Vi ho trascurato un po' perchè sto correggendo a marce forzate le bozze di questo e con degli amici evidentemente più matti di me abbiamo appena messo in scena questo; per fortuna Gilberto ci regala:
ALBERTO ARBASINO
SESSANTA POSIZIONI
Le sessanta posizioni si riferiscono ad altrettanti ritratti di scrittori famosi, per lo più “classici moderni”, che Arbasino riunisce in questo volume edito da Feltrinelli nel 1971. Le pagine (102 – 108) che l’autore di Fratelli d’Italia dedica a Céline sono composte da tre brevi saggi rispettivamente del 1966, del 1957, dopo la visita che fece a Meudon, e del 1970, in occasione della pubblicazione in Italia di Rigodon.
SESSANTA POSIZIONI
Le sessanta posizioni si riferiscono ad altrettanti ritratti di scrittori famosi, per lo più “classici moderni”, che Arbasino riunisce in questo volume edito da Feltrinelli nel 1971. Le pagine (102 – 108) che l’autore di Fratelli d’Italia dedica a Céline sono composte da tre brevi saggi rispettivamente del 1966, del 1957, dopo la visita che fece a Meudon, e del 1970, in occasione della pubblicazione in Italia di Rigodon.
(Gilberto Tura)
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Nella Terza Repubblica non si parlava ancora d’Arrabbiati: che choc impressionante, allora, nel ’32 quando è esplosa (“Notre vie est un voyage – dans l’hiver et dans la Nuit – nous cherchons notre passage – dans le Ciel où rien ne luit”…) l’opera prima addirittura di un Furibondo…Nel giardinetto della lingua francese anestetizzata con tanta dolcezza da France e da Gide (e da Camus, più tardi), il Voyage di Céline si abbatteva come uno strepitoso vomito di sangue e catarro e piorrea, rigurgitato insieme – “Sale caca!” – da Gargantua ubriaco e dalla garce più irosamente impestata di Pigalle. Irrompeva per la prima volta un “io” biologico rivoltoso e furioso e jemenfoutiste nei sentierini bene odoranti d’una Scrittura né realistica né ‘artistica’ ma neutra, ‘bianca’, trasparente fino all’assenza… (Pound ha capito tutto: “il francese dei mecs appare finalmente sulla pagina! Ora vive sulla pagina! E furbamente Henry Miller ne approfitta subito per i suoi Tropici)… Ma la fortunatissima definizione del “lirismo del fango” suona addirittura inadeguata per la violenta arroganza saccadée d’una prosa tutta-vesciche, atrabiliare e rutilante, perentoria e intransitiva, prepotentissima nel fratturare una superficie stilistica omogeneizzata dalle Istituzioni Cartesiane… separando le Parole dalle Cose senza riguardi di precedenza… spingendo gli impulsi aggressivi e trasgressivi del Linguaggio fino a esasperare il Vocabolario, far crepitare la Punteggiatura, ed esplodere la Narrativa…
Roland Barthes organizzerebbe subito la sua scheda segnaletica: fino alla fine dell’Ottocento lo scrittore non ha quasi mai dubbi, è un piccolo-borghese operoso che fa il suo artigianato nell’ambito di una società non ‘divisa’, descrive un mondo unitario in terza persona, e non sospetta neppure le possibilità di un uso ‘diverso’ del Linguaggio. La Lingua, la Letteratura, lo Stile sono per lui (strumentalmente) tutt’uno. Non conosce ancora le euforie e i narcisismi e le ebbrezza di una scrittura “separata da ogni funzione strumentale,” intensamente visionaria e musicalmente innamorata soltanto dei propri excreta (completerebbe Céline)… Finché l’unità ideologica della borghesia produce una “scrittura unica,” la forma rimane impassibile: come la coscienza. “Ma quando lo scrittore cessa d’essere un testimonio dell’universale per diventare una coscienza infelice, il suo primo gesto è di scegliere l’impegno d’una Forma”… Uno stile? Certamente: ”linguaggio autartico affondato solo nella mitologia personale e segreta dell’autore.” (E la Clarté cessa di presentarsi come un apprezzato ‘valore.’) Si moltiplicano quindi le ‘scritture’: d’accettazione, di contraddizione, di rifiuto… E “nell’opera di Céline, la scrittura non è al servizio del pensiero: rappresenta davvero il tuffo dello scrittore nell’opacità grommosa della condizione che descrive. Senza dubbio si tratta sempre d’una espressione, ma non si va al di là della Letteratura…” (La Forma costa cara, diceva Valéry; e commenta Barthes: “…contrariamente al pensiero, che non costa nulla, e nemmeno si vende, si dona generosamente…” Eppure, una volta… “…la forma costava pressappoco lo stesso prezzo del pensiero, si badava indubbiamente alla sua economia, alla sua eufemia, ma la forma costava poco giacché lo scrittore adoperava uno strumento già formato, i cui meccanismi si trasmettevano intatti senza alcuna ossessione di novità…” Però, “…la funzione sociale della parola letteraria è precisamente di trasformare il pensiero in merce…” …Ma ai tracasseurs du perinée di Céline, tutto questo discorso, non potrebbe suonare interamente applicabile aux basses tripes constamment réchauffées?...)
