Caproni e Guglielmi.
Gilberto ritorna alla grande con un interessantissimo post:
MORTE A CREDITO
Le traduzioni di Giorgio Caproni e Giuseppe Guglielmi
Un confronto (quasi) impossibile
di Gilberto Tura
L’unica traduzione italiana di Morte a credito (a tutt’oggi “vigente”) è quella ormai storica di Giorgio Caproni, scomparso nel 1990. Spesso la versione del poeta livornese, pubblicata per la prima volta da Garzanti nel 1964, viene, non del tutto a torto, severamente criticata con l’accusa di non aver, sostanzialmente, saputo restituire fino in fondo l’intonazione del finto parlato plebeo céliniano. Se la traduzione di Caproni può risultare, anche agli occhi dei lettori più indulgenti, quantomeno datata, è conseguentemente legittimo porsi la domanda perché il Gruppo Editoriale Mauri Spagnol, che comprende tra le altre Garzanti, Corbaccio e TEA, detentore dei diritti del romanzo, non abbia ancora affidato a un letterato capace di misurarsi con la prosa esplosiva di Céline (come del resto già fatto nel 1993 affidando la nuova versione del Viaggio a Ernesto Ferrero, edito da Corbaccio) la sfida di dare nuovo vigore a uno dei romanzi fondamentali del novecento.
In realtà una nuova, esemplare e inedita versione di Mort à crédit sarebbe disponibile già dall’aprile del 1989, ma a causa di prosaici motivi editoriali legati ai diritti d’autore giace ancora nel cassetto di Giuseppe Guglielmi, scomparso nel 1995. Guglielmi, che all’attività di poeta, nel tempo, affiancò quella di traduttore, è oggi reputato il massimo traduttore italiano di Céline. Sue sono le traduzioni di Progresso, Pantomima per un’altra volta, Normance, Nord, Da un castello all’altro e Rigodon.
Quelle che propongo sono alcune pagine della suddetta inedita traduzione di Morte a credito di Guglielmi, e per una illuminante comparazione con la traduzione di Caproni, si precisa che il brano qui riprodotto si trova nelle primissime pagine del romanzo, precisamente, facendo riferimento alla quasi totalità delle edizioni apparse dal 1964 ad oggi, da pagina cinque a pagina dodici.
Da un primo sommario confronto occorre subito dire che, sebbene mi debba dichiarare di parte quale ammiratore del Caproni poeta, non posso non osservare che il “doppiaggio” di Guglielmi esce senza ombra di dubbio vincitore. Mentre Caproni ha cercato, sostanzialmente fallendo, di italianizzare la lingua di Céline, Guglielmi ha avuto la felice intuizione e il talento di riuscire a célinizzare la lingua italiana così da trasmettere al lettore italiano, molto più efficacemente, lo stile inimitabile (intraducibile?) e la potenza allucinata della sintassi, dell’argot e del ritmo della prosa Céliniana.
Va, però, riconosciuta a Caproni l’onestà intellettuale e se si vuole anche l’umiltà, quando, qualche anno più tardi, dalle pagine del “Verri” (n. 26, gennaio-febbraio 1968) in una breve “confessione” intitolata “Problemi di traduzione” scriverà: “Ora, troppe in me sono le insoddisfazioni che offuscano il ricordo di quell’atto temerario, perché io non sia tentato, ogni qualvolta ripenso al mio doppiaggio, di rifar tutto da capo. Anche se oggi più che mai sono convinto, per esperienza fatta, che una lingua italiana atta a tradurre Céline sia ancora da inventare, e che non sono certo io il «genio» capace di giungere a tale invenzione”.
Troverete l’intero scritto di Caproni di seguito alla traduzione di Guglielmi.
MORTE A CREDITO
Traduzione di Giuseppe Guglielmi
Mi conosce bene Gustin. Quando è a secco è di straordinario consiglio. È esperto in bello stile. Ci si può fidare dei suoi pareri. È no invidioso neanche un poco. Chiede più molto al mondo. Ha una vecchia pena d’amore. Desidera no liberarsene. Ne parla assai di rado. Era una donna mica seria. Gustin è un cuore mai d’eccezione. Cambierà mai prima di morire.
Intanto beve qualchecosa…
La mia croce, a me, è il sonno. Se avessi sempre dormito bene non avrei mai scritto una riga…
“Potresti, era questa l’opinione di Gustin, raccontare delle cose piacevoli… di quando in quando…È mica sempre schifosa la vita…”. In un certo senso è abbastanza esatto. C’è una parte di fissazione nel mio caso, della parzialità. La prova è che quando ronzavo dalle due orecchie e ancora molto più di adesso, che ci avevo certe febbri a tutte le ore, ero molto meno malinconico… trafficavo in sogni bellissimi… La signora Vitruve, la mia segretaria, me lo faceva notare anche lei. Li conosceva bene i miei patimenti. Quando si è così generosi si seminano qua e là i propri tesori, li si perde di vista… Allora mi sono detto: ”La troia della Vitruve, è lei che me li ha cacciati da qualche parte… “. Certe autentiche meraviglie… certi pezzi di Leggenda… pura estasi… Ormai non mi resta che buttarmi su sto scaffale qui… Per essere più sicuro rovisto il fondo delle mie carte…Ritrovo niente…Telefono a Dulumelle il mio agente; voglio farmene un nemico a vita… Voglio che rantoli sotto gli improperi… Ce ne vuole per stuzzicarlo!... Se ne fotte! Ci ha i milioni. Mi risponde di prendermi una vacanza. Poi arriva finalmente, la Vitruve. Non mi fido di lei. Ci ho delle ragioni molto serie. Dov’è che l’hai messa la mia bell’opera? che l’attacco a sto modo di punto in bianco. Ne avevo almeno a centinaia delle ragioni per sospettarla…
La fondazione Linuty stava davanti al pallone di bronzo alla Porte Pereire. Lei veniva lì a riportarmi le copie, quasi tutti i giorni quando avevo finito i malati. Un piccolo fabbricato provvisorio e raso poi al suolo. Mica ci stavo bene. Le ore erano troppo uniformi. Linuty che l’aveva creata era un gran milionario, voleva che tutta la gente si curi e stia poi meglio senza un soldo. È roba che ti smerda i filantropi. Avrei preferito da parte mia un lavoretto municipale… Delle vaccinazioni, tranquille… Un piccolo ufficio di certificati… Un bagno doccia persino… Una specie di vitalizio insomma. Amen. Ma sono mica Giudeo, meteco, né Massone o Normalista, so neanche farmi valere, scopo troppo, non ho la buona reputazione… Da quindici anni, nella Zone, che mi guardano dietro e vedono che mi difendo, le più spazzature lerciose, loro si sono prese tutte le libertà, hanno per me ogni sorta di disprezzo. Ancora fortunato se non mi hanno sbattuto fuori. La letteratura, quella, mi compensa. Ho no da lamentarmi. Madre Vitruve batte a macchina i miei romanzi. Mi è affezionata. “Ascolta! che le faccio, cara Mignottona, questa è l’ultima volta che ti sgolo dietro!... Se non ritrovi la mia Leggenda, puoi dire che è l’addio, che è la fine della nostra amicizia. Più niente collaborazione fiduciosa!... Più niente pugnette!... Finito il sollazzo!... Più un cazzo di niente!... “.
Quella si scioglie allora in geremiadi. È orrenda in tutto la Vitruve, e come faccia e come cotica. È una vera obbligazione. Me la tiro dietro dall’Inghilterra. È la conseguenza di un giuramento. È no da ieri che ci si conosce. È sua figlia Angèle a Londra che me lo ha fatto una volta giurare di aiutarla sempre nella vita. Me ne sono occupato posso dirlo. Ho tenuto la promessa. È il giuramento di Angèle. Risale al tempo della guerra. E poi insomma lei sa un mucchio di cose. Bene. È no chiacchierona di norma, ma si ricorda… Angèle, sua figlia: era una natura. È mica credibile che una madre può diventare oscena. Angèle è finita tragicamente. Racconterò tutto se mi costringono. Angèle aveva un’altra sorella, Sophie la lungagnona, a Londra, che là ci abitava. E qui Mirelle, la nipotina, viziosa come tutte le altre, una vera pelle di vacca, una sintesi.
Quando ho traslocato da Rancy, che sono venuto alla Porte Pereire, mi hanno scortato tutte e due. Se è cambiato Rancy, non resta quasi niente delle mura e del Bastione. Certi grossi ruderi neri tutti crepe, li estirpano dal terreno molle della scarpata, come denti spezzati. Tutto sarà inghiottito, la città divora le sue vecchie gengive. È il “P.Q.bis” adesso che passa fra le rovine, in tromba. Fra poco non ci sarà più per tutto che dei mezzi grattacieli di mattoni. Si vedrà bene. Con la Vitruve era sempre una lite a discutere delle disgrazie. È lei che pretendeva sempre di avere sofferto di più. Era mica possibile. Come rughe, non ci piove, ne ha molto più di me! È roba da non finire le rughe, il grinzume infetto dei begli anni nella carne. “Deve essere Mireille che le ha riordinate le tue pagine!”.
