Per un pò navigherò sulla Genova-Tunisi, quindi avrò qualche difficoltà ad aggiornare il blog; se avete comunque articoli, pensieri, domande, contattatemi pure ai soliti recapiti!!!
Ciao a tutti!!!
Andrea
L'opera di Céline in brevi schede bibliografiche, estratti, notizie e interviste.
sabato 31 luglio 2010
domenica 18 luglio 2010
La follia controversa di Louis-Ferdinand Céline, di Paolo Badellino
Questo curioso e interessante articolo è apparso sulla Rivista sperimentale di freniatria (!); i céliniani sono veramente partout!
Céline, la guerra e la morte
Nella storia dei tempi, la vita è soltanto un’ebbrezza, la verità è la morte.
Céline, Semmelweis.
La vecchia Europa piangeva le rovine d’innumerevoli guerre in nome dell’Eguaglianza, si eran mandati allo stesso patibolo il re come il volgo. Con Napoleone, si capì che di morti non ce n’eran stati a sufficienza. Intriso dei precedenti grassi umani, il continente s’incendiò come un pagliaccio di fiera, e per vent’anni nessuno fu più sicuro nel proprio letto. In nome dell’Imperatore, antitesi all’eguaglianza per cui si era morto volentieri prima, la stupidità umana marciò al fischio dei pifferi per ogni viottolo e su ogni filo d’erba. E morì di nuovo. Il che era del resto meglio che il pacifico annoiarsi. Dalle sierre di Spagna al sonnacchioso Don ovunque fu tutto uno spaventevole miserando carnaio. Le croci di Sant’Andrea brillarono di scherno sui pennecchi della Vecchia Guardia. E quei prodi gaglioffi senza dir “bà” si tramutarono in tanti immoti fantocci di neve. Forse sono ancora là... frammisti a quelli dell’epoca che venne dopo... a quelle temperature la vita si decompone un po’ più lentamente. Tutto finì veramente a Waterloo e per un po’ venne detto che di tombe ce n’erano a sufficienza. L’incremento demografico era stato calmierato e per il resto le cose eran rimaste più o meno quelle di prima. Tutto andava bene. Ci si sarebbe fermati lì. Come a non dirlo, il volger della vita di un gatto e scoppiarono nuovi petardi, si rizzarono nuove barricate. A fianco delle vecchie grida generiche “libertà”, “fratellanza”, altre se ne udirono, più nuove: “indipendenza”, “unità”, e maggiorarono l’effetto. Riprese la sarabanda, ci furono altre morti premature e tutto si ricalmò. Come del resto vuole la prassi del mondo, ...la stessa che fece riprender il ritornello subito dopo, e poi ancora, ancora... e sarà sempre così... Ma il secolo correva, ben presto cambiò i cavalli mortali con quelli a vapore, accelerò il ritmo... le barricate sono ormai legna da ardere accanto ai camini, perché le nonnine ci faccian la calzetta per i figli dei sopravissuti... Massimiliano è già stato fucilato, già i prussiani han violato l’arco di trionfo e pure l’Italia s’è fatta... Altre colombe di pace, qua e là, svolazzarono tra le ultime cannonate. Ancora qualche anno e gli schioppi taceranno del tutto, si poseranno sui cappelli delle damine della Belle Epoque. Un altro po’ di tempo, e prenderanno il loro posto gli aeroplani. Ma senza correr troppo, e venendo al sodo, fu dunque sotto buoni auspici, alla fine di un piuttosto turbolento secolo, e nel suo periodo migliore, l’unico di tremolante pace, ritmato dai valzer viennesi, che nacque, in una cinguettante primavera, alle lacrime e al mondo − e senz’altro nel nascere strillò più forte di tutti − in un buio paese sulla via per Parigi, Louis-Ferdinand Destouches, al secolo Céline. Esattamente, il 27 maggio 1894. Dopo di che, la mente di coloro che l’avessero letto non sarebbe più rimasta quella di prima. Il padre, Ferdinand-Auguste Destouches, fatuo incapace con una laurea in lettere inventata, in realtà impiegato all’ultimo gradino di una compagnia di assicurazioni, era sotto tutti i punti di vista persona che al piccolo Louis-Ferdinand mai sarebbe potuta piacere; la madre, Marguerite Louis Céline Guilloux, dall’aspetto dolce e indifeso, e a un tempo energica, tanto da mandare avanti lei con i suoi poveri commerci la baracca familiare, rimase probabilmente, per quanto il futuro scrittore mai lo volesse ammettere, l’unica figura nella sua infanzia da cui ricevette e a cui si sentì di dare affetto. Il suo pseudonimo di battaglia, poi, Céline, non è altro che uno dei tre nomi della madre. È l’unico timido riconoscimento in una vita a cui il mondo intero sembrerà nemico: “Notre vie est un voyage dans l’Hiver et dans la Nuit, Nous cherchons notre passage dans le Ciel où rien ne luit” (Canzone delle Guardie Svizzere: 1793). È, quella citata, l’epigrafe al sua primo grandissimo romanzo, il Voyage au bout de la Nuit, che di punto in bianco lo consacrerà scrittore di genio. Ma lasciamo, tornando alla figura dei genitori, che Céline stesso ce li descriva in Morte a Credito, il suo secondo altrettanto grande libro: “Mai ci sentimmo la pancia veramente piena. Mia madre rimestava le casseruole. Era già in sottoveste per via delle macchie del pastingolo. Si lamentava che non apprezzasse abbastanza, il suo Auguste, la sua buona volontà, le sue difficoltà del commercio... Lui ruminava la sua scalogna su un angolo della tela incerata... ogni tanto dava segno di voler sbottare ... Lei cercava di fargli animo, sempre e comunque. Ma l’ira esplodeva in lui senza ritegno nel preciso istante in cui lei tirava il lume a sospensione, il bel globo giallo ad asta dentata: Clémence! Ma via! Perdio! Vuoi incendiar la casa? Quante volte te l’ho detto di prenderlo con tutte e due le mani?. Lanciava urli spaventosi, pareva gli dovesse scoppiar la lingua tant’era indignato. Nel gran trasporto arrivava a farsi di carminio, gonfiava tutte le penne, i suoi occhi roteavano come quelli di un drago. Era atroce guardarlo. Ci prendeva una fifa matta a me a mia madre. Finché lui spaccava un piatto e ce n’andavamo a dormire ... Voltati verso il muro! porcaccioncello! Non ti girare!. E chi n’aveva voglia ... sapeva tutto ... Mi vergognavo ... Eran le gambe di mamma, quella piccina e la grossa ... Zoppicava ancora un po’ da una stanza all’altra ... Lui cercava di attaccar briga ... La mamma insisteva per finger di rigovernare ... Accennava un motivetto per render più allegra la seduta ... E il sole dai buchi del tetto veniva a trovarci a letto...”