sensibilmente
dall'italiano.
Dinanzi alla
verticalità della capitale gotica del Nuovo Mondo, New York,
visitata nel 1925, scriverà Céline: “In Africa avevo certo
conosciuto un tipo di solitudine assai brutale, ma l'isolamento in
quel formicaio americano aveva qualcosa di più angoscioso ancora.
[…]”; nonché, a complemento, sui modelli culturali americani:
“Voi parlate di gaiezza, io non conosco niente di più straziante,
di più sinistro dell'America, questo Paese assolutamente sprovvisto
di vita interiore dove vivono esseri che non suppongono neppure il
punto sensibile organico della nascita delle cose.” 10
Impressioni
distanti non soltanto cronologicamente dai resoconti di Pasolini, che
risalgono alla metà degli anni '60: “Una cosa che mi sorprende
della vostra città è il profondo umanesimo, la facilità che ci può
essere nei rapporti tra persone. Come a Napoli, in un certo senso. Ho
persino la strana sensazione di essere già stato qui.” 11
Tornando ad
indagare le affinità, potremmo parlare di due primi della classe,
per talento ed appassionata applicazione, che a distanza di
trent'anni raccolsero l'uno l'intuizione dell'altro palesando quale
subdola palestra d'obbedienza sociale fosse la scuola dell'obbligo:
equivalente intellettuale del lavoro nei campi ed in fabbrica,
l'istruzione gratuita ed obbligatoria delle masse popolari
concretizza, secondo il dottor Destouches, un chiaro intento di
paternalistica demagogia che risalirebbe già all'Illuminismo.
Aggiunta al suffragio universale, ai quotidiani ed ai grandi partiti
di massa, l'educazione scolastica concorre ad un articolato inganno
di attiva partecipazione democratica, perpetrato ai danni di milioni
di semianalfabeti: sudditi ribattezzati cittadini, cui neppure la
patriottica carneficina di due guerre mondiali avrebbe strappato il
velo dagli occhi.
Disserterà così
Céline: “Grazie all'istruzione che raggela, razionale e
scontata... Gli scolari non faranno che 'pensarla' la vita... e non
la sentiranno mai... La scuola deve divenire magica, o sparire punto
e basta. L'infanzia è magica. L'infanzia diviene amara e cattiva. E'
lei che ci condanna a morte.” 12
O ancora, sui giovani studenti, in Bagatelles pour un
massacre, uno dei principali testi incriminati per il credo
antisemita professatovi: “A parte le torture formaliste, gli
scrupoli retorici, essi [gli scolari] resteranno finemente chiusi,
impermeabilizzati alle onde viventi. I parenti, i maestri, li hanno
destinati fin dal liceo, cioè a dire per sempre, ai simulacri
dell'emozione. Resteranno goffi, insicuri, penetrati, solenni
incrostati di tutte le loro ossa […] convinti, esaltati di
superiorità, tutti cicalanti di latino […]”.
Posizioni che
avrebbe probabilmente condiviso il poeta di Casarsa. Infatti, nelle
lettere indirizzate sul “Corriere della Sera” al suo ideale
discepolo Gennariello, egli descriverà un sistema scolastico da
abolire, in quanto “insieme organizzativo e culturale che ti ha
completamente diseducato, e ti pone qui davanti a me come un povero
idiota, umiliato, anzi degradato, incapace a capire, chiuso in una
morsa di meschinità mentale che, fra l'altro, ti angoscia.”
Le modeste origini
sociali, pur sempre entro quella vasta ed eterogenea classe borghese,
furono altresì all'origine di una ostilità e di un talento polemico
che né Céline né Pasolini avrebbero forse maturato qualora figli
della classe operaia o del proletariato contadino. Ciò non tanto per
la prevedibile penuria di mezzi, che ne avrebbe sacrificato la
compiuta formazione culturale, quanto per l'impossibilità di
osservazione, dall'interno, dei decadenti rimpianti come delle
fragili aspettative famigliari; insieme con le odiose
personificazioni del denaro e del potere, divinità fondatrici di
quel cosmo in cui entrambi si ritrovarono gettati.
Ma se nello
scrittore italiano permane un ingenuo quanto ostinato ideale di
arcaica purezza morale, cristallizzata nell'indigenza (“In nome
degli uomini semplici che la povertà ha mantenuto puri”), nel
francese appare decisamente più precoce una guardinga idiosincrasia
verso quei mali sospettati comuni all'umanità tutta. Anche quando,
lasciate alle spalle le baronìe della Società delle Nazioni, si
prodigherà da medico di chi non poteva permettersi la malattia, egli
dissacrerà senza indugio ogni lirismo pauperistico: “Cerco di
curarli perché, mi dico, se soffrono saranno ancora più cattivi!”.
Non è senza
significato, inoltre, che due depositari di una così alta umanità
non vollero mai piegarsi a declinarla secondo le direttive ufficiali
di partiti politici che si posero a lungo come meri depositari,
nell'ambito delle democrazie occidentali, del discutibile credo
comunista sovietico.