Come aveva torto Gide quando sentenziava che Céline non raffigura la realtà bensì le allucinazioni che la realtà provoca in lui! La prosa di Céline costantemente ribatte oltraggiando “la maledetta clartè” che continua a rovinare la lingua francese con la pretesa di semplificare e impoverire tutto… privando il linguaggio d’ogni forza espressiva, d’ogni potenza di musica e di colore… prosciugandolo sistematicamente fino a renderlo “funzionale” (cioè impersonale), “trasparente” (ossia inespressivo), e finalmente “secco” (quindi, finalmente, morto)… sopprimendo gli spessori molteplici e proliferanti della realtà e della percezione… riducendo ogni complessità esistenziale a una mera superficie, piatta a ‘leggibile’ come una descrizione notarile… ma intanto l’essenziale rimarrà sempre fuori!...
Céline è un prosatore così impressionante perché la sua strepitosa scrittura di choc balena caparbiamente espressiva a sprazzi stralunati e stravolti, con una tensione gestuale che rasenta l’insostenibile…come per afferrare le allucinazioni folgoranti dell’Irrazionale, e insieme una ribellione fisiologica furibonda… e intanto bucare e bruciare la pagina con una deflagrazione a più dimensioni…
(1966)
---ooo0ooo---
Vecchio, sfinito, confuso, in uno stato d’assoluto abbandono, in un maglione a pezzi, in un villino dilapidato, a Meudon, Céline diceva: “Il francese è una vecchi lingua, asciutta, decrepita, disseccata dagli accademici e dai gesuiti… Tutto ciò che ha preso dalle letterature classiche, lo ha prosciugato a fondo nello sforzo di esprimere chiaramente le idee e i concetti… Ma io mi domando che senso ha questo sforzo raffinato, questo linguaggio ormai secco, ‘giuridico,’ che non riesce a prender dentro né la realtà né la verità… e lascerà sempre fuori le emozioni e i sentimenti… Lo aveva già capito benissimo Goethe, parlando con Madame de Staël dell’esprit francese, che la maledetta clarté ha rovinato tutto, e senza rimedio… Basta pensare ai mistici e ai romantici tedeschi per intendere cos’è quel senso del mistero che i francesi non sono mai più in grado di rendere con la loro lingua… E in vece esiste: è l’essenziale della natura… Soltanto, non si può afferrarlo e riuscire a farlo sentire, con gli strumenti troppo razionalizzati che ci sono rimasti in mano…
“Lo dice bene il biologo Savy (?)… Non è vero niente che in principio era la parola… Macchè, viene prima l’emozione: dagli esseri unicellulari in su… La parola, semmai, viene dopo… per descrivere l’emozione… E per descriverla, a che cosa ci serve quel linguaggio secco, adoperato in maniera disseccata?... A un certo punto, ecco, sono tutti presi da questa mania, e si mettono a scrivere come Voltaire (vedi poi France, vedi poi Bourget…), e si credono tutti tanti Voltaire, i maniaci… Vedi le scuole, vedi i concorsi per le carriere… tutto… E poi basta aprire un giornale qualunque: on fait du chromo… Sulle pubblicazioni per medici che ricevo ancora, guardo le riproduzioni d’arte, che spiegano questo meglio di tutto: il francese vuole riconoscere e riconoscersi, tutto contento di trovare la somiglianza… Il modello che somiglia alla fotografia… e la fotografia che somiglia al modello… Si va avanti così, e tutto è predisposto… Si continua a rifare il liceo, tutto, nei concorsi, nei diplomi, nella carriera… anche quando si tratta di raccontare le viol de la grand’mère da parte dei nipotini sui quotidiani della notte…
“…Imbevuto di miti esclusivi, il francese è asociale, politicamente stupido, tende all’assolutismo in qualsiasi cosa, tende a fare effetto, non importa a quale prezzo, e questo spiega tutte le convenzioni, spiega le gelosie… non che io mi fidi, certamente, non mi sono mai voluto immischiare… e spiega anche fra gli avvenimenti del passato recente, per esempio, la costituzione del ‘trust dei martiri’… esclusivo, anche quello… tutti di una parte sola… Direi che è proprio curioso come in un paese così indiscreto e così bavard, si riesca a mantenere un silenzio più o meno ufficiale su certi fatti, su certe persone… prontissimi tutti a piangere per i poveri ungheresi, a commuoversi per gli eroici polacchi… mai su alcuni francesi… Ma il francese continua a nutrire le proprie illusioni… crede sempre di essere Luigi XIV… e che basti un gesto per imporsi a chiunque… mentre si trova in un paese ridotto all’importanza di un dipartimento… meno ancora… Le sorprese sgradevoli che càpitano, se le merita tutte… Del resto, che cosa m’importa di quello che dicono… le cosiddette generazioni nuove… che sarebbero differenti dalle vecchie… puah!... per quel che m’importa… I soli interessi sono la letteratura, la cucina… La cucina si fa tanto per dire… ma la letteratura…