Esco con lei, l’accompagno, Quai de Minimes. Abitano insieme, vicino alle cioccolate Bitronelle, quel che si dice l’Hotel Méridien.
La camera è un guazzabuglio incredibile, una shangai in articoli di fronzoli, biancheria soprattutto, tutta roba fragile, estremamente a buon mercato.
La Signora Vitruve e sua nipote sono in figa tutte e due. Tre siringhe che ci hanno, più una cucina completa e un bidè di gomma. Tutto stivato tra i due letti e un gran vaporizzatore che non sono mai riuscite a spruzzare. Voglio dire non troppo male della Vitruve. Forse lei ha conosciuto più amarezze di me nella vita. È sempre questo che mi ferma. Altrimenti, se fossi certo, le filerei certe sleppe spaventose. Era in fondo al caminetto che lei stazionava la Remington non ancora finita di pagare…Sembra. Non do molto per le mie copie, è esatto così… sessantacinque centesimi la pagina, ma ti quadra lo stesso al conto… Specie con dei grossi volumi.
Da come strabica, laVitruve, ho mai visto peggio. Faceva male a guardare.
Alle carte, ai tarocchi voglio dire, qui le dava prestigio sta strabicheria feroce. Gli faceva alle povere clienti delle calze di seta… anche l’avvenire a credito. Quand’era presa poi dall’incertezza e dalla riflessione, dietro i suoi fanali, di là viaggiava con lo sguardo come vera aragosta.
Specie dopo le “pescate” cresceva il suo ascendente nei contorni. Conosceva tutti i cornuti. Me li indicava dalla finestra, e poi anche i tre assassini, “ci ho le prove!”. In più le avevo regalato per la pressione arteriosa un vecchio apparecchio Laubry e le avevo insegnato un piccolo massaggio per le varici. Giusto una giunta ai suoi incerti. La sua ambizione era gli aborti, o meglio ancora di sguazzare in una rivoluzione di sangue, che dappertutto si parli di lei, che arrivi sui giornali.
Quando la vedevo che rovistava nei recessi del suo bazar potrei mai tutto scrivere quanto mi disgustava. Per tutto l’universo c’è dei camion ogni minuto che schiacciano della brava gente… Lei, madre Vitruve emanava un odore di pepe. Càpita spesso con le rossastre. Hanno credo le rosse, il destino delle bestie: un odore selvatico, tragico, tutto di pelo. L’avrei proprio accoppata quando la sentivo discorrere troppo forte, parlare dei ricordi… Il fuoco al culo come aveva lei, le era poi difficile trovare un poco d’amore. Fuori che un uomo ubriaco. E per giunta che fosse notte buia, lei aveva niente, fortuna! Da quel lato lì mi faceva pena. Io ero più avanti sulla strada delle belle armonie. Neanche questo trovava giusto, lei. Il giorno che fosse necessario io avevo in me quasi da pagarmi la morte!... Vivevo di Estetica. Ne avevo mangiata della figa meravigliosa… devo confessarlo, della vera luce. Mi ero abbuffato, dell’infinito.
Lei aveva manco dei risparmi, questo si sente benissimo, neanche bisogno di parlarne. Per tirar su la crosta e godere per giunta doveva incastrare il cliente con la stanchezza o la sorpresa. Era un inferno.
Dopo le sette, di norma, i piccoli mestieri sono tornati a casa. Le loro donne sono dietro alle stoviglie, il maschio si avvolge nelle onde radio. Allora la Vitruve abbandona il mio bel romanzo per rimediarsi la sussistenza. Da un pianerottolo all’altro, dài che batte con le sue calze un po’ sdrucite, i suoi jersey senza nome. Prima della crisi poteva ancora difendersi grazie al credito e per come rintronava i clienti, ma adesso l’identica mercanzia la danno in premio a quelli che hanno perso alle tre carte e ci hanno da dire. Ci sono più condizioni leali. Ho cercato di spiegarle che era tutta colpa dei giapponesini… Non mi credeva. L’ho accusata di far sparire apposta la mia bella Leggenda giù nelle sue immondizie…
- È un capolavoro! Che aggiunsi. Perciò non c’è dubbio, deve saltar fuori!
Lei si è spanciata dal ridere… Si è rovistato insieme nel mucchio della paccottiglia.
È arrivata la nipote alla fine, molto in ritardo. Bisognava vedere le sue anche. Un vero scandalo come culatta… Tuttavia a pieghe la sua sottana… Per tenere ben sù la nota. La fisarmonica dello spacco. Si perde niente. Il disoccupato è alla disperazione, è sensuale, ci ha no la grana per invitare… S’imballa. “Che culo!” che le avventavano… In piena faccia. In fondo ai corridoi, a forza di rizzare ai fichi secchi. I giovinastri che hanno i tratti più fini degli altri, loro sono ben dotati per affondarci i denti, per farsi cullare dalla vita. È accaduto soltanto più tardi che lei è scesa più in basso per campare!... Dopo tante catastrofi… Al momento si divertiva…
Mica l’ha trovata nemmeno lei la mia bella Leggenda. Se ne fotteva del “Re Krogold”… È me soltanto che m’agitava. La sua scuola per emanciparsi, era il “Petit Panier” un poco prima della Ferrovia, la balera della Porte Brancion.
Non mi levavano gli occhi di dosso quando andavo in bestia. Come “sfessato” a loro giudizio, io tenevo il massimo! Masturba, timido, intellettuale e tutto. Ma adesso di colpo, ci avevano la tremarella che io alzassi le vele. Se avessi preso il vento, mi chiedo quello che avrebbero sbottegato. Sono sicuro che la zia, lei, ci pensava abbastanza spesso. Come sorriso era un brivido quel che mi rifilavano non appena parlavo un poco di viaggi…
La Mireille oltre al culo stupendo, aveva certi occhi da romanza, lo sguardo ladro, ma un naso robusto, un becco, la sua vera croce. Quando volevo un poco umiliarla: “Senza scherzi! che le facevo, Mireille! ci ha proprio il naso d’un uomo!...”. Sapeva anche lei raccontare delle bellissime storie, le piaceva come a un marinaio. Ha inventato tante di quelle cose prima per farmi piacere e poi più tardi per danneggiarmi. Il mio debole di me è di dare ascolto alle buone storie. Lei se ne approfittava ecco tutto. C’è voluta la violenza tra noi per troncare i nostri rapporti, ma è lei che aveva meritato le mille volte il girotondo e anche d’essere accoppata. Ha finito per convenirne. Sono stato davvero molto generoso… L’ho picchiata per delle buone ragioni… Lo hanno detto tutti… Persone che sanno…
Gustin Sabayot, senza fargli un torto, posso proprio ripetere comunque che si strappava mai i capelli riguardo alle diagnosi. Su le nuvole si orientava, lui.
Appena fuori di casa, guardava per prima cosa dritto in aria: “Ferdinand che mi faceva, oggi sono di sicuro reumatismi! Cinque franchi!...”. Leggeva già tutto nel cielo! Si sbagliava mai molto perché conosceva bene la temperatura e i vari temperamenti.
- Ah! ecco un colpo di canicola dopo il fresco! Tienilo a mente! É calomelano puoi già dirlo! L’itterizia è sù nell’aria! Il vento si è girato… Nord-nord-ovest. Freddo con Acquazzone! È bronchite per quindici giorni! Val neanche la pena che si tolgono gli stracci!... Se fossi io a comandare, farei le prescrizioni standomene a letto!... In fondo Ferdinand da quando che arrivano è solo chiacchiere!... Per chi ne fa commercio questo ancora si spiega… ma noialtri?... a Mese? … Che senso ha?... io li curerei senza neanche poi vederli to’, i miei polli! Da oggi stesso! Ci avranno il soffoco né più né meno! Vomiteranno neanche di più, saranno mica meno gialli, né meno rossi, né meno pallidi, né meno stronzi… È la vita!...Per avere ragione, Gustin aveva davvero ragione.