Abbiamo già citato
la cronaca dal cuore del 'socialismo reale', che Céline pubblicò
dopo un viaggio in Russia nel 1936 con il titolo di Mea Culpa.
13
Ad un resoconto alquanto originale per quegli anni (“Il programma
del comunismo? Nonostante i dinieghi: in tutto e per tutto
materialista! Rivendicazioni di un bruto a dei bruti!”) si
aggiungerà, in Bagatelles pour un massacre, un ritratto
caricaturale del feroce successore di Lenin: “Stalin non è che un
boia, di enorme ampiezza certo, tutto gocciolante di trippe di
congiurati, un barbablu per sottufficiali, un formidabile
spaventapasseri, indispensabile al folklore russo... Ma dopotutto
nient'altro che un boia imbecille, un dinosauro umano per masse russe
che non reagiscono che a quel prezzo”). 14
Si direbbe
eloquente, di per sé, il raffronto tra
queste opinioni, risalenti al biennio '36-'37, e quelle
espresse da Pasolini sul periodico comunista “Vie Nuove” nel '61
(vedasi, supra, cap. II). Sembra anche pertinente ricordare
una illustre vittima del comunismo sovietico per mezzo del suo
'braccio armato' italiano: fautore di un “comunismo democratico”,
anche Antonio Gramsci sarebbe caduto sotto la longa manus di
Stalin, coadiuvato dal suo referente Togliatti – così almeno
emergerebbe da alcuni studi condotti recentemente da Dario Antiseri,
Massimo Caprara, Sergio Bertelli e Francesco Bigazzi, cui si rimanda
per approfondimenti.
Tra le nutrite file
di congiurati lesi nell'onore comunista dal mea culpa
céliniano, si distingue per virulenza, prima che per prestigio, il
nome del filosofo Jean-Paul Sartre: a scrivere “Se Céline ha
potuto sostenere le tesi socialiste dei nazisti vuol dire che era
stato pagato”, è infatti quello stesso Jean-Paul Sartre
precedentemente legato alla pubblicazione collaborazionista
“Comoedia”.
Come ricorda
inoltre Lucette Almansor, ultima moglie di Céline, “[...] un
giorno, agli inizi del '40, ho visto arrivare Jean-Paul Sartre che
veniva a chiedere a Louis di intercedere in suo favore presso i
tedeschi per dare alle scene il suo Les Mouches. Ma Louis ha
rifiutato, gli ha detto che non aveva alcun potere presso i
tedeschi.”
Massima autorità
culturale francese per molti anni, in un editoriale sul suo “Les
Temps Modernes” del gennaio '50, Sartre volle chiosare sulle accuse
di genocidio mosse a Stalin, operando un netto distinguo tra crimini
nazisti e crimini sovietici: l'ammirevole funzione rieducativa al
“catechismo marxista-leninista”, affidata a questi ultimi
genocidi, sembrava esonerarli da ogni giudizio, anche solo morale.
In una intervista
del '54 a “Libération” sarebbe altresì arrivato a sostenere che
“In Unione Sovietica c'è la più totale libertà di critica”,
salvo ammettere, anni dopo, di avere mentito. Sostenuta da pensatori
della credibilità di Sartre – ma che Céline giudicava “un asino
con gli occhiali” – ed in pieno clima di equilibrismi da Guerra
fredda, è agilmente intuibile la portata che una simile assoluzione
avrebbe assunto per le coscienze di milioni di militanti delle
sinistre europee, intellettuali inclusi. Ciò è del resto
strettamente collegato alla campagna di diffamazione e censura che la
persona e l'opera del dottor Destouches dovettero affrontare
dall'ultimo scorcio della Seconda Guerra Mondiale sino agli ultimi
anni di vita ed oltre, in ragione del suo antisemitismo almeno quanto
del suo anticomunismo. Solo la caduta del Muro di Berlino e la
possibilità di accesso ai contenuti di molti archivi secreti, rivelò
la veridicità di alcune dichiarazioni e denunce che lo scrittore
aveva esternato dagli anni Trenta (come le accuse alle lobbies
ebraiche americane di avere finanziato la Rivoluzione bolscevica e
caldeggiato l'interventismo degli Stati Uniti nel conflitto europeo),
riabilitandone almeno parzialmente la reputazione.
Per la complessa
vicenda politica relativa allo scrittore francese, qui per ovvie
ragioni solo accennata, si segnala, oltre all'appassionato e forse
troppo apologetico Céline gatto randagio, un testo assai più
datato ma anche equilibrato, Céline, oggi di Paolo Carile,
edito nel 1974. Ne riportiamo un estratto ritenuto esemplare, per
lucidità ed accuratezza di documentazione: “L'impatto dei
pamphlets sull'opinione francese fu tutt'altro che limitato.