“… Ah, qui non sarebbe più possibile a un Balzac di descrivere la vita di un medico di campagna, né a un Flaubert di raccontarci i suoi adulteri provinciali… Come deve fare a esistere, oggi, il romanzo documentario di un tempo, quando si trova una massa di documenti dappertutto… ci sono i giornali, le riviste, la radio, e le ragazzine imparano il parto indolore, e a quattordici anni i bambini sanno già tutto, dopo Gide, e meglio di Gide, sull’omosessualità, sul fouet…
“… Il risultato è che tutto è banale, nulla è originale… se non il colorante…
Nel 1941, condannato a morte, in circostanze bizzarre, un essere umano condannato (si può ben dire) dal mondo intero… che è una drôle d’attitude… e come atteggiamento dà una visione del mondo abbastanza deformata… Allora le parole assumono un colore tragico… cioè il colore conveniente… Questa è la cosa che mi interessa!... perché lo stile è questione di colore… e bisogna aver visto!... Non dirò veni vidi vici, dirò piuttosto ho perso!... perché sono stato battuto… però c’ero!... Proust ha descritto il mondo in cui viveva. Io che non sono pederasta e non vado in società, ho detto ciò che ho veduto, senza esagerare niente… semmai limitandomi…
“… perché io sono uno stilista, soltanto questo: il mio problema è che m’importa soltanto lo stile, dunque m’interessa soltanto il colore… Dal romanzo non c’è più niente da aspettarsi… né da imparare… Ormai i contatti umani sono così numerosi e invadenti, che l’insegnamento e l’educazione non hanno più niente in comune con la letteratura… e viceversa… Ma a me interessa soltanto il punto di vista emotivo…
“… Del resto… insomma… l’autore è un fornitore e non un consumatore, non deve giudicare niente. Chi prende una nave desidera svagarsi, mentre io sono giù alle macchine, e lavoro, alle prese con nafta e carbone… ma questo non riguarda il passeggero che ha pagato, e ha il diritto di divertirsi… Sono due mentalità diverse, quella del passeggero e quella del macchinista… Dunque ciascuno stia al proprio posto… Tanto, si troverebbe a disagio, nell’ambiente dell’altro… Il cliente, poi, dev’essere contento: non spetta a me giudicare le altre navi… Tocca a lui… E se non gli piace la mia, ne prenda un’altra… È sempre questione di concorrenza fra compagnie di navigazione… E addirittura, c’è chi preferisce il treno o l’aereo: così la concorrenza diventa ridicola…
“… Ma per scrivere, bisogna esser giovani e aver soldi… Io, vecchio come sono, scrivo senza nessun entusiasmo… Non si fanno più i merletti… Li faceva ancora mia madre… Sono cose che andavano bene quando la vita non aveva un prezzo, ora tutto è finito… Allora, romanzi? Macché, c’è troppa che va in automobile, che vuole arrivare in fretta… Vivono sospesi tra il comunismo e le vendite a rate… senza contare che il comunismo stesso diventa sempre più conforme, fidèle, bourgeois… è inutile marchiarli a fuoco per non lasciarli scappare, come facevano gli antichi… avrete schiavi molto più fedeli per mezzo delle vendite a credito… E ci arriveranno presto anche gli stati comunisti, a questo sistema… Del resto, basta guardare quelli della Renault, qui di fronte: dormono per terra, non mangiano, però hanno tutti la macchina… Anche il papa, ci arriverà: del resto, nel Rinascimento, teneva fior di galere, l’ho letto nelle memorie del capitano Pandéra (?)… Chi gli impedirà di produrre automobili e lavabiancheria? Ogni confessione, un buono per una rata… e le comunioni abbinate ai concorsi a premio… È abbastanza furbo, lo farà, lo farà: del resto ha sempre detto di no alle ideologie che puzzano di razza, di sangue, di conquista della terra… mentre dimostra tanto entusiasmo per la civiltà delle macchine…
“… Cosa deve importare, a questi, del romanzo?... È un impegno che sorpassa le forze attuali: manca il coraggio, la costanza, ci sono i modelli già fatti, lì pronti… Così esiste spesso il ‘piano dell’opera,’ ma poi il romanzo manca… È troppo comodo anche qui applicare la formuletta… adoperare la piccola frase fatta, appresa al liceo… e continuare a rifare il liceo per tutta la vita… tanto, ho l’impressione che gli sforzi e il lavoro si applichino soltanto nelle professioni tecniche, mai in arte… tanto, c’è il cinema… ‘Ah, la rigueur des vieux âges!...’ come diceva il Misantropo di Molière…
“… Ma io sono soltanto uno stilista. Per questo non scrivo romanzi… M’importa solo il colore… il mistero delle emozioni e delle parole… Soltanto questo si dovrebbe vedere nei miei libri…”
(1957)
---ooo0ooo---