. Se questi eran tra i primi ricordi d’infanzia di Céline, l’amore istintivo che tutti portiamo alla vita non poteva non essere deluso. È, del resto, la grande delusione che tutti proviamo attraverso la presa di coscienza dell’adolescenza. C’è chi la supera e chi no, tutto qui ... Per l’intera vita si scontrò con le brutture del mondo senza mai riuscire ad accettare in pieno l’orrore dell’inganno rispetto alla primitiva illusione infantile. C’è uno stadio, secondo Freud, in cui il bambino varcherebbe i continenti con gli stivali delle sette leghe, farebbe piroettare i mondi su un dito: da questo senso di onnipotenza alcuni individui non passerebbero mai a dimensioni più reali e questo fatto potrebbe in loro essere causa di situazioni psichiche patologiche. Ce ne sono altri invece, a cui gli occhi si aprono troppo, al punto che rimangono schiacciati dall’atrocità assurda della realtà. Céline, indubbiamente, fu uno di questi. Tutte le sue invettive non sono altro che l’urlo del disinganno e al tempo stesso una disperata dichiarazione d’amore alla vita quale la vagheggiò un tempo − quella sognata nella prima infanzia, colma di luci e colori, che avremmo voluto anche noi ... di cui poco ci parla, ma che non fatichiamo ad intuire. E tutte le “allucinazioni”, tutti i “deliri“ che ne vennero, sempre meno controllati con il passar degli anni, sono quelli che detta la stessa realtà a un animo sensibile affamato d’assoluto ... a un adolescente eterno sempre più solo e offeso... − chi disse un tempo, paradossalmente Céline un San Francesco che al Credo aveva sostituito la Denuncia, non era molto discosto dalla realtà. Le sue illusioni si consumarono già alla fine dell’infanzia, lasciando soltanto le ferite a bruciare. La morte e la sozzura fecero il loro ingresso a vessilli spiegati nel momento stesso in cui nacque la coscienza della loro esistenza. Le illusioni caddero ed i frammenti andavano rimossi perché non sarebbero serviti ad altro che a soffrire di più. Ma il processo fu sempre ben lungi dall’essere compiuto e l’offesa rimase sempre presente... In più, quando le faccende della comune vita sono particolarmente tristi, è piuttosto facile sognare. È una forma di lenimento che la natura ha dato all’uomo per rendergli meno truci i primi anni. Quanto più le cose sono effettivamente tristi, tanto più la fantasia si apre a spiagge e foreste sconosciute. I castelli si alzan così forti nella fiaba sognata, da cacciar con le guglie più alte perfino la morte. E al Passage, di realtà belle ce n’erano poche. Il piccolo commercio di passamaneria della madre a Courbevoie era fallito e i Destouches vi ci si eran malgrado loro dovuti trasferire, al passage Choiseul, a Parigi, quartiere squallido più che semplicemente popolare, in cui l’aria stessa era una cappa troppo pesante e dove su tutto regnava l’essenza di una vita domestica misera: “Infanzia al Passage! Anni squallidi più che miserabili...” “Ricordo il Passage Choiseul come l’immancabile bollitura della pasta” (Céline, Morte a Credito). Da un biografo lo scrittore, ormai morto e famoso, così venne descritto nel passaggio dalla tarda infanzia all’adolescenza: “Ormai non era più bambino ed entrava dolcemente (sic!) nell’adolescenza. Spaccone, briccone, ficcanaso e curioso, guardava la vita come si assiste a uno spettacolo, attirato più dal lato paradossale, ridicolo o burlesco delle cose. Fisicamente era un bel ragazzone dai grandi occhi azzurri, un irresistibile sorriso che sapeva usare, un riso che partiva come un colpo di fucile. Turbolento e impulsivo, somigliava a quei figli unici che crescono in fretta per sfuggire all’asfissia di una cellula familiare troppo angusta” (Gibault). Quel che il biografo troppo ottimista non seppe rilevare fu che Céline, dei figli unici, abituati più degli altri a considerarsi il centro dell’Universo, conserverà il disperato egoncentrico narcisismo, il trionfo dell’Io che si isolerà sempre più nel suo non dialogo con l’esterno e la sua inevitabile rovina. 1914 ... si è spento l’ultimo giro di valzer ... Altro che colombine della pace ... alla prima salva son volate via, insieme ai cappelli ... Tuonano i cannoni d’agosto − è la storia, che dopo la farsa si è rimessa a far sul serio. Che fa Céline all’ospedale ausiliario di campo n. 6? Ma senza correre, − ci sono altri anni di mezzo, piuttosto lerci, privi in fondo di grandi cose, che invano cercherà poi di colorare ... Nella vita, le guglie dei castelli di Fantasia, altro che la morte, non caccian manco la piuma dell’ultimo spelacchiato passero ... Lo troviamo il nostro Céline, appena fuor di adolescenza, in Germania a imparare il tedesco, quindi a Rochester perché facesse lo stesso con quel po’ d’inglese che gli sarebbe servito per i commerci ... a tale augusta carriera i suoi volevano infatti avviarlo − siamo nel 1907-1909 ... ed eccolo di nuovo a Parigi, fattorino