Solo nel corso del 1938 a Bagatelles furono consacrate più di
cinquanta recensioni, note o articoli sui principali quotidiani o
settimanali del tempo, la maggior parte di quegli scritti è di tono
favorevole. […] Se tanti critici e scrittori autorevoli hanno,
inoltre, avallato, con formule più o meno convinte o ipocrite, il
contenuto di quegli scritti che non si possono rileggere, a distanza
di anni, senza provare un profondo disagio morale, ciò indica che la
cultura francese era in larga parte partecipe degli stessi miti
xenofobi. Con questo non vogliamo attenuare le responsabilità
individuali di Céline ma il quadro di ampia compartecipazione alla
sua ideologia […] non permette di dare troppo credito alla tesi di
un Céline fenomeno aberrante nel mondo letterario a cavallo della
seconda guerra mondiale. Egli non ha fatto, in definitiva, che
esprimere, con l'outrance che gli era propria, le paure
irrazionali e i pregiudizi di una società quasi nel suo complesso,
società che poi, col mutare degli eventi, ha scelto alcuni, isolati,
capri espiatori da punire esemplarmente, per ricostruirsi una
credibilità morale alla quale, dopo quello che si è detto, è
dubbio avesse diritto.” 15
Di seguito si
ripercorrerà per sommi capi la vicenda giudiziaria céliniana che, è
opinione di chi scrive, offre ulteriori elementi di affinità tra il
romanziere francese ed il poeta italiano. 16
In estrema sintesi,
ricordiamo che nel 1944 Céline fuggì da Parigi alla volta della
Danimarca, dopo che la sua condanna a morte era stata ufficializzata
dalla Radio Londra – quelle stesse trasmissioni seguite da alcuni
partigiani suoi condomini nello stabile di rue Girardon, e da lui più
volte soccorsi in seguito a ferimenti. Raggiunto nel '45 da un
mandato di cattura con l'accusa, formalizzata in Francia, di “alto
tradimento” – per cui era prevista la pena capitale – ex
art. 75 del Codice Penale francese (introdotto da un decreto-legge
del 29 luglio 1939), egli scontò una detenzione, formalmente
illegale, di circa diciotto mesi nelle carceri danesi. Finché nel
1950 si ebbe il verdetto, pronunciato in contumacia dell'imputato: un
anno di reclusione (già scontato), cinquantamila franchi di ammenda,
confisca dei beni (già effettuata), indegnità nazionale – a
cassare per sempre, con quest'ultima formula, la memoria ed i meriti
del suo arruolamento volontario in entrambi i conflitti mondiali,
l'onorificenza e l'invalidità riportate nel corso della Grande
Guerra, nonché i suoi ripetuti tentativi di dissuadere quella parte
dell'opinione pubblica francese che sin dagli anni Trenta era a suo
giudizio determinata a consegnarsi ad una “catastrofe definitiva”.
Quanto alla
maledizione che cadde sulla sua opera, vanno ricordati, in un dovuto
encomio, l'intraprendenza ed il coraggio di un artista improvvisatosi
editore, quel Pierre Monnier che tentò, primo ed unico, di
risollevare Céline dall'oblio, per poi consegnarlo al potente
editore Gallimard, il quale lo avrebbe consacrato, come meritava, nel
cielo delle Pleiadi. 17
Recuperando il filo
conduttore di questo capitolo, sviluppato intorno al tema della
persecuzione e della segregazione riservate ad ogni autentica
espressione di libertà intellettuale, la panoramica della vicenda di
Céline non può non riportare alla mente gli oltre trenta processi,
uniti ai sequestri dei suoi romanzi e delle sue opere
cinematografiche (da Ragazzi di vita ad Una vita violenta,
da Accattone a Salò o le 120 giornate di Sodoma), che
segnarono il percorso personale ed artistico di Pier Paolo Pasolini,
lungo i vent'anni conclusivi della sua vita.
Confidando che
all'iniquità degli eventi contingenti, anime e menti eccezionali
sappiano contrapporre la lungimirante superiorità di una visione
d'insieme (non dissimile dall'ottica che ci ha tramandato il grande
storico Braudel), si vuole qui concludere ricordando lo sguardo
rivolto all'estrema, 'Grande Consolatrice', da ciascuno dei due
artisti – entrambi convinti atei i quali, tuttavia, mai videro in
questo una rinuncia al misticismo, e ad un'intima religiosità
rigorosamente non confessionale.
Il poeta delle
Ceneri confessò al giornalista Jon Halliday, che lo intervistò nel
1968: “La vita acquista un senso quando è finita; prima di quel
momento non ne ha, il suo senso è sospeso e pertanto ambiguo. Quando
le parlo della mia tendenza al sacrale, al mitico, all'epico, dovrei
dire che essa può essere completamente appagata solo dall'atto della
morte, che secondo me è l'aspetto dell'esistere più mitico ed
epico: tutto questo, tuttavia, a un livello di puro irrazionalismo.”