…Ah, ma allora Céline stava scrivendo, proprio in quei giorni del ’57 (tormentato, furibondo, sfinito, confuso, prepotente…) nientemeno che Nord e Rigodon… “Laissons le passè au Grévin!... “ (“… Ho visto molte cose, ma la Germania in preda a furor nichilista non si dimentica… Dove arrivo io, tutto diventa marcio, suolo e vegetali e bestiame… La mia bussola!... la portavo sempre appesa al collo… non volevo farmi imbrogliare… nord!... nord!... nord1… Oh, come non mi piacciono le stazioni!... ancora adesso, per tutto l’oro del mondo, non mi fareste prendere il metrò, né arrischiarmi in un cinema… E bum! e vrrring!... Davanti a queste rovine… direi quest’oceano d’incendi, questi scrosci di fiamme da un capo all’altro di Hannover… sono io che la sento, proprio nella mia testa, la musica… credo la musica che ci vorrebbe… ma le note?... le note esatte, giuste?...”) E “hi! hi!...” E “hop! hop!...”
Rigodon è un libro straordinario. Verso la fine della guerra, Céline era riuscito ad allestirsi una ragguardevole sciagura privata, giorno per giorno, con accanimento demenziale: basta vedere quali trionfi stilistici sa organizzare nel Voyage au bout de la nuit, trasformando in superbe cataratte di rabbia lutulenta i miseri materiali forniti dalla scadente transizione francese tra gli Anni Venti e Trenta… Ma verso la fine del ’44 gli stanno venendo incontro – troppa grazia – la demenza della Germania e il delirio della Storia, insieme, come un gigantesco spettacolo organizzato apposta per lui: mezzo continente incendiato al fosforo a beneficio dell’incomparabile invenzione verbale del visionario più vilipeso e rinnegato del secolo!
Céline è rapidissimo nel puntare tutto su questa chance apocalittica come una macabra arguzia della Storia Letteraria nella quale (malgrado tutto) passionalmente credeva. Ora i suoi movimenti devono farsi sempre più frenetici; e ogni sua azione oltrepassa ogni dismisura di follia letteraria (a questo punto, oltre all’industriosissima “costruzione della neurosi” di Gadda o di Pound, gli si può paragonare soltanto la follia di Proust, altro autore divorato e ucciso dalla propria opera). Nella primavera del ’45, infatti, dopo mesi improbabili passati in oscuri castelli nazisti, Céline comincia a percorrere forsennatamente le macerie della Germania, sempre in treno, senza mai fermarsi, in tutte le direzioni, tra la frontiera svizzera e le rive baltiche, e dal Baden alla Pomerania…
Naturalmente si tratta di treni-fantasma, fracassati e notturni, che passano senza sportelli tra città che non esistono più, lambiti da fiamme infernali, a distanza di giorni e di settimane, stracarichi di un’umanità allucinante, attraverso voragini buie, crepacci spopolati, bombardamenti incessanti, crolli tra il fumo, puzze spaventevoli, navi e locomotive capovolte in cima alle colline, gallerie intasate di cadaveri a pezzi… E gli scopi di quegli spostamenti sono apertamente dissennati, come la troupe che Céline si porta dietro, o abbandona nel buio fra le esplosioni, o ritrova brancolando sotto tutt’altre bombe: sua mogli Lili che non parla mai; il gatto Bébert in un sacco, molto festeggiato da tutti; lo scadente attore Robert Le Vigan (cioè il Cristo in quel brutto Golgotha di Duvivier che stava infestando i nostri primi cinema parrocchiali); e un vecchio operaio italiano preoccupato soltanto di raggiungere la fabbrica di mattoni del sú padrún, in una Magdeburgo che non esiste più; e una laureata forse dabbene che magari non insegnava francese a Breslavia, però è più tisica della Traviata; e una banda di bambini mongoloidi tutti bave e bolle, mummificati e irrequietissimi come i nani da circo in certi film spaventevoli; e silhouettes di medici e ufficiali e capistazione e suorine che smaniano per un attimo e vengono inghiottite in una notte smisurata…
È curioso che anche Vittorini pensasse in quegli anni a un suo vecchietto sempre in giro in treno fra le rovine d’Italia… E Malaparte e Grass, da parte loro, si sono indubbiamente affaccendati a colpi di Mirabolante e di Sensazionale intorno alla imagerie degli Orrori della Guerra… Ma basta aprire questo Céline rigurgitante fiele e perseguitato dalla musica delle parole per constatare come la realizzazione del suo tremendo progetto non si contenti di competere grandiosamente con le vette e con gli abissi del più sfrenato romanticismo tedesco, e dell’espressionismo più putrefatto… In realtà, sta spingendosi più a monte, verso una tenebrosa antropologia della guerra e della morte, della fame e del freddo, della Germania delle foreste e degli incendi, recuperando l’osceno vitalismo ribaldamente ‘terrestre’ di Grimmelshausen, come un’oscura “struttura portante” attraverso atrocità colossali e incomprensibili che sono il rovescio dell’Europa delle Cattedrali.