per l’appunto, ... lo stesso quindi a Nizza − dove, a sentirlo, si sarebbe fatto fare un autografo da Francesco Giuseppe. Ma ricordiamoci che Céline, in mezzo a tante verità universali che ha illustrato come nessun altro, di se stesso ha spesso narrato spacconate e falsità. Dopo quanto riassunto lo troviamo a Parigi, Baccalaureat da privatista, quindi corazziere nel dodicesimo reggimento, caserma di Rambouillet. Il fisico di ruolo c’era, la tempra forse, un po’ meno. Siamo nel 1913. Si spiega come un anno dopo lo si ritrovi su di un lettuccio d’ospedale, medaglia d’oro del “Gran Quartier Generale delle Armate dell’Est”, per, motivazione ufficiale, “in collegamento fra un reggimento di fanteria e la sua brigata, essersi offerto spontaneamente di portare sotto un fuoco violento un ordine che gli agenti di collegamento della fanteria esitavano a trasmettere. Ha portato quest’ordine ed è rimasto gravemente ferito nell’azione”. Molto abilmente, soprattutto per le donne, la ferita al braccio che effettivamente ricevette diventerà nei suoi romanzi una ferita alla testa. Trapanazione del cranio. Addirittura con placca di metallo. E la nuova mansione che gli daranno poi, non più abile al fronte, di addetto ai passaporti al Consolato generale di Londra, diventerà lavoro per il controspionaggio. Ne avrebbe approfittato per conoscere Mata Hari. Le solite continue, patetiche menzogne con cui cercherà di attribuirsi un esistenza unica, di nobilitarla per quanto possibile, in contrasto strano con il fango grottesco di cui si divertirà sempre allo stesso tempo a ricoprirsi. Esalterà fasulle origini nobiliari da una parte, dall’altra si descriverà come trippe e vomiti al vento. Si dirà nato per fare il dittatore e dirà sempre in balia dei propri impulsi, e ancor più del caso e delle altrui decisioni. In parte un gioco, filtrato dal suo spirito tragico e mirabolante, ma i cui confini sfumano nel delirio di potenza del paranoico, per poi rasentare subito dopo quello di rovina del maniaco depressivo. Lo salva fin qui, dalla diagnosi di folle, la lucidissima ironica coscienza con cui quando la corda sta per spezzarsi butta tutto sul ridere, giusto per darsi una scrollatina e riprender la via, fino al centro della notte e oltre, per conoscerla almeno la propria rovina, visto che è il massimo che si può fare ... E se pure l’ironia, lo spirito del grottesco non ci fossero, egualmente bisognerebbe rilevare come Céline in fondo adotti il linguaggio catastrofico del delirante senza adottarne i contenuti. Il delirio, per essere effettivamente tale, deve avere almeno due caratteristiche da cui non si può prescindere: 1) essere di importanza centrale nella visione del mondo del delirante; 2) al medesimo tempo deve essere inaccettabile dal buon senso comune giustificato secondo la cerchia sociale del delirante. Ora, se è pur vero che i soliloqui così simili a quelli del pazzo di Céline hanno parte di assoluta rilevanza nella sua personalità, lo è altrettanto che vanno al centro della visione della vita che più o meno si forma chiunque al problema abbia dedicato un po’ di tempo. Naturalmente Céline va anche oltre, è il re dell’eccesso, ma sempre nel senso di illustrare meglio, con più lucidità e drammaticità, l’assurdo e l’orrore della vita come sono sentiti da molti, nel nostro tempo più che in altri. Basterebbe questo per prosciogliere Céline dall’accusa di paranoia. E se ci si potesse fermare alla visione fondamentale della vita, se non ci fossero i cosiddetti libri dell’infamia, i libelli antisemiti, a causa dei quali, quando non si potesse darne una chiave interpretativa, meglio per lui sarebbe esser considerato pazzo piuttosto che mostro, il discorso sarebbe definitivamente chiuso. Raccogliendo di nuovo i fili del discorso, Céline, con la lucidità del genio o la brutalità del folle che si voglia, ha illustrato come nessun altro la nostra condizione di sacchetti labili di aminoacidi vaganti o, per dirla con sue parole, di “putrefazione in sospeso”, e via via più calcando la mano quanto più si avvicinava la sua di morte, senza secondo me che venisse mai meno la lucidità di fondo. Infatti, se la sua estrema lucidità lo portò a sofferenze anche atroci, egualmente non finì a farneticare chiuso in una torre come Holderlin, né mai si sognò di seminare sassolini affinché diventassero tanti piccoli Maupassant. Questo potrebbe non voler dire niente; di folli, probabilmente, ce ne sono più liberi che in gabbia. Specialmente i più pericolosi. In ogni caso ha un ulteriore senso occuparsi in un lavoro di psichiatria di Céline, in quanto, oltre a gettar luce sulle indubbie molte particolarità, si ha a disposizione anche il pretesto per indagare tra le righe le affascinanti tematiche della follia e del genio, spesso confuse tra di loro e pure così dissimili. Alla base probabilmente un’eccessiva sensibilità, la sofferenza come conseguenza a questa, la follia e il genio entrambe una differente risposta a questa sofferenza, ma in senso diametralmente opposto: un tentativo di non soffrire più la realtà esterna, resa insopportabile dalla basilare ipersensibilità la follia, cadendo però in una condizione ancora più tragica; una risposta creativa invece, vitale, il genio. Nel primo caso la mente che non ha retto alla sofferenza, nell’altro, una piena accettazione della medesima che l’indagare sul filo dell’eccezione comporta. A Céline, credo, toccò questa seconda via. La morte, con cui Céline venne a contatto in quell’immane carneficina che fu il primo conflitto mondiale, per