18
Céline, dal canto
suo, sembra aver acquisito con alcuni anni di anticipo che “Lei
ispira, la morte. E' anche la sola cosa che ispira. Io lo so, quando
lei è là, proprio dietro di me. Quando la morte è in collera […]”;
19
pertanto concludendo “Per me si è autorizzati a morire
quando si ha una buona storia da raccontare. Allora la si scrive, poi
si va. Morte a credito è simbolicamente questo. Perché la
ricompensa della vita è la morte.” 20
Se non
risultano lasciti documentali che consentano di ipotizzare una
conoscenza di Pasolini da parte di Céline, la fama di quest'ultimo
non poté invece venire ignorata dal pensatore italiano, che se ne
occupò tuttavia solo di sfuggita nel 1973, quando gli riservò parte
di un articolo sul settimanale “Tempo”, dove dal 26 novembre 1972
al 24 gennaio 1975 tenne, a cadenza quasi mensile, una rubrica
letteraria. In data 22 luglio 1973 egli recensirà dunque il romanzo
Da un castello all'altro (pubblicato nel 1957 e tradotto
inizialmente in Italia come Il castello dei rifugiati) che
compone, con i successivi Nord del 1960 e Rigodon
del 1969, quella che lo stesso Céline aveva concepito come Trilogia
del Nord.
Si
legge nell'incipit: “E' un luogo comune ammirare
incondizionatamente Céline. L'obbligo morale che impone questo luogo
comune è una specie di spregiudicata presa di posizione
antideterministica, per cui risulterebbe, appunto, 'immorale'
giudicare uno scrittore dalla sua ideologia e dai fatti della sua
vita: mentre sarebbe 'morale' dissociare, da tale ideologia e da tali
fatti, la sua opera. Nel caso di Céline questa dissociazione è
codificata con particolare rigidità.
E'
punto d'onore dell'intellettuale di sinistra non discuterla. Si
tratta di un esempio di letteratura avanzata in uno scrittore
'reazionario': e serve a salvare la coscienza dell'intellettuale di
sinistra dal dogmatismo dello scandalo.” 21
Queste
premesse suscitano già diverse perplessità, nonché una certa
amarezza. Con riguardo alle presunte colpe relative alla vita ed alla
“ideologia” di Céline –
termine, quest'ultimo, che appare decisamente improprio se
associato allo scrittore francese –
Pasolini vi allude con generica leggerezza, quasi fosse un
acquisito postulato del ragionamento che andrà di seguito a
sviluppare. Poi, in una sorta di
complice ammiccamento al lettore, tecnica retorica
che egli finirà per
contestare proprio alla scrittura céliniana, “[…] E' uno sfogo,
un'arringa. Ma poiché l'autore non può e non vuole affrontare
direttamente i fatti di cui parla, instaura col suo ipotetico
ascoltatore un rapporto tutto allusivo e ammiccante. Ed è appunto
qui, in questo rapporto, che si manifesta l'ideologia e il carattere
psicologico-politico dell'autore. E poiché questo 'rapporto' è in
sostanza lo stile del libro, ecco che la famosa dissociazione non può
essere operata.”
Appare
singolare, aggiungeremmo, che certa ammirazione incondizionata venga
attribuita proprio agli intellettuali di sinistra, per molti dei
quali resta a tutt'oggi ostinato luogo comune quell'antisemitismo e
quel razzismo dello scrittore francese tanto indiscutibili da
potergli ancora attribuire, mediante un arbitrario sillogismo, un
fervente collaborazionismo con il regime hitleriano.
Coro
giustizialista cui si unì diligentemente, negli stessi anni di
Pasolini, anche uno scrittore definito liberal quale lo
statunitense Kurt Vonnegut, nella prefazione da lui curata per
un'edizione americana della Trilogia
del Nord; rendendo però
con ben altra equità quanto dovuto al Céline 'fabbro della parola':
“Ogni scrittore è in debito con lui, e così chiunque interessato
a discutere le vite nel loro complesso. […] Con ben poco aiuto
dalla sua eccentrica punteggiatura, Céline, secondo la mia opinione,
diede nei suoi romanzi la migliore narrazione storica del totale
collasso della civiltà Occidentale in due guerre mondiali, come la
videro donne e uomini comuni e terribilmente vulnerabili. […]
Magari non provava simpatia per i poveri e gli inermi, ma quel che è
certo è che donò loro la maggior parte del suo tempo e della sua
meraviglia. E non li insultò con l’idea che la morte, o anche
l’uccidere, fosse in un certo qual modo nobilitante per chiunque.