Tu li credi malati?... Chi geme… chi rutta… chi barcolla… chi ci ha le pustole… Vuoi vuotare la tua sala d’aspetto? All’istante? anche di quelli che si strangozzano a spazzarsi via gli scatarri?... Proponi una seduta di cinema!... Un aperitivo gratis di fronte!... Vedrai quanti te ne restano… Se vengono a tormentarti è soprattutto perché si smerdano… Mica ne vedi uno la vigilia delle feste… Ai disgraziati, tieni a mente il mio parere, è il lavoro che manca, no la salute… Quello che vogliono è che tu li distragga, li tenga allegri, li interessi con i loro vomiti… i loro gas… i loro scricchiolî… che tu scopra dei rapporti… delle febbri… dei borboglî… degli inediti!... Che ti dilunghi… che ti appassioni… È per questo che ci hai dei diplomi… Ah! divertirsi con la propria morte intanto che se la fabbrica, ecco tutto l’Uomo, Ferdinand! Se lo terranno caro lo scolo, la sifilide, tutti i loro tubercoli. Ne hanno bisogno! E la vescica tutta bavosa, il retto in fiamme, tutto questo non ha importanza! Ma se ti dai da fare, se sai appassionarli, aspetteranno te per morire, è la tua ricompensa! Ti braccheranno fino alla fine. Quando la pioggia tornava a raffica tra le ciminiere dell’officina elettrica: “Ferdinand, che mi annunziava, ecco le sciatiche!... Se non ne vengono dieci oggi, posso restituire il mio papiro alla Facoltà”. Ma quando la fuliggine si abbassava verso di noi dall’Est, che è il versante più asciutto, su dai forni Bitronelle, lui si schiacciava un grumo nero sul naso: “Voglio che m’inculino! capisci! se sta notte stessa i pleuritici non sputano sangue! Merda a Dio!... Capace che mi svegliano ancora venti volte!...”.
Certe sere semplificava tutto. Montava sullo sgabello davanti all’enorme armadio dei campioni. Era la distribuzione diretta, gratuita e non solenne della farmacia…
- Soffre di palpitazioni? Lei la mia Gambastorta? che domandava alla stracciona. – No, niente!... Niente acidità?... E come perdite?... – Sì, certo! Solo un poco… - allora prenda questo dove so io… in due litri d’acqua… sa, le farà un bene enorme!... E le giunture? Le fanno male?... Ha mica le emorroidi? E di corpo poi ci va?... Ecco delle supposte Pepet!... Un po’ di vermi anche? Ha notato?... Prenda venticinque gocce miracolose… Prima di coricarsi!...
Proponeva tutti i suoi scaffali… Ce n’era per tutti i disturbi, tutte le diatesi e le manie… Un malato è terribilmente ingordo. Dal momento che può mettersi una porcheria nel sacco, non chiede altro, è contento di svignarsela, ha una gran paura che lo si chiami indietro.
Col colpo del regalo, l’ho visto io, Gustin, restringere a dieci minuti delle visite che potevano durare almeno dieci ore se fatte con certe precauzioni. Ma io avevo più niente da imparare sul modo di accorciare. Avevo il mio piccolo sistema mio.
Io è solo a proposito della mia Leggenda che volevo parlargli. Si era ritrovato l’inizio sotto il letto di Mireille. Ero rimasto molto deluso nel rileggerla. Ci aveva no guadagnato col tempo la mia romanza. Dopo qualche anno d’oblio è più che una festa fuori moda l’opera d’immaginazione… Tutto sommato con Gustin potevo sempre avere un’opinione libera e sincera. L’ho fatto entrare subito in tono.
- Gustin che gli faccio, qua non sei sempre stato così coglione come oggi, abbrutito dalle circostanze, il mestiere, la sete, le schiavitù più funeste… Te la senti, per un solo momento, di riassestarti in poesia?... di fare un breve scatto di cuore e di cazzo al racconto di un’epopea, tragica certo, ma nobile, sfolgorante!... Ti credi capace?...
Stava lì Gustin, assopito sul suo sgabello, davanti ai campioni, l’armadio spalancato… Non batteva più ciglio… non voleva interrompermi…
- Si tratta, che lo avevo avvertito, di Gwendor il Magnifico, Principe di Cristiania… Noi arriviamo… Lui spira… nel momento stesso che ti parlo… Il suo sangue sgorga da venti ferite… L’esercito di Gwendor ha appena subito un’orrenda disfatta… Il Re Krogold in persona durante la mischia ha scoperto Gwendor… L’ha steso con un fendente… È mica poltrone Krogold… Si fa giustizia da sé… Gwendor ha tradito… La morte scende su Gwendor e mette una croce al suo travaglio… Ascolta qui!
“Il tumulto del combattimento si va estenuando con le ultime luci del giorno… Lontano svaniscono le ultime Guardie del Re Krogold… Nell’ombra si levano i rantoli dell’immensa agonia di un’armata… Vincitori e vinti rendono l’anima come possono… Il silenzio soffoca uno via l’altro grida e rantoli, più e più deboli, più e più cari…
“Schiacciato sotto una massa di gregari, Gwendor il Magnifico perde ancora sangue… All’alba la morte gli sta di fronte.
- Hai capito Gwendor?
- Ho capito, oh morte! ho capito sin dall’inizio di questa giornata… Ho sentito nel mio cuore, nel mio braccio anche, negli occhi dei miei compagni, nel passo stesso del mio cavallo, un incanto triste e lento simile al sonno… La mia stella si spegneva fra le tue mani di ghiaccio…
Tutto si mise a fuggire! Oh morte! Enormi rimorsi! Immensa è la mia onta!... Guarda questi poveri corpi!... Un’eternità di silenzio non può mitigarla!...
“Non c’è ombra di dolcezza in questo mondo, Gwendor! altro che leggenda! Tutti i regni finiscono in un sogno!...
- Oh morte! Concedimi un poco di tempo… un giorno o due! Voglio sapere chi mi ha tradito…
- Tutto è tradimento, Gwendor… Le passioni non appartengono a nessuno, l’amore, soprattutto, non è che fiore di vita nel giardino della giovinezza.
E la morte pian piano afferra il principe… Lui non si difende più… Il suo peso è svanito… E poi un bel sogno gli riafferra l’anima. Il sogno che faceva spesso quand’era bambino, nella sua culla di pelliccia, nella stanza degli Eredi, accanto alla nutrice morava, nel castello del Re Renato…”.
Gustin aveva le mani che gli penzolavano tra i ginocchi…
- Non è bello? gli chiedo.
Lui non si fidava. Voleva neanche ringiovanire troppo. Stava in difesa. Ha voluto che gli spiegassi ancora tutto… il perché? E il come?... È no così facile… È così fragile come farfalla. Per un niente ti si sbriciola tra le dita, ti lascia un’ombra di sporco. Che cosa ci si guadagna? Non ho insistito.
PROBLEMI DI TRADUZIONE
di Giorgio Caproni
Non ricordo senza tremori il mio «doppiaggio» di Mort à crédit. Fu, da parte mia, un impulsivo atto d’amore, e si sa come ogni atto d’amore, finita l’esaltazione e la gratitudine per quanto s’è ricevuto, lasci sempre l’ombra – rimorso o sospetto – di ciò che in cambio non s’è dato o addirittura s’è tolto. Ora, troppe in me sono le insoddisfazioni che offuscano il ricordo di quell’atto temerario, perché io non ne sia tentato, ogni qualvolta ripenso al mio doppiaggio, di rifar tutto da capo. Anche se oggi più che mai sono convinto, per esperienza fatta, che una lingua italiana atta a tradurre Céline sia ancora da inventare, e che non sono certo io il «genio» capace di giungere a tale invenzione. Un’invenzione che può far soltanto, e coi secoli, il popolo; o peggio, dato che ogni popolo, disinfettato e condizionato dai mass-media, e quindi incapace di invenzioni proprie, non esiste più come plebe, che avrebbe potuto far coi secoli il popolo, se avessimo avuto una storia unitaria e quindi – scusate la lapalissade – una lingua popolare, lentamente maturatasi nei secoli e fino ad oggi tramandatasi, unica da un capo all’altro della penisola.
Quale lingua popolare italiana contrapporre alla lingua della Zone ch’è alla base dello stile céliniano, perfino nelle fulminanti amalgame con tronconi illustri quasi sempre stravolti o ironizzati, o con tratti gergali tra i più rari accanto ai più correnti, nonché delle medesime neoformazioni e deformazioni anche ortografiche spesso di difficilissima interpretazione per gli stessi francesi, come ho potuto constatare interrogandone molti, compresi illustri scrittori che più di una volta mi hanno risposto con un franco «je suis incapable de vous donner le sens de ce mot, et je ne suis pas le seul»? («C’est que la langue de Cèline», mi ha scritto uno di questi, «ne s’aborde pas de front mais un peu comme on lutte à mains plates».)
Primo scoglio da me incontrato, dunque, ancor prima del problema dello stile di Céline («la sua musica»: «la musique, elle est coincée, elle se détériore dans le fond de mon esgourde… Elle en finit pas d’agonir… Elle m’ahurit à coups de trombone… J’ai tous les bruits de la nature, de la flûte au Niagara… Je promène le tambour et un avalanche de trombones… Je fabrique l’Opéra du déluge»), primo scoglio, dicevo, il problema della lingua in genere, visto che da noi al massimo abbiamo vari italiani popolari regionali, scaturiti ciascuno dai vari dialetti. Il problema, infine, dell’argot.