tutta la sua esistenza non dovette più abbandonarlo. Ci sono uomini, come i poeti, i soldati, i medici, i viandanti, che riescono, con la morte, a conviverci, stipulando quasi un patto di reciproca tolleranza. Ed è questa la loro unica speranza di sopravvivenza senza cedere alla follia, perché la morte la incontrano ad ogni angolo. Céline, che fu tutte e quattro queste cose, dovette alla fine sognarsela di giorno e di notte. Dovette allora venire a patti: l’avrebbe illustrata in maniera orribile e precisa. In cambio, questa non avrebbe più cessato di tormentarlo. “Si può essere vergini di orrore come lo si è di piacere. Ma come avrei potuto immaginarmi un orrore simile lasciando la Place Clichy? Chi avrebbe mai immaginato, prima di andare in guerra, tutto ciò che conteneva la sudicia anima eroica e pigra degli uomini? Ora ero preso in quella cosa immensa, verso il delitto in comune, verso il fuoco” (Céline, Voyage au Bout de la Nuit). “Le morti più prelibate, lo tenga bene in mente, Ferdinand, sono quelle che ci colgono nei tessuti più sensibili ... Parlava prezioso, ricercato, fine Metitpois, come tutti gli uomini degli anni di Charcot. Non gli è servito a molto il compiere ricerche sulla rolandica, la terza, il nodo grigio ... È morto di cuore, finalmente, ma in condizioni niente affatto toghe ... Un bel coccolone per angina di petto, una crisi durata venti minuti. Resistette bene per centoventi secondi con tutte le sue reminiscenze classiche, la sua energia, l’esempio di Cesare ... Ma per diciotto minuti ha urlato come un’aquila ... che gli stavan strappando il diaframma, tutte le trippe ancor vive ... Che gl’infilavano diecimila coltelli aperti nell’aorta, ... tentava di vomitarceli addosso ... Non son balle. Si strisciava per terra nella stanza ... si sfondava il petto ... ruggiva sul tappeto ... nonostante la morfina. Era un rimbombo da un piano all’altro fin davanti a casa sua ... Finì sotto il pianoforte. Le arteriuzze del miocardio, quando scoppiano una dietro l’altra, sono un’arpa mica delle solite ... È un peccato che nessuno si salvi dalla angina di petto. Ci si guadagnerebbe in saggezza e genio tutti quanti” (Céline, Mort a Credit) “Nei due padiglioni, la febbre per un istante minacciata trionfa ... Impunemente uccide, come vuole, dove vuole, quando vuole ... A Vienna ... 28% in novembre ... 40% in gennaio ... il cerchio si allarga intorno al mondo. La morte conduce la danza ... intorno campanelle ... A Parigi da Dubois 18% ... 26% da Schuld a Berlino ... Da Simpson 22% ... a Torino, su 100 puerpere, ne muoiono 32” (Céline, Semmelweis). La medesima morte suggerì alle parche come dovessero reggergli i fili della vita. Per tormentarlo meglio, lo indussero a scegliersi ad un certo punto la professione di medico. Scampato alla guerra, rabberciato il braccio, dopo una parentesi Rimbaudiana in Africa, sorvegliante in una piantagione, ed una volta rientrato in Francia un matrimonio con Edith Follet, figlia di un medico, lo troviamo prima a Rennes e poi a Parigi, studente alla Facoltà di Medicina, scienze in cui si laureerà il primo maggio 1924, a trent’anni. La tesi, La vie et l’oeuvre de Philippe Ignace Semmelweis, un volumetto di poche pagine in cui non è difficile trovare le ossessioni che gli perseguiteranno l’esistenza fino a rasentare la follia: La morte appunto, a cui non fu certo estranea la scelta degli studi medici: “Un ammirazione enorme per i medici. Ah, mi sembrano straordinari, loro. È la medicina che mi appassionava. Mi sembrava un tipo miracoloso, che guariva, che faceva cose incredibili con i corpi. Lo consideravo un mago, assolutamente” (Céline, Colloqui con il professor Y). E poi la solitudine, che di Semmelweis come di Céline riempirà la vita; l’ebreo, in Semmelweis già presente sotto altra veste; la paura; la lotta e la follia degli uomini. Tutti i suoi anni a venire danzeranno, inciamperanno intorno a questi temi fondamentali. Il resto della sua vita sarà pura cronaca su binari ormai prefissati. Al Céline trentenne, uomo inquieto e medico nella banlieue parigina, le cose importanti sono già tutte accadute. Quanto gli capiterà poi, le sue scelte e il suo destino, non saranno dunque altro che conseguenza dei meccanismi mentali, dei pensieri dominanti che in lui si erano formati. In anni in cui lo strapotere dei sogni infantili sarà di fatto in mano a pazzi particolarmente pericolosi, non gli resterà − come in altri tempi a Foscolo − che l’effimero potere delle lettere. Ne farà un uso dirompente. La medicina, in omaggio all’ossessione numero uno, continuerà ad esercitarla per tutta la vita. Fantoccesca e ridicola, povera di potere che gli apparve, rimase tuttavia l’unica parvenza di baluardo contro la morte. Il vagabondare inquieto, il romanzo, le lunghe gambe delle ballerine, saranno egualmente tentativi falliti in tal senso. La vita di Céline passò. La sua opera, soltanto ora, sta assurgendo alla fama che merita, in blocco. Per i detrattori negli ultimi anni la sua ragione si affievolì, ma non tanto − si può aggiungere − da non permettergli di dedicare l’ultimo suo libro, Rigodon, “Aux Animaux”, un ultimo esempio di come avesse capito a fondo gli uomini. Morì la sera stessa in cui l’ultimò. Evidentemente la morte non resse a quest’ultimo spogliarello a cui fu costretta e diede ordine alle parche di ucciderlo, di tagliare il filo. La diagnosi, un colpo apoplettico. Innocente coperto di fango, lo seppellirono pochi amici e l’ultima moglie nel cimitero di Meudon, sotto una pioggia fine, il primo luglio 1961.
