Sono passati vent’anni da quando ho tradotto per il risorto Corbaccio il Voyage au bout de la nuit di Louis-Ferdinand Céline. Giusto sessant’anni dopo la versione di Alex Alexis, alias Luigi Alessi, polimorfo letterato, drammaturgo, giornalista, editore cuneese, già legionario fiumano con D’Annunzio, che nel 1927 aveva tentato la fortuna a Parigi, conducendo a Montparnasse un’esistenza da bohémien in mezzo a irregolari e devianti d’ogni tipo e Paese.
A me hanno dato sei mesi di tempo, a lui la metà. Ma l’avventuroso Alessio non ha dovuto lottare soltanto contro il tempo tiranno. Si è ritrovato in una situazione addirittura drammatica, perché non aveva una lingua in cui trasporre le novità perturbanti dello stile di Céline; o, se anche se la fosse inventata, non sarebbe stata accettata, in primis dal pur bravissimo editore Enrico Dall’Oglio, il più lesto a capire, con l’aiuto di Gian Dàuli, le qualità di quel capolavoro; e poi dal pubblico, abituato a ben altri standard stilistici. L’italiano letterario degli anni trenta è un italiano da salotto buono, ben educato, inamidato, compassato, finto elegante, un po’ narciso e squisito, curtense per abitudine secolare, afflitto da pesanti complessi di superiorità, poco adatto a rappresentare una realtà popolare o degradata, a misurarsi con il parlar basso: con la verità tutta intera dell’uomo com’è. Impensabile, in quegli anni, irrobustirlo con apporti dialettali. I dialetti erano considerati dei relitti di un Paese povero e arretrato da nascondere accuratamente, parenti poveri che era meglio non esibire; al massimo, delle toppe arlecchinesche buone per produrre colore locale a buon mercato. All’epoca Gadda non aveva ancora scritto né L’Adalgisa né il Pasticciaccio, e Pasolini aveva dieci anni.
Il problema non era tanto e solo lessicale. Henri Godard, curatore delle opere nella Pléiade, ha contato 37 voci argotiche, e lo stesso Céline guardava l’argot quasi con fastidio, perché sapeva che nulla invecchia tanto rapidamente. Mirava a ben altro, lui. Come ha osservato Giuseppe Guglielmi, cui le traduzioni céliniane tanto devono, l’uso che Céline fa dell’argot non è mimetico, ma sporadicamente omeopatico.
Il problema era sintattico, di tono generale, legato all’invenzione di una lingua popolare e simil-quotidiana che in realtà nessuno parla. Il dottor Destouches è stato il primo a capire che il parlato che esce da una registrazione stenografica o da un registratore audio è inutilizzabile, per iscritto. Suona piatto, banale, approssimativo, sciatto. Su pagina, il parlato esige una capacità di reinvenzione assoluta. Quello che Céline perfeziona, sotto la spinta emotiva di un amore deluso per l’uomo che diventa furia irridente, è un puro jazz, un jazz metropolitano arrischiato su tutti gli oggetti che gli capitano a tiro, come in una qualunque banlieu creola. La sua «petite musique» è fatta di slogature sintattiche, salti, fratture, dislocazioni e inversioni di parole all’interno delle frasi, un incrociarsi ossessivo e percussivo di pronomi, avverbi, congiunzioni. È un batterista nato, il medico dei poveri. Scardina sistematicamente la consecutio temporum per ricreare nel flusso di un discorso tutto al passato le emozioni, i soprassalti, le urgenze del presente; usa il condizionale al posto degli aborriti congiuntivi: «me ne stavo andando e mai la rivedrei di sicuro».
Altra «grana» céliniana che il traduttore deve affrontare, l’uso frequente, vorrei dire teppistico, del que, su cui si sono dottamente esercitati grammatici e linguisti d’Oltralpe: «C’est à la fête qu’on est!, que je hurle moi». Riprodurlo tal quale in italiano si può fare, ma alla lunga risulta un po’ cacofonico e inutilmente fastidioso. Proprio sullo scoglio della resa italiana del que si sono appuntati i missili critici del convegno Tradurre Céline tenuto all’Università di Cassino nel marzo 1997.