Come un Bruegel “delle catastrofi,” Céline recupera la propria Guerra dei Trent’Anni, nello squallore di Meudon, non come “ricordo” ma come “musica verbale,” sovrapponendo e mixando piani e tempi narrativi, nello spasimo stilistico del “mistero delle emozioni e delle parole,” durante un’interminabile agonia scossa da forsennate invettive contro la razza bianca e la varia ignobiltà degli illustri e meschini scrittori francesi che lo vogliono far morire a ogni costo. E per demenziale coincidenza, muore il giorno stesso che termina Rigodon. Ma il vero trionfo di Céline (e della letteratura) è che nessun film di guerra o di orrore riuscirà mai a rappresentare gli orrori della guerra con la terrificante potenza espressiva di questo non-romanzo.
(1970)
Roland Barthes organizzerebbe subito la sua scheda segnaletica: fino alla fine dell’Ottocento lo scrittore non ha quasi mai dubbi, è un piccolo-borghese operoso che fa il suo artigianato nell’ambito di una società non ‘divisa’, descrive un mondo unitario in terza persona, e non sospetta neppure le possibilità di un uso ‘diverso’ del Linguaggio. La Lingua, la Letteratura, lo Stile sono per lui (strumentalmente) tutt’uno. Non conosce ancora le euforie e i narcisismi e le ebbrezza di una scrittura “separata da ogni funzione strumentale,” intensamente visionaria e musicalmente innamorata soltanto dei propri excreta (completerebbe Céline)… Finché l’unità ideologica della borghesia produce una “scrittura unica,” la forma rimane impassibile: come la coscienza. “Ma quando lo scrittore cessa d’essere un testimonio dell’universale per diventare una coscienza infelice, il suo primo gesto è di scegliere l’impegno d’una Forma”… Uno stile? Certamente: ”linguaggio autartico affondato solo nella mitologia personale e segreta dell’autore.” (E la Clarté cessa di presentarsi come un apprezzato ‘valore.’) Si moltiplicano quindi le ‘scritture’: d’accettazione, di contraddizione, di rifiuto… E “nell’opera di Céline, la scrittura non è al servizio del pensiero: rappresenta davvero il tuffo dello scrittore nell’opacità grommosa della condizione che descrive. Senza dubbio si tratta sempre d’una espressione, ma non si va al di là della Letteratura…” (La Forma costa cara, diceva Valéry; e commenta Barthes: “…contrariamente al pensiero, che non costa nulla, e nemmeno si vende, si dona generosamente…” Eppure, una volta… “…la forma costava pressappoco lo stesso prezzo del pensiero, si badava indubbiamente alla sua economia, alla sua eufemia, ma la forma costava poco giacché lo scrittore adoperava uno strumento già formato, i cui meccanismi si trasmettevano intatti senza alcuna ossessione di novità…” Però, “…la funzione sociale della parola letteraria è precisamente di trasformare il pensiero in merce…” …Ma ai tracasseurs du perinée di Céline, tutto questo discorso, non potrebbe suonare interamente applicabile aux basses tripes constamment réchauffées?...)
Come aveva torto Gide quando sentenziava che Céline non raffigura la realtà bensì le allucinazioni che la realtà provoca in lui! La prosa di Céline costantemente ribatte oltraggiando “la maledetta clartè” che continua a rovinare la lingua francese con la pretesa di semplificare e impoverire tutto… privando il linguaggio d’ogni forza espressiva, d’ogni potenza di musica e di colore… prosciugandolo sistematicamente fino a renderlo “funzionale” (cioè impersonale), “trasparente” (ossia inespressivo), e finalmente “secco” (quindi, finalmente, morto)… sopprimendo gli spessori molteplici e proliferanti della realtà e della percezione… riducendo ogni complessità esistenziale a una mera superficie, piatta a ‘leggibile’ come una descrizione notarile… ma intanto l’essenziale rimarrà sempre fuori!...