Céline, la guerra e la morte
Nella storia dei tempi, la vita è soltanto un’ebbrezza, la verità è la morte.
Céline, Semmelweis.
La vecchia Europa piangeva le rovine d’innumerevoli guerre in nome dell’Eguaglianza, si eran mandati allo stesso patibolo il re come il volgo. Con Napoleone, si capì che di morti non ce n’eran stati a sufficienza. Intriso dei precedenti grassi umani, il continente s’incendiò come un pagliaccio di fiera, e per vent’anni nessuno fu più sicuro nel proprio letto. In nome dell’Imperatore, antitesi all’eguaglianza per cui si era morto volentieri prima, la stupidità umana marciò al fischio dei pifferi per ogni viottolo e su ogni filo d’erba. E morì di nuovo. Il che era del resto meglio che il pacifico annoiarsi. Dalle sierre di Spagna al sonnacchioso Don ovunque fu tutto uno spaventevole miserando carnaio. Le croci di Sant’Andrea brillarono di scherno sui pennecchi della Vecchia Guardia. E quei prodi gaglioffi senza dir “bà” si tramutarono in tanti immoti fantocci di neve. Forse sono ancora là... frammisti a quelli dell’epoca che venne dopo... a quelle temperature la vita si decompone un po’ più lentamente. Tutto finì veramente a Waterloo e per un po’ venne detto che di tombe ce n’erano a sufficienza. L’incremento demografico era stato calmierato e per il resto le cose eran rimaste più o meno quelle di prima. Tutto andava bene. Ci si sarebbe fermati lì. Come a non dirlo, il volger della vita di un gatto e scoppiarono nuovi petardi, si rizzarono nuove barricate. A fianco delle vecchie grida generiche “libertà”, “fratellanza”, altre se ne udirono, più nuove: “indipendenza”, “unità”, e maggiorarono l’effetto. Riprese la sarabanda, ci furono altre morti premature e tutto si ricalmò. Come del resto vuole la prassi del mondo, ...la stessa che fece riprender il ritornello subito dopo, e poi ancora, ancora... e sarà sempre così... Ma il secolo correva, ben presto cambiò i cavalli mortali con quelli a vapore, accelerò il ritmo... le barricate sono ormai legna da ardere accanto ai camini, perché le nonnine ci faccian la calzetta per i figli dei sopravissuti... Massimiliano è già stato fucilato, già i prussiani han violato l’arco di trionfo e pure l’Italia s’è fatta... Altre colombe di pace, qua e là, svolazzarono tra le ultime cannonate. Ancora qualche anno e gli schioppi taceranno del tutto, si poseranno sui cappelli delle damine della Belle Epoque. Un altro po’ di tempo, e prenderanno il loro posto gli aeroplani. Ma senza correr troppo, e venendo al sodo, fu dunque sotto buoni auspici, alla fine di un piuttosto turbolento secolo, e nel suo periodo migliore, l’unico di tremolante pace, ritmato dai valzer viennesi, che nacque, in una cinguettante primavera, alle lacrime e al mondo − e senz’altro nel nascere strillò più forte di tutti − in un buio paese sulla via per Parigi, Louis-Ferdinand Destouches, al secolo Céline. Esattamente, il 27 maggio 1894. Dopo di che, la mente di coloro che l’avessero letto non sarebbe più rimasta quella di prima. Il padre, Ferdinand-Auguste Destouches, fatuo incapace con una laurea in lettere inventata, in realtà impiegato all’ultimo gradino di una compagnia di assicurazioni, era sotto tutti i punti di vista persona che al piccolo Louis-Ferdinand mai sarebbe potuta piacere; la madre, Marguerite Louis Céline Guilloux, dall’aspetto dolce e indifeso, e a un tempo energica, tanto da mandare avanti lei con i suoi poveri commerci la baracca familiare, rimase probabilmente, per quanto il futuro scrittore mai lo volesse ammettere, l’unica figura nella sua infanzia da cui ricevette e a cui si sentì di dare affetto. Il suo pseudonimo di battaglia, poi, Céline, non è altro che uno dei tre nomi della madre. È l’unico timido riconoscimento in una vita a cui il mondo intero sembrerà nemico: “Notre vie est un voyage dans l’Hiver et dans la Nuit, Nous cherchons notre passage dans le Ciel où rien ne luit” (Canzone delle Guardie Svizzere: 1793). È, quella citata, l’epigrafe al sua primo grandissimo romanzo, il Voyage au bout de la Nuit, che di punto in bianco lo consacrerà scrittore di genio. Ma lasciamo, tornando alla figura dei genitori, che Céline stesso ce li descriva in Morte a Credito, il suo secondo altrettanto grande libro: “Mai ci sentimmo la pancia veramente piena. Mia madre rimestava le casseruole. Era già in sottoveste per via delle macchie del pastingolo. Si lamentava che non apprezzasse abbastanza, il suo Auguste, la sua buona volontà, le sue difficoltà del commercio... Lui ruminava la sua scalogna su un angolo della tela incerata... ogni tanto dava segno di voler sbottare ... Lei cercava di fargli animo, sempre e comunque. Ma l’ira esplodeva in lui senza ritegno nel preciso istante in cui lei tirava il lume a sospensione, il bel globo giallo ad asta dentata: Clémence! Ma via! Perdio! Vuoi incendiar la casa? Quante volte te l’ho detto di prenderlo con tutte e due le mani?. Lanciava urli spaventosi, pareva gli dovesse scoppiar la lingua tant’era indignato. Nel gran trasporto arrivava a farsi di carminio, gonfiava tutte le penne, i suoi occhi roteavano come quelli di un drago. Era atroce guardarlo. Ci prendeva una fifa matta a me a mia madre. Finché lui spaccava un piatto e ce n’andavamo a dormire ... Voltati verso il muro! porcaccioncello! Non ti girare!. E chi n’aveva voglia ... sapeva tutto ... Mi vergognavo ... Eran le gambe di mamma, quella piccina e la grossa ... Zoppicava ancora un po’ da una stanza all’altra ... Lui cercava di attaccar briga ... La mamma insisteva per finger di rigovernare ... Accennava un motivetto per render più allegra la seduta ... E il sole dai buchi del tetto veniva a trovarci a letto...”