[…] Penso che mancasse dell’apparato attutente che la maggior
parte di noi ha, e che ci protegge dall’essere travolti
dall’assurdità della vita per come realmente è. Nel
momento in cui scrivo, l’autunno del 1974, è diventato evidente
anche alla gente comune, con i loro apparati attutenti perfettamente
funzionanti, che la vita è, in effetti, così pericolosa e
implacabile e irrazionale come Céline ha affermato che fosse.” 22
Tornando
alla recensione apparsa nel 1973 sul “Tempo”, ed attualmente
presente nel volume Descrizioni
di descrizioni,
Pasolini prosegue: “[…] L'ultimo romanzo di Céline, Il
castello dei rifugiati,
è di carattere particolarmente autobiografico: parla, per l'appunto,
dei fatti della sua vita e allude continuamente all'ideologia che li
ha determinati. Anche per il più ostinato anticonformista sarebbe
difficile in questo caso sfuggire al conformistico dovere di
confrontare il risultato estetico con la 'volontà noetica', il tipo
di conoscenza, che vi presiede. Tale confronto è disastroso per
Céline e il suo valore letterario. […] Generalmente il
protagonista di cui lo scrittore 'rivive il discorso' è molto
diverso, psicologicamente e socialmente, dallo scrittore (per esempio
Padron 'Ntoni è molto diverso dal Verga che lo rivive nella sua
scrittura): invece, nel caso del Castello
dei rifugiati,
il protagonista e lo scrittore sono la stessa persona! Céline vive
il discorso di Céline – appena appena distanziato da sé – in
una forma più piccolo-borghese e media.”
L'ipotesi
del carattere autobiografico dell'opera céliniana, di cui Pasolini
sembra persuaso con riferimento al romanzo Da
un castello all'altro, viene
considerata in termini diversi da più di uno studioso. In questa
sede si vuol citare Henri Godard, il quale nella Prefazione alla
Trilogia
del Nord
invita ad una doverosa prudenza interpretativa: “Non è affatto
certo che si debbano prendere per buone così come sono quelle
recriminazioni e quelle professioni di fede, e trovarvi dentro senza
ulteriori indagini l'espressione della personalità e delle
convinzioni reali di Céline”. 23
Ogni dato reale e personale, siamo portati a credere, non è che
materia grezza plasmata da quella trasfigurazione del linguaggio e
della paradossale trama
narrativa,
entro cui la rievocazione compiuta dalla memoria dello scrittore
finisce spesso e volentieri per tradursi in un 'lucido delirio', un
'demiurgico raptus'.
Suscita inoltre
amarezza constatare che Pasolini, ritenendo inscindibile l'elemento
biografico dall'elemento poetico, e accomunandoli in un giudizio di
severa quanto indeterminata condanna, non dimostri nessun interesse
per l'approfondimento di una parabola umana così complessa e
tragica, preferendo adagiarsi sulla 'vulgata' dominante, che continua
a vedere in Céline un “criminale di guerra”, le cui atroci
sofferenze furono, evidentemente, un equo contrappasso. Eppure
Pasolini espresse queste sue opinioni nel 1973, a più di dieci anni
dalla morte di Céline avutasi nel '61, ergo
da
ragionevole distanza per una valutazione magari altrettanto negativa
ma forse più equilibrata e soprattutto meglio documentata, come
sarebbe stato suo dovere intellettuale e di intellettuale.
Concludendo la recensione, il Nostro chiosa così: “Il
castello dei rifugiati
è un brutto libro perché è odioso ciò che Céline pensa ed è. Il
destinatario del suo 'monologo' finto è un uomo come lui, che la
pensa come lui, o quasi. O che è comunque in grado di comprenderlo
quando egli allude ai suoi trascorsi di collaborazionista e di
criminale di guerra; o, quanto meno, di fare sua la disillusione che
ne è seguita, con la conseguente spregiudicatezza critica nei
confronti dei suoi ex idoli nazisti, rimescolati in una generale
indegnità del mondo. Sicché il lettore è costretto a sentirsi
identificare con un destinatario-complice. Ma ciò che l'autore gli
comunica e gli confida – ammiccandogli come a un suo pari – come,
appunto, a un orrendo complice – è così meschino e volgare, che
il rifiuto da parte del lettore non può essere che assoluto. Non è
possibile perdonare a Céline il suo fascismo in nome del buon senso
borghese, e non è possibile dissociare da questo il suo stile, se il
suo stile altro non è appunto che la 'mimesi' del buon senso di un
borghese, sia pure disperato e scardinato dalla vita normale.” 24
Non è casuale che
Pasolini non fornisca alcuna spiegazione sulle vere e proprie accuse
che rivolge allo scrittore parallelamente al giudizio sul suo
romanzo. Lo definisce ad esempio “reazionario” senza però che il
lettore possa comprendere quale sia lo status
quo ante
da difendere, per Céline, non disdegnando l'eventuale utilizzo di
metodi e mezzi autoritari (come da interpretazione letterale del
termine 'reazione' suggerita da chi scrive). Una tale definizione
accusatrice lascia alquanto perplessi anche in virtù del fatto che,
se in Céline sono indubbiamente ricorrenti sinceri rimpianti per il
passato, alcuni di questi risultano sorprendentemente affini a certi
toni nostalgici pasoliniani – spogliati da quel peculiare lirismo
idealizzante – in quanto disperati e solitari rifiuti dei tratti
più disumanizzanti della concezione capitalistica della modernità,
siano l'alienazione, l'omologazione intellettuale, o lo smarrimento
definitivo di una propria identità culturale.