Céline è un prosatore così impressionante perché la sua strepitosa scrittura di choc balena caparbiamente espressiva a sprazzi stralunati e stravolti, con una tensione gestuale che rasenta l’insostenibile…come per afferrare le allucinazioni folgoranti dell’Irrazionale, e insieme una ribellione fisiologica furibonda… e intanto bucare e bruciare la pagina con una deflagrazione a più dimensioni…
(1966)
---ooo0ooo---
Vecchio, sfinito, confuso, in uno stato d’assoluto abbandono, in un maglione a pezzi, in un villino dilapidato, a Meudon, Céline diceva: “Il francese è una vecchi lingua, asciutta, decrepita, disseccata dagli accademici e dai gesuiti… Tutto ciò che ha preso dalle letterature classiche, lo ha prosciugato a fondo nello sforzo di esprimere chiaramente le idee e i concetti… Ma io mi domando che senso ha questo sforzo raffinato, questo linguaggio ormai secco, ‘giuridico,’ che non riesce a prender dentro né la realtà né la verità… e lascerà sempre fuori le emozioni e i sentimenti… Lo aveva già capito benissimo Goethe, parlando con Madame de Staël dell’esprit francese, che la maledetta clarté ha rovinato tutto, e senza rimedio… Basta pensare ai mistici e ai romantici tedeschi per intendere cos’è quel senso del mistero che i francesi non sono mai più in grado di rendere con la loro lingua… E in vece esiste: è l’essenziale della natura… Soltanto, non si può afferrarlo e riuscire a farlo sentire, con gli strumenti troppo razionalizzati che ci sono rimasti in mano…
“Lo dice bene il biologo Savy (?)… Non è vero niente che in principio era la parola… Macchè, viene prima l’emozione: dagli esseri unicellulari in su… La parola, semmai, viene dopo… per descrivere l’emozione… E per descriverla, a che cosa ci serve quel linguaggio secco, adoperato in maniera disseccata?... A un certo punto, ecco, sono tutti presi da questa mania, e si mettono a scrivere come Voltaire (vedi poi France, vedi poi Bourget…), e si credono tutti tanti Voltaire, i maniaci… Vedi le scuole, vedi i concorsi per le carriere… tutto… E poi basta aprire un giornale qualunque: on fait du chromo… Sulle pubblicazioni per medici che ricevo ancora, guardo le riproduzioni d’arte, che spiegano questo meglio di tutto: il francese vuole riconoscere e riconoscersi, tutto contento di trovare la somiglianza… Il modello che somiglia alla fotografia… e la fotografia che somiglia al modello… Si va avanti così, e tutto è predisposto… Si continua a rifare il liceo, tutto, nei concorsi, nei diplomi, nella carriera… anche quando si tratta di raccontare le viol de la grand’mère da parte dei nipotini sui quotidiani della notte…
“…Imbevuto di miti esclusivi, il francese è asociale, politicamente stupido, tende all’assolutismo in qualsiasi cosa, tende a fare effetto, non importa a quale prezzo, e questo spiega tutte le convenzioni, spiega le gelosie… non che io mi fidi, certamente, non mi sono mai voluto immischiare… e spiega anche fra gli avvenimenti del passato recente, per esempio, la costituzione del ‘trust dei martiri’… esclusivo, anche quello… tutti di una parte sola… Direi che è proprio curioso come in un paese così indiscreto e così bavard, si riesca a mantenere un silenzio più o meno ufficiale su certi fatti, su certe persone… prontissimi tutti a piangere per i poveri ungheresi, a commuoversi per gli eroici polacchi… mai su alcuni francesi… Ma il francese continua a nutrire le proprie illusioni… crede sempre di essere Luigi XIV… e che basti un gesto per imporsi a chiunque… mentre si trova in un paese ridotto all’importanza di un dipartimento… meno ancora… Le sorprese sgradevoli che càpitano, se le merita tutte… Del resto, che cosa m’importa di quello che dicono… le cosiddette generazioni nuove… che sarebbero differenti dalle vecchie… puah!... per quel che m’importa… I soli interessi sono la letteratura, la cucina… La cucina si fa tanto per dire… ma la letteratura…
“… Ah, qui non sarebbe più possibile a un Balzac di descrivere la vita di un medico di campagna, né a un Flaubert di raccontarci i suoi adulteri provinciali… Come deve fare a esistere, oggi, il romanzo documentario di un tempo, quando si trova una massa di documenti dappertutto… ci sono i giornali, le riviste, la radio, e le ragazzine imparano il parto indolore, e a quattordici anni i bambini sanno già tutto, dopo Gide, e meglio di Gide, sull’omosessualità, sul fouet…
“… Il risultato è che tutto è banale, nulla è originale… se non il colorante…