. Se questi eran tra i primi ricordi d’infanzia di Céline, l’amore istintivo che tutti portiamo alla vita non poteva non essere deluso. È, del resto, la grande delusione che tutti proviamo attraverso la presa di coscienza dell’adolescenza. C’è chi la supera e chi no, tutto qui ... Per l’intera vita si scontrò con le brutture del mondo senza mai riuscire ad accettare in pieno l’orrore dell’inganno rispetto alla primitiva illusione infantile. C’è uno stadio, secondo Freud, in cui il bambino varcherebbe i continenti con gli stivali delle sette leghe, farebbe piroettare i mondi su un dito: da questo senso di onnipotenza alcuni individui non passerebbero mai a dimensioni più reali e questo fatto potrebbe in loro essere causa di situazioni psichiche patologiche. Ce ne sono altri invece, a cui gli occhi si aprono troppo, al punto che rimangono schiacciati dall’atrocità assurda della realtà. Céline, indubbiamente, fu uno di questi. Tutte le sue invettive non sono altro che l’urlo del disinganno e al tempo stesso una disperata dichiarazione d’amore alla vita quale la vagheggiò un tempo − quella sognata nella prima infanzia, colma di luci e colori, che avremmo voluto anche noi ... di cui poco ci parla, ma che non fatichiamo ad intuire. E tutte le “allucinazioni”, tutti i “deliri“ che ne vennero, sempre meno controllati con il passar degli anni, sono quelli che detta la stessa realtà a un animo sensibile affamato d’assoluto ... a un adolescente eterno sempre più solo e offeso... − chi disse un tempo, paradossalmente Céline un San Francesco che al Credo aveva sostituito la Denuncia, non era molto discosto dalla realtà. Le sue illusioni si consumarono già alla fine dell’infanzia, lasciando soltanto le ferite a bruciare. La morte e la sozzura fecero il loro ingresso a vessilli spiegati nel momento stesso in cui nacque la coscienza della loro esistenza. Le illusioni caddero ed i frammenti andavano rimossi perché non sarebbero serviti ad altro che a soffrire di più. Ma il processo fu sempre ben lungi dall’essere compiuto e l’offesa rimase sempre presente... In più, quando le faccende della comune vita sono particolarmente tristi, è piuttosto facile sognare. È una forma di lenimento che la natura ha dato all’uomo per rendergli meno truci i primi anni. Quanto più le cose sono effettivamente tristi, tanto più la fantasia si apre a spiagge e foreste sconosciute. I castelli si alzan così forti nella fiaba sognata, da cacciar con le guglie più alte perfino la morte. E al Passage, di realtà belle ce n’erano poche. Il piccolo commercio di passamaneria della madre a Courbevoie era fallito e i Destouches vi ci si eran malgrado loro dovuti trasferire, al passage Choiseul, a Parigi, quartiere squallido più che semplicemente popolare, in cui l’aria stessa era una cappa troppo pesante e dove su tutto regnava l’essenza di una vita domestica misera: “Infanzia al Passage! Anni squallidi più che miserabili...” “Ricordo il Passage Choiseul come l’immancabile bollitura della pasta” (Céline, Morte a Credito). Da un biografo lo scrittore, ormai morto e famoso, così venne descritto nel passaggio dalla tarda infanzia all’adolescenza: “Ormai non era più bambino ed entrava dolcemente (sic!) nell’adolescenza. Spaccone, briccone, ficcanaso e curioso, guardava la vita come si assiste a uno spettacolo, attirato più dal lato paradossale, ridicolo o burlesco delle cose. Fisicamente era un bel ragazzone dai grandi occhi azzurri, un irresistibile sorriso che sapeva usare, un riso che partiva come un colpo di fucile. Turbolento e impulsivo, somigliava a quei figli unici che crescono in fretta per sfuggire all’asfissia di una cellula familiare troppo angusta” (Gibault). Quel che il biografo troppo ottimista non seppe rilevare fu che Céline, dei figli unici, abituati più degli altri a considerarsi il centro dell’Universo, conserverà il disperato egoncentrico narcisismo, il trionfo dell’Io che si isolerà sempre più nel suo non dialogo con l’esterno e la sua inevitabile rovina. 1914 ... si è spento l’ultimo giro di valzer ... Altro che colombine della pace ... alla prima salva son volate via, insieme ai cappelli ... Tuonano i cannoni d’agosto − è la storia, che dopo la farsa si è rimessa a far sul serio. Che fa Céline all’ospedale ausiliario di campo n. 6? Ma senza correre, − ci sono altri anni di mezzo, piuttosto lerci, privi in fondo di grandi cose, che invano cercherà poi di colorare ... Nella vita, le guglie dei castelli di Fantasia, altro che la morte, non caccian manco la piuma dell’ultimo spelacchiato passero ... Lo troviamo il nostro Céline, appena fuor di adolescenza, in Germania a imparare il tedesco, quindi a Rochester perché facesse lo stesso con quel po’ d’inglese che gli sarebbe servito per i commerci ... a tale augusta carriera i suoi volevano infatti avviarlo − siamo nel 1907-1909 ... ed eccolo di nuovo a Parigi, fattorino per l’appunto, ... lo stesso quindi a Nizza − dove, a sentirlo, si sarebbe fatto fare un autografo da Francesco Giuseppe. Ma ricordiamoci che Céline, in mezzo a tante verità universali che ha illustrato come nessun altro, di se stesso ha spesso narrato spacconate e falsità. Dopo quanto riassunto lo troviamo a Parigi, Baccalaureat da privatista, quindi corazziere nel dodicesimo reggimento, caserma di Rambouillet. Il fisico di ruolo c’era, la tempra forse, un po’ meno. Siamo nel 1913. Si spiega come un anno dopo lo si ritrovi su di un lettuccio d’ospedale, medaglia d’oro del “Gran Quartier