Sarebbe infine
imperdonabile, si insiste nella recensione esaminata, quel credo
fascista di Céline, già ricordato come “criminale di guerra” e
“collaborazionista” di “ex idoli nazisti”. Che Pasolini
giudicasse le proprie valutazioni l'espressione logica di un
patrimonio culturale condiviso, pretendendo, coerentemente con ciò,
che un lettore poco informato si affidasse fiducioso alla sua
autorevolezza,
non è dato sapere, così come sarebbe vano indugiare in congetture.
Nel concludere il presente capitolo si tenterà piuttosto di
dimostrare, attraverso il breve esame di alcuni tra i copiosi
documenti esistenti, quanto ingiustificate ed ingiustificabili
fossero determinate valutazioni di Pasolini, nel trascendere i limiti
di una mera e rispettabile opinione personale per ergersi ad
inammissibile ricostruzione storica o sentenza politica.
Relativamente agli
“ex
idoli nazisti”, nel
suo Hommage
à Zola
del 1933 Céline scrive: “Nessun
regime resisterebbe a due mesi di verità. Sia le società marxiste
come le nostre borghesi e fasciste. […] Hitler non è l'ultima
parola, ne vedremo di più epilettici ancora forse qui. […]
Liberali, marxisti, fascisti, non sono d'accordo che su un punto: dei
soldati! […] Forse non è più il caso di rendere un supremo
omaggio a Émile Zola alla vigilia di un altro immenso disastro.”
Mentre in
Bagatelles
pour un massacre del
'37: “Nessun satrapo ariano dura, non può durare. Loro fanno leva
gli uni sugli altri per esaltare il loro branco di bufali fatto di
mistiche mediocri, regionali, retrive, difensive... Vedrete Hitler!
La misura del mondo attuale, sono dei mistici mondiali di cui ci si
deve avvalere o sparire... Napoleone l'aveva capito... [… ]”.
Per l'assai
indulgente biografa Marina Alberghini “Il fatto che lui si sia
schierato pubblicamente contro il fascismo non significa che, per
combatterlo, e non c'era altro modo, debba schierarsi sotto la
bandiera di un'altra dittatura, il comunismo, che all'epoca intuì e
poi constatò più feroce ancora.” 25
In tema di
antisemitismo céliniano, sempre in Bagatelle
leggiamo: “Non ho
niente di speciale contro gli ebrei in quanto tali, voglio dire
semplicemente malviventi come tutti noi, bipedi alla ricerca della
loro zuppa […]. Ma è contro il razzismo ebraico che mi rivolto,
che sono cattivo, che bollo fino in fondo ai precordi... Io impreco!
Io tuono!” 26
(opinioni
espresse da Céline quando le determinazioni della Germania sulla
Questione ebraica erano ancora lungi dall'essere palesate).
Mentre in una
lettera a Doriot del 1942 egli auspica: “E crepi l'antisemitismo! E
crepino tutti quei coglioni ariani! […] Eccoci al fondo del
riassunto, il risultato semplice e sinistro della rabbia ariana in
azione […]”. Una rabbia che tentò anche di arginare con la
povertà dei mezzi materiali di cui disponeva, come emerge dalle
memorie di una sua infermiera presso il dispensario di Bezons,
Lucienne Damas: “Joannin Vanni [commissario di polizia, N.d.A.] mi
disse che il dottore stilava dei certificati falsi anche per gli
ebrei [onde dispensarli dal tristemente noto Servizio di Lavoro
Obbligatorio, N.d.A.].”
Relativamente
all'accusa di collaborazionismo con i tedeschi, cui sembra si associ
anche Pasolini, ribadiamo
che, all'entrata in guerra della Francia, lo scrittore tentò di
arruolarsi volontario: una volta riformato poiché invalido di
guerra, si imbarcò come medico di bordo sul piroscafo armato Shella,
silurato dai tedeschi sulla rotta Marsiglia-Casablanca, al largo di
Gibilterra, nei primi mesi del 1940.
Menzioniamo poi un
funzionario nazista, tal Karl Epting, direttore dell'Istituto di
Cultura Franco-Tedesca, che ricorda: “Non ci furono certamente in
quegli anni, sotto l'occupazione, che pochi francesi i quali abbiano
preso così apertamente di petto i tedeschi come fece Céline, con
uno zelo quasi autodistruttivo.” 27
Fanno eco alle
parole di Epting quelle di un collega medico, il dottor Cloué: “Io
ho assistito a una conferenza medica del dottor Destouches sotto
l'Occupazione. E affermo che ha avuto molto coraggio per parlare in
barba ai tedeschi come fece quel giorno.” Stando poi a quanto
dichiarò un certo Eitel Friedrich Moellhausen, uno dei funzionari
nazisti preposti ad organizzare la Collaborazione in territorio
francese, “Fin dall'inizio [Céline] mi disse che non voleva sentir
parlare di una collaborazione, e che aveva deciso di non scrivere più
perché se aveva avuto il coraggio di mostrarsi favorevole ai
tedeschi quando erano lontani, ora non poteva farlo più.”