È vero. Nell’argot, o meglio negli argots, v’è un forbicio di vocaboli di pretta derivazione italiana: Poule, per esempio, che nel senso di police vien pari pari da pula (guardia, poliziotto), vocabolo che nelle mia infanzia, oggi non so, s’usava ancora: «Scappa, arriva la pula!»; il comunissimo mec, nel solo senso di homme, che etimologicamente (Gaston Esnault) s’associa al nostro mecco o mecco, appartenente al «bacaglio della mala»; nib, apocope di nibergue (rien, non), venuto dal nostro «furbesco» niberta e niba, oggi trasformatosi in nisba; e infine, per fare un ultimo esempio, quest’altro vocabolo abbastanza frequente in Francia, anche fra gli scrittori: lance, nel senso di eau, rivière, pluie, urine, derivazione diretta dall’italiano lenza o slenza (fiume, pioggia, orina, bevanda), sostantivo verbale di slenzare (orinare). Ma a parte il fatto che quest’ultimo esempio, come tanti e tanti altri, ha cessato da qualche secolo di vivere sulla bocca del popolo, come non correre il rischio, volgendosi verso una traduzione strettamente filologica ed etimologica (penso a con tradotto con conno!), di trasportarsi d’acchito dal piano del volgare (è il termine esatto) a quello del linguaggio erudito, o culto, o macaronico, vale a dire cultissimo, e compiere quindi proprio l’inverso dell’operazione Céline?
Eppoi. È possibile travasare la storia della Zone sul Naviglio o sul Tevere o sull’Arno? Un clochard non è un barbone, a dispetto dei vocabolari. Lo negano la storia e la geografia. Così come del resto un cleb non è un cane, ma semmai un cane che non è un cane, come nel gioco dei bambini, dato che fra cleb e chien, anche se zoo logicamente sono la stessa bestia, esiste un abisso «sentimentale» a separar l’uno dall’altro. Tradurre cleb con cane equivarrebbe a compiere una doppia traduzione, prima da cleb a chien, poi da chien a cane. Insomma, sarebbe un tradurre chien e non cleb: tradurre una parola (una res) che sul testo non esiste. (Ma esistevano davvero «parole», come segni trasferibili da un codice convenuto a un altro, sulla pagina di Céline, o non piuttosto esistono «cose» intrasferibili? La «lingua» di Céline è natura, natura governata dallo stile, ma natura. Già a cominciar dal titolo dell’opera da me doppiata, mi sono reso conto di una tale intrasferibilità. Mort à crédit è proprio o è soltanto Morte a credito? «C’est pas gratuit de crever», scrive Céline, è vero. E ancora, scrive: «J’avais presque que me payer la mort». Ma vuol proprio o soltanto dire qualcosa come «la morte si sconta vivendo»? Prendiamo frasi della lingua corrente, o d’autori «regolari»: «Vous vous donnez de la peine à crédit»; «Toutes les opinions que nous avons nous les avons que par autorité; nous croyons, jugeons, vivons et mourons à crédit». Sono esempi tolti da un vocabolario francese accademico, e d’autori «illustri», ma bastano a metter la pulce nell’orecchio, mi sembra.)
Ho dovuto dunque rinunziare a un trasbordo letterale, quando questo era impossibile o controproducente, per cercar invece di ripetere, coi laterizi offertimi dalle nostre lingue popolari, il gioco compiuto da Céline sulla sua lingua popolare. E dirò che in questo m’ha assistito la fortuna, o meglio il caso. Nella mia infanzia infatti, trascorsa un po’ a Livorno, un po’ a Genova e un po’ altrove (sempre in punti d’incrocio, anche linguisticamente), sono sempre stato circondato da personaggi molto simili a quelli di Mort à crédit. In casa mia c’era perfino un «inventore» somigliantissimo al De Pereires, e allora erano ancora in auge le dispense del Flammarion. E il linguaggio della mia versione o diversione, più che nei dizionari, l’ho cercato tornando, anzi calando con la memoria fra quei personaggi. Un linguaggio ibrido e curioso, preso in prestito dai vari dialetti spesso fraintesi e deformati, com’era appunto l’«italiano» dei miei nonni o zii o conoscenti, e com’è l’italiano in tutti i porti di mare, cercando di recuperarne la forza espressiva, la vis comica («Je suis marrant, si je veux», dice Ferdinand) e, soprattutto, l’anarchismo, e ricorrendo anch’io qualche volta, non certo con la forza di Céline, ai miei travisamenti e alle mie invenzioni, magari«fuori testo», per dare in qualche modo il colore, ad esempio, del linguaggio pseudo-colto di Auguste o di Courtial, personaggi mediante i quali Cèline aggredisce più violentemente il «francese» di «Lustucru» (L’eusses-tu-cru?).
Detta la difficoltà madre, che forse ho soltanto aggirato, restano le varie «piccole» difficoltà tecniche non meno sgomentanti, delle quali ecco un solo esempio, e non certo scelto tra i più terribili:
La mère Vitruve tape mes romans. Elle m’est attachée. «Écoute! que je lui fais, chère daronne, c’est la dernière fois que je t’engueule!... Si tu ne retrouves pas ma Légende, tu peux dire que c’est la fin, que c’est le bout de notre amitié. Plus de collaboration confiante!... Plus de rassis!... Fini le tutu!... Plus d’haricots!...».
Come restituire la tinta d’estrema miseria (Ferdinand, spiantato, pagava in natura la sua collaboratrice) di queste tre ultime minacce a doppio taglio? E, soprattutto, come restituire insieme il senso alimentare pressoché ovvio (Rassis = pain rassis, tutu = vin, haricots = …haricots) e il senso erotico-osceno (Rassis = masturbazione, tutu = culetto, haricot = clitoride)? Non so se il mio salto acrobatico abbia sfondato il cerchio.
E che dire poi dell’esplosività con cui certe risoluzioni d’ira céliniane cadono sulla pagina improvvise, lasciando senza respiro il povero traduttore?
C’est un métier pénible le nôtre, la consultation… Presque tous les gens ils posent des questions lassantes. Ça sert à rien qu’on se dépêche , il faut leur repeater vingt fois tous les details de l’ordonnance. Ils ont plaisir à faire causer, à ce qu’on s’épuise… Ils en feront rien des beaux conseils, rien du tout. Mais ils ont peur qu’on se donne pas de mal, pour être plus sûrs ils insistent; c’est des ventouses, des radios, des prises… qu’on les tripote de haut en bas… Qu’on mesure tout… L’artérielle et puis la connerie…
Leggendo oggi Pompes funèbres di Genet, trovo:
Il n’y a pas de doute, me dis-je, c’est ici… Je m’arrêtai là. «Ici», et les mots qui devaient suivre: «qu’on l’a tué» prononcés, fût-ce mentalement, apportaient à ma douleur une précision physique qui l’exaspérait… Je me forçai à dire, à me redire avec l’agaçante répétition des scies I-ci, I-ci, I-ci, I-ci, I-ci… «I-ci, I-ci, I-ci. Qu’on l’a tué, qu’on l’a tué, con l’a tué…» et je fis mentalement cette épitaphe: « con l’a tué».
Ma quella che in Céline era vulcanica conflagrazione della sua natura contro la stessa lingua da lui usata, e prodottasi sulla pagina senza che un istante prima Céline l’avesse in mente (qu’on, qu’on, connerie), in Genet, che sente il bisogno di padellare qu’on = con, appare gioco premeditato e calcolato, ruse di scrittore se non proprio letteratura, anche se ciò non toglie nulla alle reali dimensioni de «genêt d’Espagne, cette plante épineuse».
Ho due soli esempi, e non certo, ripeto, fra i più terribili, e mi fermo qui, anche perché la mia mente è ormai lontana dai giorni della mia prova, né io oso per il momento riesaminare i miei disordinati appunti e aumentare le ombre che sono in me. Non ultime delle quali, quelle prodotte dalle tremende parole turchine e dalla resistenza opposta – certo a ragion veduta – dall’Editore, tale da inibirmi la traduzione in nostrano senso chiaro di espressioni, che so, come «je me suis tapé un tout petit rassis, prendre son pied» eccetera. Donde quei buchi bianchi (del resto già abbondanti nell’edizione francese da me seguita, non essendo allora ancor apparso il volume della Pléiade), e gli eufemismi, se non proprio travisamenti che com’ho detto qua e là non mancano e che, pungendomi come spine, sempre più m’invogliano a ritentar per mio conto la prova, affascinante appunto perché – forse – impossibile e disperata.
Con tutto ciò, un frutto l’ho certamente tratto da questa mia «esperienza di traduttore», per cui non rimpiango affatto la fatica che, accanto all’esaltazione (una fatica anch’essa), m’è costata: l’aver imparato a «parler après ça plus dolcemente aux choses», una lezione di bontà insomma, e di coraggio anche (Courage pour soi!) e l’aver scopeto mot à mot, se non proprio il senso, il «cuore» (sì, il cuore, anche se detesto il cuore in s.p.e. di De Amicis) di colui ch’è considerato – forse anche dalla mia ragione e dalla mia coscienza – il più «abominevole» ed «esecrabile» degli uomini. Un capitolo, questo, che però spetta ad altri trattare.