Generale delle Armate dell’Est”, per, motivazione ufficiale, “in collegamento fra un reggimento di fanteria e la sua brigata, essersi offerto spontaneamente di portare sotto un fuoco violento un ordine che gli agenti di collegamento della fanteria esitavano a trasmettere. Ha portato quest’ordine ed è rimasto gravemente ferito nell’azione”. Molto abilmente, soprattutto per le donne, la ferita al braccio che effettivamente ricevette diventerà nei suoi romanzi una ferita alla testa. Trapanazione del cranio. Addirittura con placca di metallo. E la nuova mansione che gli daranno poi, non più abile al fronte, di addetto ai passaporti al Consolato generale di Londra, diventerà lavoro per il controspionaggio. Ne avrebbe approfittato per conoscere Mata Hari. Le solite continue, patetiche menzogne con cui cercherà di attribuirsi un esistenza unica, di nobilitarla per quanto possibile, in contrasto strano con il fango grottesco di cui si divertirà sempre allo stesso tempo a ricoprirsi. Esalterà fasulle origini nobiliari da una parte, dall’altra si descriverà come trippe e vomiti al vento. Si dirà nato per fare il dittatore e dirà sempre in balia dei propri impulsi, e ancor più del caso e delle altrui decisioni. In parte un gioco, filtrato dal suo spirito tragico e mirabolante, ma i cui confini sfumano nel delirio di potenza del paranoico, per poi rasentare subito dopo quello di rovina del maniaco depressivo. Lo salva fin qui, dalla diagnosi di folle, la lucidissima ironica coscienza con cui quando la corda sta per spezzarsi butta tutto sul ridere, giusto per darsi una scrollatina e riprender la via, fino al centro della notte e oltre, per conoscerla almeno la propria rovina, visto che è il massimo che si può fare ... E se pure l’ironia, lo spirito del grottesco non ci fossero, egualmente bisognerebbe rilevare come Céline in fondo adotti il linguaggio catastrofico del delirante senza adottarne i contenuti. Il delirio, per essere effettivamente tale, deve avere almeno due caratteristiche da cui non si può prescindere: 1) essere di importanza centrale nella visione del mondo del delirante; 2) al medesimo tempo deve essere inaccettabile dal buon senso comune giustificato secondo la cerchia sociale del delirante. Ora, se è pur vero che i soliloqui così simili a quelli del pazzo di Céline hanno parte di assoluta rilevanza nella sua personalità, lo è altrettanto che vanno al centro della visione della vita che più o meno si forma chiunque al problema abbia dedicato un po’ di tempo. Naturalmente Céline va anche oltre, è il re dell’eccesso, ma sempre nel senso di illustrare meglio, con più lucidità e drammaticità, l’assurdo e l’orrore della vita come sono sentiti da molti, nel nostro tempo più che in altri. Basterebbe questo per prosciogliere Céline dall’accusa di paranoia. E se ci si potesse fermare alla visione fondamentale della vita, se non ci fossero i cosiddetti libri dell’infamia, i libelli antisemiti, a causa dei quali, quando non si potesse darne una chiave interpretativa, meglio per lui sarebbe esser considerato pazzo piuttosto che mostro, il discorso sarebbe definitivamente chiuso. Raccogliendo di nuovo i fili del discorso, Céline, con la lucidità del genio o la brutalità del folle che si voglia, ha illustrato come nessun altro la nostra condizione di sacchetti labili di aminoacidi vaganti o, per dirla con sue parole, di “putrefazione in sospeso”, e via via più calcando la mano quanto più si avvicinava la sua di morte, senza secondo me che venisse mai meno la lucidità di fondo. Infatti, se la sua estrema lucidità lo portò a sofferenze anche atroci, egualmente non finì a farneticare chiuso in una torre come Holderlin, né mai si sognò di seminare sassolini affinché diventassero tanti piccoli Maupassant. Questo potrebbe non voler dire niente; di folli, probabilmente, ce ne sono più liberi che in gabbia. Specialmente i più pericolosi. In ogni caso ha un ulteriore senso occuparsi in un lavoro di psichiatria di Céline, in quanto, oltre a gettar luce sulle indubbie molte particolarità, si ha a disposizione anche il pretesto per indagare tra le righe le affascinanti tematiche della follia e del genio, spesso confuse tra di loro e pure così dissimili. Alla base probabilmente un’eccessiva sensibilità, la sofferenza come conseguenza a questa, la follia e il genio entrambe una differente risposta a questa sofferenza, ma in senso diametralmente opposto: un tentativo di non soffrire più la realtà esterna, resa insopportabile dalla basilare ipersensibilità la follia, cadendo però in una condizione ancora più tragica; una risposta creativa invece, vitale, il genio. Nel primo caso la mente che non ha retto alla sofferenza, nell’altro, una piena accettazione della medesima che l’indagare sul filo dell’eccezione comporta. A Céline, credo, toccò questa seconda via. La morte, con cui Céline venne a contatto in quell’immane carneficina che fu il primo conflitto mondiale, per tutta la sua esistenza non dovette più abbandonarlo. Ci sono uomini, come i poeti, i soldati, i medici, i viandanti, che riescono, con la morte, a conviverci, stipulando quasi un patto di reciproca tolleranza. Ed è questa la loro unica speranza di sopravvivenza senza cedere alla follia, perché la morte la incontrano ad ogni angolo. Céline, che fu tutte e quattro queste cose, dovette alla fine sognarsela di giorno e di notte. Dovette allora venire a patti: l’avrebbe illustrata in maniera orribile e precisa. In cambio, questa non avrebbe più cessato di tormentarlo. “Si può essere vergini di orrore come lo si è di piacere. Ma