Tra le figure di
rilievo della Resistenza, ricordiamo quel Vailland che nel '50 si
vanterà di aver pianificato l'uccisione dello scrittore,
rimpiangendo di non averla poi portata a compimento e declamando
infine dalla Tribuna delle Nazioni: “Noi non risparmieremo più
Céline!”. Gli ribatterà Robert Champfleury che questi era
perfettamente a conoscenza della presenza di loro, partigiani, nel
suo stesso stabile di rue Girardon, e non soltanto non li aveva mai
denunciati (come ci si sarebbe aspettato da un collaborazionista) ma
aveva anche accettato di curare quelli feriti. Parole che trovano
conferma in quelle di Pierre Petrovich: “Céline aveva molti amici,
anche tra i partigiani. Noi leggevamo poco i giornali della
Collaborazione. Ma quando ci scoprimmo una lettera di Céline si vide
che non solo non c'era la minima adesione alla Collaborazione, ma che
era piuttosto la denigrazione ironica di un solitario. […] Céline
non ci apparve mai, in parole o atteggiamenti, sotto i tratti di un
collaboratore del nemico.”
Durante il periodo
del processo, un Céline preoccupato per la propria incolumità
quanto riluttante a mostrarsi così provato, rimase in Danimarca, un
esilio dal quale tornerà solo alcuni anni dopo la sentenza.
Nella sua memoria
difensiva, egli si difese attraverso il proprio pamphlet forse
più incriminato, Les Beaux Draps: “All'epoca della sua
pubblicazione nel '41, io non sapevo niente, assolutamente niente
delle deportazioni ebraiche, né di nessun'altra deportazione. Non ho
d'altronde saputo nulla di queste atrocità, se non alla fine della
guerra. Per me Les Beaux Draps non è un libro antisemita, ma
fermamente patriottico, forse di un'intransigenza patriottica
insopportabile, ma questo è tutto. Patriota io sono –
assolutamente: mi sono schierato contro la guerra nel '39 perché
vedevo nella guerra del '39 una catastrofe 'definitiva'. Questo modo
di isolare dei passaggi dei Beaux Draps senza tenere conto del
messaggio del libro blocca ogni forma di difesa – è il vecchio
detto: 'Datemi due righe di non importa chi e lo farò impiccare!
[…]”. Fortunatamente un simile esito – che pure era previsto ex
lege, come già ricordato – non si ebbe: la pubblica accusa
concluse infatti la propria requisitoria dichiarando che “un simile
individuo non sarebbe stato capace di collaborare con nessuno”, il
che non impedì di chiederne la reclusione ed un pena pecuniaria.
Com'è giusto che
sia, ognuno tragga le proprie conclusioni da tale pagina di storia.
Questa è la riflessione che ci si concede di condividere qui:
fatalmente, non potrà mai esserci arte senza sofferenza. Non perché
il dolore nobiliti, quanto perché in mancanza di esso non si avrebbe
percezione di uno dei sentimenti dominanti la realtà – almeno,
così come continua a subirla o si ostina a concepirla quell'uomo
che, disse qualcuno, sembra associarsi agli altri solo per
dispensarsi dal pensare individualmente.
Alessandro Vichi
1Dacché
si è chiamata in causa la psicoanalisi quale chiave di lettura di
tale parallelismo biografico, si potrebbe 'abusare' per l'ennesima
volta del mito edipico immortalato nella tragedia di Sofocle,
leggendo nella persecuzione (in primis giudiziaria) subita da
entrambi gli autori, quelle celebri colpe dei padri ricadute sui
figli innocenti (in tal caso, dei padri anche sociali, per così
dire, oltre che individuali). Lo stesso Pasolini operò ricorrenti
trasfigurazioni artistiche del proprio permanente conflitto con la
figura paterna: vedansi, su tutte, la pellicola Edipo re, il
testo teatrale Affabulazione e
la sceneggiatura Il
padre selvaggio.
2Mort
à crédit, Romans 1, p. 550.
4Céline
ricorderà così quella nonna, dalla quale mutuò il proprio nome
d'arte: “Mio padre lo aveva in odio, non lo poteva vedere con la
sua istruzione, i suoi grandi scrupoli, i suoi furori da debole,
tutta la sua grancassa di scocciato. Sua figlia, la trovava cogliona
ad aver sposato un fesso simile, a settanta franchi al mese nelle
Assicurazioni. Quanto a me, il marmocchio, non sapeva bene cosa
pensarne, mi teneva sotto osservazione. Era una donna di carattere.”
5Cahier
Céline vol. 2, p. 17.
6Romans
2, pp. 998-999.
7Lettera
di Pasolini a F. Leonetti, 21 dicembre 1958, Lettere, vol.
II, p. 406.
9François
Gibault, Céline,
vol. II, p. 51.
10Cahier
Céline, vol. 5, p. 226.