MORTE A CREDITO
Le traduzioni di Giorgio Caproni e Giuseppe Guglielmi
Un confronto (quasi) impossibile
di Gilberto Tura
L’unica traduzione italiana di Morte a credito (a tutt’oggi “vigente”) è quella ormai storica di Giorgio Caproni, scomparso nel 1990. Spesso la versione del poeta livornese, pubblicata per la prima volta da Garzanti nel 1964, viene, non del tutto a torto, severamente criticata con l’accusa di non aver, sostanzialmente, saputo restituire fino in fondo l’intonazione del finto parlato plebeo céliniano. Se la traduzione di Caproni può risultare, anche agli occhi dei lettori più indulgenti, quantomeno datata, è conseguentemente legittimo porsi la domanda perché il Gruppo Editoriale Mauri Spagnol, che comprende tra le altre Garzanti, Corbaccio e TEA, detentore dei diritti del romanzo, non abbia ancora affidato a un letterato capace di misurarsi con la prosa esplosiva di Céline (come del resto già fatto nel 1993 affidando la nuova versione del Viaggio a Ernesto Ferrero, edito da Corbaccio) la sfida di dare nuovo vigore a uno dei romanzi fondamentali del novecento.
In realtà una nuova, esemplare e inedita versione di Mort à crédit sarebbe disponibile già dall’aprile del 1989, ma a causa di prosaici motivi editoriali legati ai diritti d’autore giace ancora nel cassetto di Giuseppe Guglielmi, scomparso nel 1995. Guglielmi, che all’attività di poeta, nel tempo, affiancò quella di traduttore, è oggi reputato il massimo traduttore italiano di Céline. Sue sono le traduzioni di Progresso, Pantomima per un’altra volta, Normance, Nord, Da un castello all’altro e Rigodon.
Quelle che propongo sono alcune pagine della suddetta inedita traduzione di Morte a credito di Guglielmi, e per una illuminante comparazione con la traduzione di Caproni, si precisa che il brano qui riprodotto si trova nelle primissime pagine del romanzo, precisamente, facendo riferimento alla quasi totalità delle edizioni apparse dal 1964 ad oggi, da pagina cinque a pagina dodici.
Da un primo sommario confronto occorre subito dire che, sebbene mi debba dichiarare di parte quale ammiratore del Caproni poeta, non posso non osservare che il “doppiaggio” di Guglielmi esce senza ombra di dubbio vincitore. Mentre Caproni ha cercato, sostanzialmente fallendo, di italianizzare la lingua di Céline, Guglielmi ha avuto la felice intuizione e il talento di riuscire a célinizzare la lingua italiana così da trasmettere al lettore italiano, molto più efficacemente, lo stile inimitabile (intraducibile?) e la potenza allucinata della sintassi, dell’argot e del ritmo della prosa Céliniana.
Va, però, riconosciuta a Caproni l’onestà intellettuale e se si vuole anche l’umiltà, quando, qualche anno più tardi, dalle pagine del “Verri” (n. 26, gennaio-febbraio 1968) in una breve “confessione” intitolata “Problemi di traduzione” scriverà: “Ora, troppe in me sono le insoddisfazioni che offuscano il ricordo di quell’atto temerario, perché io non sia tentato, ogni qualvolta ripenso al mio doppiaggio, di rifar tutto da capo. Anche se oggi più che mai sono convinto, per esperienza fatta, che una lingua italiana atta a tradurre Céline sia ancora da inventare, e che non sono certo io il «genio» capace di giungere a tale invenzione”.
Troverete l’intero scritto di Caproni di seguito alla traduzione di Guglielmi.
MORTE A CREDITO
Traduzione di Giuseppe Guglielmi
Mi conosce bene Gustin. Quando è a secco è di straordinario consiglio. È esperto in bello stile. Ci si può fidare dei suoi pareri. È no invidioso neanche un poco. Chiede più molto al mondo. Ha una vecchia pena d’amore. Desidera no liberarsene. Ne parla assai di rado. Era una donna mica seria. Gustin è un cuore mai d’eccezione. Cambierà mai prima di morire.
Intanto beve qualchecosa…
La mia croce, a me, è il sonno. Se avessi sempre dormito bene non avrei mai scritto una riga…
“Potresti, era questa l’opinione di Gustin, raccontare delle cose piacevoli… di quando in quando…È mica sempre schifosa la vita…”. In un certo senso è abbastanza esatto. C’è una parte di fissazione nel mio caso, della parzialità. La prova è che quando ronzavo dalle due orecchie e ancora molto più di adesso, che ci avevo certe febbri a tutte le ore, ero molto meno malinconico… trafficavo in sogni bellissimi… La signora Vitruve, la mia segretaria, me lo faceva notare anche lei. Li conosceva bene i miei patimenti. Quando si è così generosi si seminano qua e là i propri tesori, li si perde di vista… Allora mi sono detto: ”La troia della Vitruve, è lei che me li ha cacciati da qualche parte… “. Certe autentiche meraviglie… certi pezzi di Leggenda… pura estasi… Ormai non mi resta che buttarmi su sto scaffale qui… Per essere più sicuro rovisto il fondo delle mie carte…Ritrovo niente…Telefono a Dulumelle il mio agente; voglio farmene un nemico a vita… Voglio che rantoli sotto gli improperi… Ce ne vuole per stuzzicarlo!... Se ne fotte! Ci ha i milioni. Mi risponde di prendermi una vacanza. Poi arriva finalmente, la Vitruve. Non mi fido di lei. Ci ho delle ragioni molto serie. Dov’è che l’hai messa la mia bell’opera? che l’attacco a sto modo di punto in bianco. Ne avevo almeno a centinaia delle ragioni per sospettarla…
La fondazione Linuty stava davanti al pallone di bronzo alla Porte Pereire. Lei veniva lì a riportarmi le copie, quasi tutti i giorni quando avevo finito i malati. Un piccolo fabbricato provvisorio e raso poi al suolo. Mica ci stavo bene. Le ore erano troppo uniformi. Linuty che l’aveva creata era un gran milionario, voleva che tutta la gente si curi e stia poi meglio senza un soldo. È roba che ti smerda i filantropi. Avrei preferito da parte mia un lavoretto municipale… Delle vaccinazioni, tranquille… Un piccolo ufficio di certificati… Un bagno doccia persino… Una specie di vitalizio insomma. Amen. Ma sono mica Giudeo, meteco, né Massone o Normalista, so neanche farmi valere, scopo troppo, non ho la buona reputazione… Da quindici anni, nella Zone, che mi guardano dietro e vedono che mi difendo, le più spazzature lerciose, loro si sono prese tutte le libertà, hanno per me ogni sorta di disprezzo. Ancora fortunato se non mi hanno sbattuto fuori. La letteratura, quella, mi compensa. Ho no da lamentarmi. Madre Vitruve batte a macchina i miei romanzi. Mi è affezionata. “Ascolta! che le faccio, cara Mignottona, questa è l’ultima volta che ti sgolo dietro!... Se non ritrovi la mia Leggenda, puoi dire che è l’addio, che è la fine della nostra amicizia. Più niente collaborazione fiduciosa!... Più niente pugnette!... Finito il sollazzo!... Più un cazzo di niente!... “.
Quella si scioglie allora in geremiadi. È orrenda in tutto la Vitruve, e come faccia e come cotica. È una vera obbligazione. Me la tiro dietro dall’Inghilterra. È la conseguenza di un giuramento. È no da ieri che ci si conosce. È sua figlia Angèle a Londra che me lo ha fatto una volta giurare di aiutarla sempre nella vita. Me ne sono occupato posso dirlo. Ho tenuto la promessa. È il giuramento di Angèle. Risale al tempo della guerra. E poi insomma lei sa un mucchio di cose. Bene. È no chiacchierona di norma, ma si ricorda… Angèle, sua figlia: era una natura. È mica credibile che una madre può diventare oscena. Angèle è finita tragicamente. Racconterò tutto se mi costringono. Angèle aveva un’altra sorella, Sophie la lungagnona, a Londra, che là ci abitava. E qui Mirelle, la nipotina, viziosa come tutte le altre, una vera pelle di vacca, una sintesi.
Quando ho traslocato da Rancy, che sono venuto alla Porte Pereire, mi hanno scortato tutte e due. Se è cambiato Rancy, non resta quasi niente delle mura e del Bastione. Certi grossi ruderi neri tutti crepe, li estirpano dal terreno molle della scarpata, come denti spezzati. Tutto sarà inghiottito, la città divora le sue vecchie gengive. È il “P.Q.bis” adesso che passa fra le rovine, in tromba. Fra poco non ci sarà più per tutto che dei mezzi grattacieli di mattoni. Si vedrà bene. Con la Vitruve era sempre una lite a discutere delle disgrazie. È lei che pretendeva sempre di avere sofferto di più. Era mica possibile. Come rughe, non ci piove, ne ha molto più di me! È roba da non finire le rughe, il grinzume infetto dei begli anni nella carne. “Deve essere Mireille che le ha riordinate le tue pagine!”.