Nel 1941, condannato a morte, in circostanze bizzarre, un essere umano condannato (si può ben dire) dal mondo intero… che è una drôle d’attitude… e come atteggiamento dà una visione del mondo abbastanza deformata… Allora le parole assumono un colore tragico… cioè il colore conveniente… Questa è la cosa che mi interessa!... perché lo stile è questione di colore… e bisogna aver visto!... Non dirò veni vidi vici, dirò piuttosto ho perso!... perché sono stato battuto… però c’ero!... Proust ha descritto il mondo in cui viveva. Io che non sono pederasta e non vado in società, ho detto ciò che ho veduto, senza esagerare niente… semmai limitandomi…
“… perché io sono uno stilista, soltanto questo: il mio problema è che m’importa soltanto lo stile, dunque m’interessa soltanto il colore… Dal romanzo non c’è più niente da aspettarsi… né da imparare… Ormai i contatti umani sono così numerosi e invadenti, che l’insegnamento e l’educazione non hanno più niente in comune con la letteratura… e viceversa… Ma a me interessa soltanto il punto di vista emotivo…
“… Del resto… insomma… l’autore è un fornitore e non un consumatore, non deve giudicare niente. Chi prende una nave desidera svagarsi, mentre io sono giù alle macchine, e lavoro, alle prese con nafta e carbone… ma questo non riguarda il passeggero che ha pagato, e ha il diritto di divertirsi… Sono due mentalità diverse, quella del passeggero e quella del macchinista… Dunque ciascuno stia al proprio posto… Tanto, si troverebbe a disagio, nell’ambiente dell’altro… Il cliente, poi, dev’essere contento: non spetta a me giudicare le altre navi… Tocca a lui… E se non gli piace la mia, ne prenda un’altra… È sempre questione di concorrenza fra compagnie di navigazione… E addirittura, c’è chi preferisce il treno o l’aereo: così la concorrenza diventa ridicola…
“… Ma per scrivere, bisogna esser giovani e aver soldi… Io, vecchio come sono, scrivo senza nessun entusiasmo… Non si fanno più i merletti… Li faceva ancora mia madre… Sono cose che andavano bene quando la vita non aveva un prezzo, ora tutto è finito… Allora, romanzi? Macché, c’è troppa che va in automobile, che vuole arrivare in fretta… Vivono sospesi tra il comunismo e le vendite a rate… senza contare che il comunismo stesso diventa sempre più conforme, fidèle, bourgeois… è inutile marchiarli a fuoco per non lasciarli scappare, come facevano gli antichi… avrete schiavi molto più fedeli per mezzo delle vendite a credito… E ci arriveranno presto anche gli stati comunisti, a questo sistema… Del resto, basta guardare quelli della Renault, qui di fronte: dormono per terra, non mangiano, però hanno tutti la macchina… Anche il papa, ci arriverà: del resto, nel Rinascimento, teneva fior di galere, l’ho letto nelle memorie del capitano Pandéra (?)… Chi gli impedirà di produrre automobili e lavabiancheria? Ogni confessione, un buono per una rata… e le comunioni abbinate ai concorsi a premio… È abbastanza furbo, lo farà, lo farà: del resto ha sempre detto di no alle ideologie che puzzano di razza, di sangue, di conquista della terra… mentre dimostra tanto entusiasmo per la civiltà delle macchine…
“… Cosa deve importare, a questi, del romanzo?... È un impegno che sorpassa le forze attuali: manca il coraggio, la costanza, ci sono i modelli già fatti, lì pronti… Così esiste spesso il ‘piano dell’opera,’ ma poi il romanzo manca… È troppo comodo anche qui applicare la formuletta… adoperare la piccola frase fatta, appresa al liceo… e continuare a rifare il liceo per tutta la vita… tanto, ho l’impressione che gli sforzi e il lavoro si applichino soltanto nelle professioni tecniche, mai in arte… tanto, c’è il cinema… ‘Ah, la rigueur des vieux âges!...’ come diceva il Misantropo di Molière…
“… Ma io sono soltanto uno stilista. Per questo non scrivo romanzi… M’importa solo il colore… il mistero delle emozioni e delle parole… Soltanto questo si dovrebbe vedere nei miei libri…”
(1957)
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…Ah, ma allora Céline stava scrivendo, proprio in quei giorni del ’57 (tormentato, furibondo, sfinito, confuso, prepotente…) nientemeno che Nord e Rigodon… “Laissons le passè au Grévin!... “ (“… Ho visto molte cose, ma la Germania in preda a furor nichilista non si dimentica… Dove arrivo io, tutto diventa marcio, suolo e vegetali e bestiame… La mia bussola!... la portavo sempre appesa al collo… non volevo farmi imbrogliare… nord!... nord!... nord1… Oh, come non mi piacciono le stazioni!... ancora adesso, per tutto l’oro del mondo, non mi fareste prendere il metrò, né arrischiarmi in un cinema… E bum! e vrrring!... Davanti a queste rovine… direi quest’oceano d’incendi, questi scrosci di fiamme da un capo all’altro di Hannover… sono io che la sento, proprio nella mia testa, la musica… credo la musica che ci vorrebbe… ma le note?... le note esatte, giuste?...”) E “hi! hi!...” E “hop! hop!...”