11“New
York Times”, 9 agosto 1966.
12
Les Beaux Draps, pp. 128-129, 166, 175.
13Un
altro prestigioso intellettuale dell'epoca che si distinse per il
coraggio della sua obiettività circa l'operato di Stalin fu, nello
stesso periodo di Céline, André Gide.
14
Bagatelles pour un massacre, p. 50.
16Con
riguardo all'oblio lungamente imposto intorno all'opera letteraria,
nonché alla persona di Céline, va senz'altro menzionata la sua
inclusione in quella lista di proscrizione stilata in Francia nel
1944 da parte del Comitato Nazionale degli Scrittori. Tra i
firmatari, nomi come quello di Mauriac, Valéry, Camus, Eluard,
Sartre, Claudel, Aragon, De Beauvoir.
17Ricorderà
Monnier in un'intervista con la Alberghini: “[…] fra il 1946 e
il 1958 fu seppellito vivo. Se qualcuno pronunciava il suo nome era
solo per coprirlo di insulti seguiti dalle calunnie più atroci […].
La sinistra non gli ha perdonato di non aver voluto essere il suo
alfiere, ruolo che poi è stato dato ad Aragon.”
18
Halliday, Pasolini, cit., p. 61.
19Cahier
Céline, vol. 2, p. 136.
20Romans
1, p. 1325.
21Pier
Paolo Pasolini, Descrizioni di descrizioni, Milano, Garzanti;
cit., pp. 174-176.
22Ad
ulteriore conferma del ruolo d'ispiratore da lui tributatogli,
ricordiamo che Vonnegut aveva già citato con devozione lo scrittore
francese nel suo romanzo Slaughterhouse-Five del
1968: “Céline fu un coraggioso soldato francese durante la Prima
guerra mondiale, finché non gli spaccarono il cranio. Dopodiché
non riusciva più a dormire e sentiva dei rumori nella testa.
Diventò medico, e di giorno curava la povera gente, per tutta la
notte scriveva romanzi grotteschi. L'arte non è possibile senza una
danza con la morte, scrisse. […]”. E da un artista, si vuole qui
aggiungere, ci si dovrebbe aspettare che sappia come distinguere la
poeticità della morte da una prosaica fine della vita. Perché è
incontrarla, guardarla, conoscerla finché si è in tempo, che
permette di estorcere alla morte quel che serba di vitale per
qualsivoglia forma d'arte; quanto di mortale per qualsivoglia forma
di vita.
23Henri
Godard, Prefazione alla Trilogia del Nord, Milano,
Einaudi; cit., p. XXVIII.
24A
proposito del presunto fascismo di Céline, chiamiamo nuovamente in
causa lo studio di Paolo Carile, il quale sostiene: “[…] si può
dunque evincere che parlare di Céline fascista è improprio: lo
scrittore manifestò soltanto alcune affinità con certi
atteggiamenti ideologici dell'estrema destra ma fu estraneo ai
principi peculiari dei movimenti fascisti e […] nonostante il suo
particolare antisemitismo e anticomunismo, non collaborò, in modo
organico e impegnato, con i nazisti.”
25In
The Freedom of the Press del 1945, breve saggio a premessa
(non inserita dall'editore) della prima edizione del suo Animal
Farm, George Orwell scrive:
“L'ortodossia dominante esige in questo momento un'ammirazione
acritica nei confronti della Russia sovietica. Stalin è sacro, e
certi aspetti della sua politica non vanno posti seriamente in
discussione. Questa regola viene osservata quasi universalmente a
partire dal 1941, ma era già in vigore, e in modo molto più esteso
di quanto a volte si creda, da una decina d'anni.”
26Quando
la Resistenza francese riceverà l'ordine di giustiziarlo, in difesa
di Céline si schiererà, tra gli altri, Choron Gourewitz, del
Movimento Nazionale Ebraico, che nel 1944 scriverà: “Noi siamo
spesso d'accordo con Céline quando denuncia il giudaismo come un
male, come un modo di vita basato su falsi valori.” Mentre Jacques
Duval testimonierà al processo: “[…] Io non ho mai visto Céline
in preda a un'ossessione antisemita […]. Così come non l'ho mai
visto scagliarsi verso gli israeliti che frequentava in gran
numero.”
27Sempre
in termini di impulso autodistruttivo sembra potersi –
parzialmente –
spiegare questo scambio di battute con l'ambasciatore tedesco
Otto Abetz: “- Voi, signor Céline, si sa che non amate i
tedeschi... - Io non amo i tedeschi? Non è vero, Gen Paul [pittore
amico di Céline, N.d.A.], che noi li amiamo? Fai vedere al signor
Ambasciatore come fai bene Hitler!”. O certe conclusioni su Hitler
esternate al ministro Schleier: “[…] io parlo del pupazzo che è
al potere, un tragico buono a nulla che vale giusto un controllore
del metrò, e meno di una ruota di scorta.”
Nessun commento:
Posta un commento