Esco con lei, l’accompagno, Quai de Minimes. Abitano insieme, vicino alle cioccolate Bitronelle, quel che si dice l’Hotel Méridien.
La camera è un guazzabuglio incredibile, una shangai in articoli di fronzoli, biancheria soprattutto, tutta roba fragile, estremamente a buon mercato.
La Signora Vitruve e sua nipote sono in figa tutte e due. Tre siringhe che ci hanno, più una cucina completa e un bidè di gomma. Tutto stivato tra i due letti e un gran vaporizzatore che non sono mai riuscite a spruzzare. Voglio dire non troppo male della Vitruve. Forse lei ha conosciuto più amarezze di me nella vita. È sempre questo che mi ferma. Altrimenti, se fossi certo, le filerei certe sleppe spaventose. Era in fondo al caminetto che lei stazionava la Remington non ancora finita di pagare…Sembra. Non do molto per le mie copie, è esatto così… sessantacinque centesimi la pagina, ma ti quadra lo stesso al conto… Specie con dei grossi volumi.
Da come strabica, laVitruve, ho mai visto peggio. Faceva male a guardare.
Alle carte, ai tarocchi voglio dire, qui le dava prestigio sta strabicheria feroce. Gli faceva alle povere clienti delle calze di seta… anche l’avvenire a credito. Quand’era presa poi dall’incertezza e dalla riflessione, dietro i suoi fanali, di là viaggiava con lo sguardo come vera aragosta.
Specie dopo le “pescate” cresceva il suo ascendente nei contorni. Conosceva tutti i cornuti. Me li indicava dalla finestra, e poi anche i tre assassini, “ci ho le prove!”. In più le avevo regalato per la pressione arteriosa un vecchio apparecchio Laubry e le avevo insegnato un piccolo massaggio per le varici. Giusto una giunta ai suoi incerti. La sua ambizione era gli aborti, o meglio ancora di sguazzare in una rivoluzione di sangue, che dappertutto si parli di lei, che arrivi sui giornali.
Quando la vedevo che rovistava nei recessi del suo bazar potrei mai tutto scrivere quanto mi disgustava. Per tutto l’universo c’è dei camion ogni minuto che schiacciano della brava gente… Lei, madre Vitruve emanava un odore di pepe. Càpita spesso con le rossastre. Hanno credo le rosse, il destino delle bestie: un odore selvatico, tragico, tutto di pelo. L’avrei proprio accoppata quando la sentivo discorrere troppo forte, parlare dei ricordi… Il fuoco al culo come aveva lei, le era poi difficile trovare un poco d’amore. Fuori che un uomo ubriaco. E per giunta che fosse notte buia, lei aveva niente, fortuna! Da quel lato lì mi faceva pena. Io ero più avanti sulla strada delle belle armonie. Neanche questo trovava giusto, lei. Il giorno che fosse necessario io avevo in me quasi da pagarmi la morte!... Vivevo di Estetica. Ne avevo mangiata della figa meravigliosa… devo confessarlo, della vera luce. Mi ero abbuffato, dell’infinito.
Lei aveva manco dei risparmi, questo si sente benissimo, neanche bisogno di parlarne. Per tirar su la crosta e godere per giunta doveva incastrare il cliente con la stanchezza o la sorpresa. Era un inferno.
Dopo le sette, di norma, i piccoli mestieri sono tornati a casa. Le loro donne sono dietro alle stoviglie, il maschio si avvolge nelle onde radio. Allora la Vitruve abbandona il mio bel romanzo per rimediarsi la sussistenza. Da un pianerottolo all’altro, dài che batte con le sue calze un po’ sdrucite, i suoi jersey senza nome. Prima della crisi poteva ancora difendersi grazie al credito e per come rintronava i clienti, ma adesso l’identica mercanzia la danno in premio a quelli che hanno perso alle tre carte e ci hanno da dire. Ci sono più condizioni leali. Ho cercato di spiegarle che era tutta colpa dei giapponesini… Non mi credeva. L’ho accusata di far sparire apposta la mia bella Leggenda giù nelle sue immondizie…
- È un capolavoro! Che aggiunsi. Perciò non c’è dubbio, deve saltar fuori!
Lei si è spanciata dal ridere… Si è rovistato insieme nel mucchio della paccottiglia.
È arrivata la nipote alla fine, molto in ritardo. Bisognava vedere le sue anche. Un vero scandalo come culatta… Tuttavia a pieghe la sua sottana… Per tenere ben sù la nota. La fisarmonica dello spacco. Si perde niente. Il disoccupato è alla disperazione, è sensuale, ci ha no la grana per invitare… S’imballa. “Che culo!” che le avventavano… In piena faccia. In fondo ai corridoi, a forza di rizzare ai fichi secchi. I giovinastri che hanno i tratti più fini degli altri, loro sono ben dotati per affondarci i denti, per farsi cullare dalla vita. È accaduto soltanto più tardi che lei è scesa più in basso per campare!... Dopo tante catastrofi… Al momento si divertiva…
Mica l’ha trovata nemmeno lei la mia bella Leggenda. Se ne fotteva del “Re Krogold”… È me soltanto che m’agitava. La sua scuola per emanciparsi, era il “Petit Panier” un poco prima della Ferrovia, la balera della Porte Brancion.
Non mi levavano gli occhi di dosso quando andavo in bestia. Come “sfessato” a loro giudizio, io tenevo il massimo! Masturba, timido, intellettuale e tutto. Ma adesso di colpo, ci avevano la tremarella che io alzassi le vele. Se avessi preso il vento, mi chiedo quello che avrebbero sbottegato. Sono sicuro che la zia, lei, ci pensava abbastanza spesso. Come sorriso era un brivido quel che mi rifilavano non appena parlavo un poco di viaggi…
La Mireille oltre al culo stupendo, aveva certi occhi da romanza, lo sguardo ladro, ma un naso robusto, un becco, la sua vera croce. Quando volevo un poco umiliarla: “Senza scherzi! che le facevo, Mireille! ci ha proprio il naso d’un uomo!...”. Sapeva anche lei raccontare delle bellissime storie, le piaceva come a un marinaio. Ha inventato tante di quelle cose prima per farmi piacere e poi più tardi per danneggiarmi. Il mio debole di me è di dare ascolto alle buone storie. Lei se ne approfittava ecco tutto. C’è voluta la violenza tra noi per troncare i nostri rapporti, ma è lei che aveva meritato le mille volte il girotondo e anche d’essere accoppata. Ha finito per convenirne. Sono stato davvero molto generoso… L’ho picchiata per delle buone ragioni… Lo hanno detto tutti… Persone che sanno…
Gustin Sabayot, senza fargli un torto, posso proprio ripetere comunque che si strappava mai i capelli riguardo alle diagnosi. Su le nuvole si orientava, lui.
Appena fuori di casa, guardava per prima cosa dritto in aria: “Ferdinand che mi faceva, oggi sono di sicuro reumatismi! Cinque franchi!...”. Leggeva già tutto nel cielo! Si sbagliava mai molto perché conosceva bene la temperatura e i vari temperamenti.
- Ah! ecco un colpo di canicola dopo il fresco! Tienilo a mente! É calomelano puoi già dirlo! L’itterizia è sù nell’aria! Il vento si è girato… Nord-nord-ovest. Freddo con Acquazzone! È bronchite per quindici giorni! Val neanche la pena che si tolgono gli stracci!... Se fossi io a comandare, farei le prescrizioni standomene a letto!... In fondo Ferdinand da quando che arrivano è solo chiacchiere!... Per chi ne fa commercio questo ancora si spiega… ma noialtri?... a Mese? … Che senso ha?... io li curerei senza neanche poi vederli to’, i miei polli! Da oggi stesso! Ci avranno il soffoco né più né meno! Vomiteranno neanche di più, saranno mica meno gialli, né meno rossi, né meno pallidi, né meno stronzi… È la vita!...Per avere ragione, Gustin aveva davvero ragione.