Rigodon è un libro straordinario. Verso la fine della guerra, Céline era riuscito ad allestirsi una ragguardevole sciagura privata, giorno per giorno, con accanimento demenziale: basta vedere quali trionfi stilistici sa organizzare nel Voyage au bout de la nuit, trasformando in superbe cataratte di rabbia lutulenta i miseri materiali forniti dalla scadente transizione francese tra gli Anni Venti e Trenta… Ma verso la fine del ’44 gli stanno venendo incontro – troppa grazia – la demenza della Germania e il delirio della Storia, insieme, come un gigantesco spettacolo organizzato apposta per lui: mezzo continente incendiato al fosforo a beneficio dell’incomparabile invenzione verbale del visionario più vilipeso e rinnegato del secolo!
Céline è rapidissimo nel puntare tutto su questa chance apocalittica come una macabra arguzia della Storia Letteraria nella quale (malgrado tutto) passionalmente credeva. Ora i suoi movimenti devono farsi sempre più frenetici; e ogni sua azione oltrepassa ogni dismisura di follia letteraria (a questo punto, oltre all’industriosissima “costruzione della neurosi” di Gadda o di Pound, gli si può paragonare soltanto la follia di Proust, altro autore divorato e ucciso dalla propria opera). Nella primavera del ’45, infatti, dopo mesi improbabili passati in oscuri castelli nazisti, Céline comincia a percorrere forsennatamente le macerie della Germania, sempre in treno, senza mai fermarsi, in tutte le direzioni, tra la frontiera svizzera e le rive baltiche, e dal Baden alla Pomerania…
Naturalmente si tratta di treni-fantasma, fracassati e notturni, che passano senza sportelli tra città che non esistono più, lambiti da fiamme infernali, a distanza di giorni e di settimane, stracarichi di un’umanità allucinante, attraverso voragini buie, crepacci spopolati, bombardamenti incessanti, crolli tra il fumo, puzze spaventevoli, navi e locomotive capovolte in cima alle colline, gallerie intasate di cadaveri a pezzi… E gli scopi di quegli spostamenti sono apertamente dissennati, come la troupe che Céline si porta dietro, o abbandona nel buio fra le esplosioni, o ritrova brancolando sotto tutt’altre bombe: sua mogli Lili che non parla mai; il gatto Bébert in un sacco, molto festeggiato da tutti; lo scadente attore Robert Le Vigan (cioè il Cristo in quel brutto Golgotha di Duvivier che stava infestando i nostri primi cinema parrocchiali); e un vecchio operaio italiano preoccupato soltanto di raggiungere la fabbrica di mattoni del sú padrún, in una Magdeburgo che non esiste più; e una laureata forse dabbene che magari non insegnava francese a Breslavia, però è più tisica della Traviata; e una banda di bambini mongoloidi tutti bave e bolle, mummificati e irrequietissimi come i nani da circo in certi film spaventevoli; e silhouettes di medici e ufficiali e capistazione e suorine che smaniano per un attimo e vengono inghiottite in una notte smisurata…
È curioso che anche Vittorini pensasse in quegli anni a un suo vecchietto sempre in giro in treno fra le rovine d’Italia… E Malaparte e Grass, da parte loro, si sono indubbiamente affaccendati a colpi di Mirabolante e di Sensazionale intorno alla imagerie degli Orrori della Guerra… Ma basta aprire questo Céline rigurgitante fiele e perseguitato dalla musica delle parole per constatare come la realizzazione del suo tremendo progetto non si contenti di competere grandiosamente con le vette e con gli abissi del più sfrenato romanticismo tedesco, e dell’espressionismo più putrefatto… In realtà, sta spingendosi più a monte, verso una tenebrosa antropologia della guerra e della morte, della fame e del freddo, della Germania delle foreste e degli incendi, recuperando l’osceno vitalismo ribaldamente ‘terrestre’ di Grimmelshausen, come un’oscura “struttura portante” attraverso atrocità colossali e incomprensibili che sono il rovescio dell’Europa delle Cattedrali.
Come un Bruegel “delle catastrofi,” Céline recupera la propria Guerra dei Trent’Anni, nello squallore di Meudon, non come “ricordo” ma come “musica verbale,” sovrapponendo e mixando piani e tempi narrativi, nello spasimo stilistico del “mistero delle emozioni e delle parole,” durante un’interminabile agonia scossa da forsennate invettive contro la razza bianca e la varia ignobiltà degli illustri e meschini scrittori francesi che lo vogliono far morire a ogni costo. E per demenziale coincidenza, muore il giorno stesso che termina Rigodon. Ma il vero trionfo di Céline (e della letteratura) è che nessun film di guerra o di orrore riuscirà mai a rappresentare gli orrori della guerra con la terrificante potenza espressiva di questo non-romanzo.
(1970)