come avrei potuto immaginarmi un orrore simile lasciando la Place Clichy? Chi avrebbe mai immaginato, prima di andare in guerra, tutto ciò che conteneva la sudicia anima eroica e pigra degli uomini? Ora ero preso in quella cosa immensa, verso il delitto in comune, verso il fuoco” (Céline, Voyage au Bout de la Nuit). “Le morti più prelibate, lo tenga bene in mente, Ferdinand, sono quelle che ci colgono nei tessuti più sensibili ... Parlava prezioso, ricercato, fine Metitpois, come tutti gli uomini degli anni di Charcot. Non gli è servito a molto il compiere ricerche sulla rolandica, la terza, il nodo grigio ... È morto di cuore, finalmente, ma in condizioni niente affatto toghe ... Un bel coccolone per angina di petto, una crisi durata venti minuti. Resistette bene per centoventi secondi con tutte le sue reminiscenze classiche, la sua energia, l’esempio di Cesare ... Ma per diciotto minuti ha urlato come un’aquila ... che gli stavan strappando il diaframma, tutte le trippe ancor vive ... Che gl’infilavano diecimila coltelli aperti nell’aorta, ... tentava di vomitarceli addosso ... Non son balle. Si strisciava per terra nella stanza ... si sfondava il petto ... ruggiva sul tappeto ... nonostante la morfina. Era un rimbombo da un piano all’altro fin davanti a casa sua ... Finì sotto il pianoforte. Le arteriuzze del miocardio, quando scoppiano una dietro l’altra, sono un’arpa mica delle solite ... È un peccato che nessuno si salvi dalla angina di petto. Ci si guadagnerebbe in saggezza e genio tutti quanti” (Céline, Mort a Credit) “Nei due padiglioni, la febbre per un istante minacciata trionfa ... Impunemente uccide, come vuole, dove vuole, quando vuole ... A Vienna ... 28% in novembre ... 40% in gennaio ... il cerchio si allarga intorno al mondo. La morte conduce la danza ... intorno campanelle ... A Parigi da Dubois 18% ... 26% da Schuld a Berlino ... Da Simpson 22% ... a Torino, su 100 puerpere, ne muoiono 32” (Céline, Semmelweis). La medesima morte suggerì alle parche come dovessero reggergli i fili della vita. Per tormentarlo meglio, lo indussero a scegliersi ad un certo punto la professione di medico. Scampato alla guerra, rabberciato il braccio, dopo una parentesi Rimbaudiana in Africa, sorvegliante in una piantagione, ed una volta rientrato in Francia un matrimonio con Edith Follet, figlia di un medico, lo troviamo prima a Rennes e poi a Parigi, studente alla Facoltà di Medicina, scienze in cui si laureerà il primo maggio 1924, a trent’anni. La tesi, La vie et l’oeuvre de Philippe Ignace Semmelweis, un volumetto di poche pagine in cui non è difficile trovare le ossessioni che gli perseguiteranno l’esistenza fino a rasentare la follia: La morte appunto, a cui non fu certo estranea la scelta degli studi medici: “Un ammirazione enorme per i medici. Ah, mi sembrano straordinari, loro. È la medicina che mi appassionava. Mi sembrava un tipo miracoloso, che guariva, che faceva cose incredibili con i corpi. Lo consideravo un mago, assolutamente” (Céline, Colloqui con il professor Y). E poi la solitudine, che di Semmelweis come di Céline riempirà la vita; l’ebreo, in Semmelweis già presente sotto altra veste; la paura; la lotta e la follia degli uomini. Tutti i suoi anni a venire danzeranno, inciamperanno intorno a questi temi fondamentali. Il resto della sua vita sarà pura cronaca su binari ormai prefissati. Al Céline trentenne, uomo inquieto e medico nella banlieue parigina, le cose importanti sono già tutte accadute. Quanto gli capiterà poi, le sue scelte e il suo destino, non saranno dunque altro che conseguenza dei meccanismi mentali, dei pensieri dominanti che in lui si erano formati. In anni in cui lo strapotere dei sogni infantili sarà di fatto in mano a pazzi particolarmente pericolosi, non gli resterà − come in altri tempi a Foscolo − che l’effimero potere delle lettere. Ne farà un uso dirompente. La medicina, in omaggio all’ossessione numero uno, continuerà ad esercitarla per tutta la vita. Fantoccesca e ridicola, povera di potere che gli apparve, rimase tuttavia l’unica parvenza di baluardo contro la morte. Il vagabondare inquieto, il romanzo, le lunghe gambe delle ballerine, saranno egualmente tentativi falliti in tal senso. La vita di Céline passò. La sua opera, soltanto ora, sta assurgendo alla fama che merita, in blocco. Per i detrattori negli ultimi anni la sua ragione si affievolì, ma non tanto − si può aggiungere − da non permettergli di dedicare l’ultimo suo libro, Rigodon, “Aux Animaux”, un ultimo esempio di come avesse capito a fondo gli uomini. Morì la sera stessa in cui l’ultimò. Evidentemente la morte non resse a quest’ultimo spogliarello a cui fu costretta e diede ordine alle parche di ucciderlo, di tagliare il filo. La diagnosi, un colpo apoplettico. Innocente coperto di fango, lo seppellirono pochi amici e l’ultima moglie nel cimitero di Meudon, sotto una pioggia fine, il primo luglio 1961.
mercoledì 7 luglio 2010
domenica 4 luglio 2010
Louis-Ferdinand Céline ed Edward Hopper lungo la Senna
Bisogna anche avere un coraggio da caporale, a Rancy, soprattutto quando invecchi e sei proprio sicuro di non uscirne più. Alla fine del tram ecco il ponte appiccicoso che si lancia sopra la Senna, questa grossa fogna che fa vedere tutto.
Lungo gli argini, la domenica e la notte la gente si arrampica sui cumuli per fare pipì. Gli uomini, li rende cogitabondi sentirsi davanti all'acqua che passa.
Pisciano con un sentimento d'eternità, come i marinai.
Le donne, quelle non meditano mai.
Senna o no.
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