Perché ricordo questi passaggi di sesto grado, non sempre riusciti, sulle impervie pareti nord del Voyage? Perché la traduzione, come l’analisi psicoanalitica, è per sua natura interminabile. Non le è concesso di raggiungere un termine, un’uscita dal tunnel degli scavi. A un certo punto bisogna uscirne perché così chiedono la logica e l’editore, ma il lavoro non è compiuto: è un’imbastitura, un’ipotesi, una modesta proposta, una pratica servile che dovrebbe consentire al lettore di misurarsi con l’originale in prima persona, tanto più che, come sappiamo, ogni lettura, anche dalla propria lingua materna, è una traduzione.
Appena finito il lavoro, se ne colgono le manchevolezze, e il tempo che passa non fa che accrescerle. Così come ogni generazione è chiamata a riscrivere la propria storia, è anche vocata a ritradurre i suoi classici. Perché i codici, il linguaggi, le sensibilità cambiano insieme a noi, rapidamente, e impongono interpretazioni sempre nuove, come accade con la musica.
Stefano Mauri, presidente del gruppo Mauri Spagnol cui appartiene il Corbaccio, mi ha già invitato da tempo a riprendere la vecchia traduzione e a darne una nuova, tanto più che il 1° luglio 2011 ricorre il 50° della morte dell’eremita di Meudon. Sono d’accordo con lui, evidentemente, e l’impresa mi tenta, anche perché ricordo i mesi passati nella luminosa oscurità della miniera del Voyage come una lunga apnea felice, l’occasione irripetibile di convivere per qualche tempo con uno scrittore grandissimo, una fonte continua di sorprese, emozioni, sbalordimenti, gratificazioni, come sempre accade quando riusciamo a metabolizzare la grande arte (che so, Dante, Shakespeare, Mantegna, Bach), fino a sentircene arricchiti, appagati; fino a trovare in essa il senso di un’intera civiltà e del nostro stesso vivere. Fin che possiamo diventare una parte anche infinitesimale di questa storia, tutto si giustifica.
Se traccheggio e tiro di lungo, e comunque mancherò l’occasione del cinquantenario imminente, è per i soliti banalissimi motivi: altri impegni che incombono, l’idea di compensi non proporzionati alla fatica. Ma ha ragione Andrea Casalegno, che alla traduzione ha dedicato pagine assai fini: nessuna traduzione deve essere mai buttata. Anche la meno riuscita, la più approssimativa concorre alla storia della cultura, ne fa parte integrante, come certi antenati di cui magari ci vergogniamo un po’ ma che servono a spiegare da dove veniamo, nel bene e nel male. Raffrontare traduzioni vecchie e nuove non è solo utile, è fondamentale, l’esercizio che ogni scrittore serio dovrebbe fare per proprio conto, e senz’altro fine che la propria crescita espressiva, perché non si impara mai tanto, e mai tante cose si capiscono come da questo confronto riga per riga, parola per parole, fra codici e sistemi diversi. Chi sappia un po’ di tedesco trarrà non poco profitto e diletto dalla comparazione della storica traduzione di Ervino Pocar della Montagna incantata con quella recentissima di Renata Colorni, nuova sin dal titolo cambiato e filologicamente più esatto: La montagna magica.
Ecco, sentirmi parte di questa continuità, di questo lavoro che non finisce mai, di questa comunità operosa di api traduttorie che danno tanto e ricevono così poco, in tutti i sensi, e tuttavia continuano a vivere la loro passione con l’intensità di una prima volta, tutto questo mi fa sentire meglio, e mi spinge a mettere per iscritto che un giorno non troppo lontano dovrò pur rimettere mano a quella beata, impervia fatica.
Marzo 2011
Nota della Redazione
La traduzione del Voyage di Alex Alexis, cioè Luigi Alessi, uscì per il Corbaccio di Enrico Dall’Oglio, Milano, nel 1933; quella di Ernesto Ferrero nel 1992. La montagna incantata, traduzione italiana di Ervino Pocar di Der Zauberberg di Thomas Mann, uscì nel 1965 come nono volume di Tutte le opere di Thomas Mann, a cura di Lavinia Mazzucchetti, per Mondadori, Milano, e fu poi ristampato più volte dallo stesso Corbaccio; sempre presso Mondadori, nella collana «I Meridiani» da lei stessa diretta, Renata Colorni ha dato, nel 2010, la nuova versione dal titolo La montagna magica.
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Grazie a Valeria per la segnalazione!