Tu li credi malati?... Chi geme… chi rutta… chi barcolla… chi ci ha le pustole… Vuoi vuotare la tua sala d’aspetto? All’istante? anche di quelli che si strangozzano a spazzarsi via gli scatarri?... Proponi una seduta di cinema!... Un aperitivo gratis di fronte!... Vedrai quanti te ne restano… Se vengono a tormentarti è soprattutto perché si smerdano… Mica ne vedi uno la vigilia delle feste… Ai disgraziati, tieni a mente il mio parere, è il lavoro che manca, no la salute… Quello che vogliono è che tu li distragga, li tenga allegri, li interessi con i loro vomiti… i loro gas… i loro scricchiolî… che tu scopra dei rapporti… delle febbri… dei borboglî… degli inediti!... Che ti dilunghi… che ti appassioni… È per questo che ci hai dei diplomi… Ah! divertirsi con la propria morte intanto che se la fabbrica, ecco tutto l’Uomo, Ferdinand! Se lo terranno caro lo scolo, la sifilide, tutti i loro tubercoli. Ne hanno bisogno! E la vescica tutta bavosa, il retto in fiamme, tutto questo non ha importanza! Ma se ti dai da fare, se sai appassionarli, aspetteranno te per morire, è la tua ricompensa! Ti braccheranno fino alla fine. Quando la pioggia tornava a raffica tra le ciminiere dell’officina elettrica: “Ferdinand, che mi annunziava, ecco le sciatiche!... Se non ne vengono dieci oggi, posso restituire il mio papiro alla Facoltà”. Ma quando la fuliggine si abbassava verso di noi dall’Est, che è il versante più asciutto, su dai forni Bitronelle, lui si schiacciava un grumo nero sul naso: “Voglio che m’inculino! capisci! se sta notte stessa i pleuritici non sputano sangue! Merda a Dio!... Capace che mi svegliano ancora venti volte!...”.
Certe sere semplificava tutto. Montava sullo sgabello davanti all’enorme armadio dei campioni. Era la distribuzione diretta, gratuita e non solenne della farmacia…
- Soffre di palpitazioni? Lei la mia Gambastorta? che domandava alla stracciona. – No, niente!... Niente acidità?... E come perdite?... – Sì, certo! Solo un poco… - allora prenda questo dove so io… in due litri d’acqua… sa, le farà un bene enorme!... E le giunture? Le fanno male?... Ha mica le emorroidi? E di corpo poi ci va?... Ecco delle supposte Pepet!... Un po’ di vermi anche? Ha notato?... Prenda venticinque gocce miracolose… Prima di coricarsi!...
Proponeva tutti i suoi scaffali… Ce n’era per tutti i disturbi, tutte le diatesi e le manie… Un malato è terribilmente ingordo. Dal momento che può mettersi una porcheria nel sacco, non chiede altro, è contento di svignarsela, ha una gran paura che lo si chiami indietro.
Col colpo del regalo, l’ho visto io, Gustin, restringere a dieci minuti delle visite che potevano durare almeno dieci ore se fatte con certe precauzioni. Ma io avevo più niente da imparare sul modo di accorciare. Avevo il mio piccolo sistema mio.
Io è solo a proposito della mia Leggenda che volevo parlargli. Si era ritrovato l’inizio sotto il letto di Mireille. Ero rimasto molto deluso nel rileggerla. Ci aveva no guadagnato col tempo la mia romanza. Dopo qualche anno d’oblio è più che una festa fuori moda l’opera d’immaginazione… Tutto sommato con Gustin potevo sempre avere un’opinione libera e sincera. L’ho fatto entrare subito in tono.
- Gustin che gli faccio, qua non sei sempre stato così coglione come oggi, abbrutito dalle circostanze, il mestiere, la sete, le schiavitù più funeste… Te la senti, per un solo momento, di riassestarti in poesia?... di fare un breve scatto di cuore e di cazzo al racconto di un’epopea, tragica certo, ma nobile, sfolgorante!... Ti credi capace?...
Stava lì Gustin, assopito sul suo sgabello, davanti ai campioni, l’armadio spalancato… Non batteva più ciglio… non voleva interrompermi…
- Si tratta, che lo avevo avvertito, di Gwendor il Magnifico, Principe di Cristiania… Noi arriviamo… Lui spira… nel momento stesso che ti parlo… Il suo sangue sgorga da venti ferite… L’esercito di Gwendor ha appena subito un’orrenda disfatta… Il Re Krogold in persona durante la mischia ha scoperto Gwendor… L’ha steso con un fendente… È mica poltrone Krogold… Si fa giustizia da sé… Gwendor ha tradito… La morte scende su Gwendor e mette una croce al suo travaglio… Ascolta qui!
“Il tumulto del combattimento si va estenuando con le ultime luci del giorno… Lontano svaniscono le ultime Guardie del Re Krogold… Nell’ombra si levano i rantoli dell’immensa agonia di un’armata… Vincitori e vinti rendono l’anima come possono… Il silenzio soffoca uno via l’altro grida e rantoli, più e più deboli, più e più cari…
“Schiacciato sotto una massa di gregari, Gwendor il Magnifico perde ancora sangue… All’alba la morte gli sta di fronte.
- Hai capito Gwendor?
- Ho capito, oh morte! ho capito sin dall’inizio di questa giornata… Ho sentito nel mio cuore, nel mio braccio anche, negli occhi dei miei compagni, nel passo stesso del mio cavallo, un incanto triste e lento simile al sonno… La mia stella si spegneva fra le tue mani di ghiaccio…
Tutto si mise a fuggire! Oh morte! Enormi rimorsi! Immensa è la mia onta!... Guarda questi poveri corpi!... Un’eternità di silenzio non può mitigarla!...
“Non c’è ombra di dolcezza in questo mondo, Gwendor! altro che leggenda! Tutti i regni finiscono in un sogno!...
- Oh morte! Concedimi un poco di tempo… un giorno o due! Voglio sapere chi mi ha tradito…
- Tutto è tradimento, Gwendor… Le passioni non appartengono a nessuno, l’amore, soprattutto, non è che fiore di vita nel giardino della giovinezza.
E la morte pian piano afferra il principe… Lui non si difende più… Il suo peso è svanito… E poi un bel sogno gli riafferra l’anima. Il sogno che faceva spesso quand’era bambino, nella sua culla di pelliccia, nella stanza degli Eredi, accanto alla nutrice morava, nel castello del Re Renato…”.
Gustin aveva le mani che gli penzolavano tra i ginocchi…
- Non è bello? gli chiedo.
Lui non si fidava. Voleva neanche ringiovanire troppo. Stava in difesa. Ha voluto che gli spiegassi ancora tutto… il perché? E il come?... È no così facile… È così fragile come farfalla. Per un niente ti si sbriciola tra le dita, ti lascia un’ombra di sporco. Che cosa ci si guadagna? Non ho insistito.
PROBLEMI DI TRADUZIONE
di Giorgio Caproni
Non ricordo senza tremori il mio «doppiaggio» di Mort à crédit. Fu, da parte mia, un impulsivo atto d’amore, e si sa come ogni atto d’amore, finita l’esaltazione e la gratitudine per quanto s’è ricevuto, lasci sempre l’ombra – rimorso o sospetto – di ciò che in cambio non s’è dato o addirittura s’è tolto. Ora, troppe in me sono le insoddisfazioni che offuscano il ricordo di quell’atto temerario, perché io non ne sia tentato, ogni qualvolta ripenso al mio doppiaggio, di rifar tutto da capo. Anche se oggi più che mai sono convinto, per esperienza fatta, che una lingua italiana atta a tradurre Céline sia ancora da inventare, e che non sono certo io il «genio» capace di giungere a tale invenzione. Un’invenzione che può far soltanto, e coi secoli, il popolo; o peggio, dato che ogni popolo, disinfettato e condizionato dai mass-media, e quindi incapace di invenzioni proprie, non esiste più come plebe, che avrebbe potuto far coi secoli il popolo, se avessimo avuto una storia unitaria e quindi – scusate la lapalissade – una lingua popolare, lentamente maturatasi nei secoli e fino ad oggi tramandatasi, unica da un capo all’altro della penisola.
Quale lingua popolare italiana contrapporre alla lingua della Zone ch’è alla base dello stile céliniano, perfino nelle fulminanti amalgame con tronconi illustri quasi sempre stravolti o ironizzati, o con tratti gergali tra i più rari accanto ai più correnti, nonché delle medesime neoformazioni e deformazioni anche ortografiche spesso di difficilissima interpretazione per gli stessi francesi, come ho potuto constatare interrogandone molti, compresi illustri scrittori che più di una volta mi hanno risposto con un franco «je suis incapable de vous donner le sens de ce mot, et je ne suis pas le seul»? («C’est que la langue de Cèline», mi ha scritto uno di questi, «ne s’aborde pas de front mais un peu comme on lutte à mains plates».)
Primo scoglio da me incontrato, dunque, ancor prima del problema dello stile di Céline («la sua musica»: «la musique, elle est coincée, elle se détériore dans le fond de mon esgourde… Elle en finit pas d’agonir… Elle m’ahurit à coups de trombone… J’ai tous les bruits de la nature, de la flûte au Niagara… Je promène le tambour et un avalanche de trombones… Je fabrique l’Opéra du déluge»), primo scoglio, dicevo, il problema della lingua in genere, visto che da noi al massimo abbiamo vari italiani popolari regionali, scaturiti ciascuno dai vari dialetti. Il problema, infine, dell’argot.
È vero. Nell’argot, o meglio negli argots, v’è un forbicio di vocaboli di pretta derivazione italiana: Poule, per esempio, che nel senso di police vien pari pari da pula (guardia, poliziotto), vocabolo che nelle mia infanzia, oggi non so, s’usava ancora: «Scappa, arriva la pula!»; il comunissimo mec, nel solo senso di homme, che etimologicamente (Gaston Esnault) s’associa al nostro mecco o mecco, appartenente al «bacaglio della mala»; nib, apocope di nibergue (rien, non), venuto dal nostro «furbesco» niberta e niba, oggi trasformatosi in nisba; e infine, per fare un ultimo esempio, quest’altro vocabolo abbastanza frequente in Francia, anche fra gli scrittori: lance, nel senso di eau, rivière, pluie, urine, derivazione diretta dall’italiano lenza o slenza (fiume, pioggia, orina, bevanda), sostantivo verbale di slenzare (orinare). Ma a parte il fatto che quest’ultimo esempio, come tanti e tanti altri, ha cessato da qualche secolo di vivere sulla bocca del popolo, come non correre il rischio, volgendosi verso una traduzione strettamente filologica ed etimologica (penso a con tradotto con conno!), di trasportarsi d’acchito dal piano del volgare (è il termine esatto) a quello del linguaggio erudito, o culto, o macaronico, vale a dire cultissimo, e compiere quindi proprio l’inverso dell’operazione Céline?
Eppoi. È possibile travasare la storia della Zone sul Naviglio o sul Tevere o sull’Arno? Un clochard non è un barbone, a dispetto dei vocabolari. Lo negano la storia e la geografia. Così come del resto un cleb non è un cane, ma semmai un cane che non è un cane, come nel gioco dei bambini, dato che fra cleb e chien, anche se zoo logicamente sono la stessa bestia, esiste un abisso «sentimentale» a separar l’uno dall’altro. Tradurre cleb con cane equivarrebbe a compiere una doppia traduzione, prima da cleb a chien, poi da chien a cane. Insomma, sarebbe un tradurre chien e non cleb: tradurre una parola (una res) che sul testo non esiste. (Ma esistevano davvero «parole», come segni trasferibili da un codice convenuto a un altro, sulla pagina di Céline, o non piuttosto esistono «cose» intrasferibili? La «lingua» di Céline è natura, natura governata dallo stile, ma natura. Già a cominciar dal titolo dell’opera da me doppiata, mi sono reso conto di una tale intrasferibilità. Mort à crédit è proprio o è soltanto Morte a credito? «C’est pas gratuit de crever», scrive Céline, è vero. E ancora, scrive: «J’avais presque que me payer la mort». Ma vuol proprio o soltanto dire qualcosa come «la morte si sconta vivendo»? Prendiamo frasi della lingua corrente, o d’autori «regolari»: «Vous vous donnez de la peine à crédit»; «Toutes les opinions que nous avons nous les avons que par autorité; nous croyons, jugeons, vivons et mourons à crédit». Sono esempi tolti da un vocabolario francese accademico, e d’autori «illustri», ma bastano a metter la pulce nell’orecchio, mi sembra.)
Ho dovuto dunque rinunziare a un trasbordo letterale, quando questo era impossibile o controproducente, per cercar invece di ripetere, coi laterizi offertimi dalle nostre lingue popolari, il gioco compiuto da Céline sulla sua lingua popolare. E dirò che in questo m’ha assistito la fortuna, o meglio il caso. Nella mia infanzia infatti, trascorsa un po’ a Livorno, un po’ a Genova e un po’ altrove (sempre in punti d’incrocio, anche linguisticamente), sono sempre stato circondato da personaggi molto simili a quelli di Mort à crédit. In casa mia c’era perfino un «inventore» somigliantissimo al De Pereires, e allora erano ancora in auge le dispense del Flammarion. E il linguaggio della mia versione o diversione, più che nei dizionari, l’ho cercato tornando, anzi calando con la memoria fra quei personaggi. Un linguaggio ibrido e curioso, preso in prestito dai vari dialetti spesso fraintesi e deformati, com’era appunto l’«italiano» dei miei nonni o zii o conoscenti, e com’è l’italiano in tutti i porti di mare, cercando di recuperarne la forza espressiva, la vis comica («Je suis marrant, si je veux», dice Ferdinand) e, soprattutto, l’anarchismo, e ricorrendo anch’io qualche volta, non certo con la forza di Céline, ai miei travisamenti e alle mie invenzioni, magari«fuori testo», per dare in qualche modo il colore, ad esempio, del linguaggio pseudo-colto di Auguste o di Courtial, personaggi mediante i quali Cèline aggredisce più violentemente il «francese» di «Lustucru» (L’eusses-tu-cru?).
Detta la difficoltà madre, che forse ho soltanto aggirato, restano le varie «piccole» difficoltà tecniche non meno sgomentanti, delle quali ecco un solo esempio, e non certo scelto tra i più terribili:
La mère Vitruve tape mes romans. Elle m’est attachée. «Écoute! que je lui fais, chère daronne, c’est la dernière fois que je t’engueule!... Si tu ne retrouves pas ma Légende, tu peux dire que c’est la fin, que c’est le bout de notre amitié. Plus de collaboration confiante!... Plus de rassis!... Fini le tutu!... Plus d’haricots!...».
Come restituire la tinta d’estrema miseria (Ferdinand, spiantato, pagava in natura la sua collaboratrice) di queste tre ultime minacce a doppio taglio? E, soprattutto, come restituire insieme il senso alimentare pressoché ovvio (Rassis = pain rassis, tutu = vin, haricots = …haricots) e il senso erotico-osceno (Rassis = masturbazione, tutu = culetto, haricot = clitoride)? Non so se il mio salto acrobatico abbia sfondato il cerchio.
E che dire poi dell’esplosività con cui certe risoluzioni d’ira céliniane cadono sulla pagina improvvise, lasciando senza respiro il povero traduttore?
C’est un métier pénible le nôtre, la consultation… Presque tous les gens ils posent des questions lassantes. Ça sert à rien qu’on se dépêche , il faut leur repeater vingt fois tous les details de l’ordonnance. Ils ont plaisir à faire causer, à ce qu’on s’épuise… Ils en feront rien des beaux conseils, rien du tout. Mais ils ont peur qu’on se donne pas de mal, pour être plus sûrs ils insistent; c’est des ventouses, des radios, des prises… qu’on les tripote de haut en bas… Qu’on mesure tout… L’artérielle et puis la connerie…
Leggendo oggi Pompes funèbres di Genet, trovo:
Il n’y a pas de doute, me dis-je, c’est ici… Je m’arrêtai là. «Ici», et les mots qui devaient suivre: «qu’on l’a tué» prononcés, fût-ce mentalement, apportaient à ma douleur une précision physique qui l’exaspérait… Je me forçai à dire, à me redire avec l’agaçante répétition des scies I-ci, I-ci, I-ci, I-ci, I-ci… «I-ci, I-ci, I-ci. Qu’on l’a tué, qu’on l’a tué, con l’a tué…» et je fis mentalement cette épitaphe: « con l’a tué».
Ma quella che in Céline era vulcanica conflagrazione della sua natura contro la stessa lingua da lui usata, e prodottasi sulla pagina senza che un istante prima Céline l’avesse in mente (qu’on, qu’on, connerie), in Genet, che sente il bisogno di padellare qu’on = con, appare gioco premeditato e calcolato, ruse di scrittore se non proprio letteratura, anche se ciò non toglie nulla alle reali dimensioni de «genêt d’Espagne, cette plante épineuse».
Ho due soli esempi, e non certo, ripeto, fra i più terribili, e mi fermo qui, anche perché la mia mente è ormai lontana dai giorni della mia prova, né io oso per il momento riesaminare i miei disordinati appunti e aumentare le ombre che sono in me. Non ultime delle quali, quelle prodotte dalle tremende parole turchine e dalla resistenza opposta – certo a ragion veduta – dall’Editore, tale da inibirmi la traduzione in nostrano senso chiaro di espressioni, che so, come «je me suis tapé un tout petit rassis, prendre son pied» eccetera. Donde quei buchi bianchi (del resto già abbondanti nell’edizione francese da me seguita, non essendo allora ancor apparso il volume della Pléiade), e gli eufemismi, se non proprio travisamenti che com’ho detto qua e là non mancano e che, pungendomi come spine, sempre più m’invogliano a ritentar per mio conto la prova, affascinante appunto perché – forse – impossibile e disperata.
Con tutto ciò, un frutto l’ho certamente tratto da questa mia «esperienza di traduttore», per cui non rimpiango affatto la fatica che, accanto all’esaltazione (una fatica anch’essa), m’è costata: l’aver imparato a «parler après ça plus dolcemente aux choses», una lezione di bontà insomma, e di coraggio anche (Courage pour soi!) e l’aver scopeto mot à mot, se non proprio il senso, il «cuore» (sì, il cuore, anche se detesto il cuore in s.p.e. di De Amicis) di colui ch’è considerato – forse anche dalla mia ragione e dalla mia coscienza – il più «abominevole» ed «esecrabile» degli uomini. Un capitolo, questo, che però spetta ad altri trattare.