domenica 28 giugno 2015

La Distruzione, di Dante Virgili, ristampa 2015




"Ma... la prossima volta, non saranno eterni santuari. Le città yankee combuste dilaniate. VEDO i grattacieli di acciaio sotto un diluvio di fiamme."

Nel 1970, Dante Virgili pubblicò il suo primo romanzo senza ricorrere all'uso di pseudonimi, La Distruzione. Scritto come una sorta di autobiografia onirica, con una scrittura decisamente sperimentale, il romanzo è un flusso di coscienza costruito come una sequela di farneticazioni d’un modesto correttore di bozze, ex interprete delle SS in Italia durante la Guerra Civile, e rappresenta, assieme al successivo Metodo della Sopravvivenza, una delle poche opere di rottura letteraria nel panorama italiano. Presto esaurito e dimenticato, è qui ristampato in una edizione ricercata. In appendice, resoconti giornalistici sulla sorte dei resti mortali di Dante Virgili e sulla recente riuscita iniziativa per salvarli dall'oblio.

F.to 14x21, 210 pagg., edito da OFF TOPIC.

Ristampa 2015 per l'iniziativa "Salviamo La Distruzione!"

Edizione limitata a 100 copie, Euro 20,00 ESAURITA
Edizione numerata e nominativa personalizzata (comunicare nome nel modulo di pagamento), Euro 50,00 POCHE COPIE

Per acquistare il libro, cliccate sotto!

domenica 7 giugno 2015

"La morte di Céline" recensita da Massimo Raffaeli su "Alias"





SU CÉLINE
Dominique De Roux, elettrica e deragliante apologia in forma di poemetto: anno, precoce, il 1966
di MASSIMO RAFFAELI

Non solo esiste in Francia una cultura di destra ma ha sempre avuto un posto di rilievo quella che viene detta buissonnière e cioè fuori schema, irregolare, perdigiorno. Comunque non perdette un giorno della sua vita troppo breve, minata dalla cardiopatia, Io scrittore poligrafo Dominique De Roux (1935-1977), della cui folta bibliografia il solo testimone in italiano a tutt'oggi è il romanzo borghese, quasi un apprendistato della inconcludenza e della abulia, che una decina di anni fa comparve negli «Oscar» Mondadori col titolo originale di Mademoiselle Anicet. Giornalista, inviato in Angola e Mozambico (memorabile una sua intervista al colonnello Otelo de Carvalho, leader della «rivoluzione dei garofani» in Portogallo), saggista e critico letterario
(altrettanto memorabile un suo studio sullo stile oratorio, nientemeno, del generale De Canile), in realtà De Roux è stato innanzitutto un grande promotore di cultura e il fondatore, giovanissimo, dei «Cahiers de l'Herne» dove propose ritratti monografici di autori allora contropelo quali Pound, Borges, Gombrowicz (con cui firmò un bel libro di conversazioni) e finalmente Louis-Ferdinand Céline che, al principio degli anni sessanta, per il senso comune era l'impresentabile tout court, non tanto l'autore di quello che fu definito il solo romanzo «comunista» del secolo, Viaggio al termine della notte, quanto l'immondo firmatario di libelli antisemiti, a partire da Bagatelle per un massacro. Dalla officina dei «Cahiers» (ben due numeri monografici, tra il '63 e il '65), De Roux dedusse una vera e propria apologia che pubblicò una prima volta nel '66, La morte di Céline (traduzione di
Valerla Ferretti, a cura di Andrea Lombardi, prefazione di Mare Laudelout, Lantana, pp.132, € 16.00). Scritto in un'unica presa di fiato, ritmato da uno stile elettrico, deragliante e sprezzante di qualunque convenzione accademica, La morte di Céline è.un poemetto in prosa costruito per capitoli brevi come fosse un album di istantanee su cui aleggino tanto la vicenda biografica quanto la leggenda del dottor Destouches che prende forma di via crucis e in sostanza, vale a dire per etimologia, di martirio. Se De Roux avalla con un certo candore gli alibi e le menzogne autoassolutorie di Celine (il suo razzismo come esorcismo di una guerra voluta dagli ebrei), tuttavia ha il merito di rivendicare con precocità, e anzi in solitudine, la forza di una scrittura che dal Viaggio alla Trilogia del Nord sa dragare la vita dal basso, stilizzarne la cadenza emotiva come si trattasse, per il
prodigio di un'arte lenticolare, di un Flaubert delle viscere e del buio puramente animale. Qui De Roux ha buon gioco nell'opporre la originalità della petite musique céliniana, la fosca violenza di un immaginario sempre incandescente a certo schematismo surrealista e al sussiego accademico che nei primi anni sessanta ipoteca sia il Nouveau Roman sia, specialmente, la produzione letteraria sostenuta da Tel Quel: «Constatare la tragica impasse della letteratura odierna non è ancora veramente dire che è defunta, ma è invocare il fuoco della vendetta che le restituirà la vita, e nuova leggerezza al linguaggio. Nel frattempo regnano il notariato più arido e lo stile letterario misurato. Dappertutto, descrizioni amorevoli del mestiere di scrivere o il processo verbale autobiografico». Oggi è vero talvolta il contrario, ma non era da opportunisti dirsi allora partigiani di Céline.

Il manifesto, 7/6/2015

mercoledì 3 giugno 2015

"La morte di Céline" recensito da Francesco Borgonovo su Libero



Céline proibito. [...] Lo splendido libro di De Roux “La morte di Céline” ne racconta l’anima, andando all’origine del suo antisemitismo
Libero, mercoledì 3 giugno 2015
La morte di Louis-Ferdinand Céline è un caso di omicidio. Premeditato e messo in pratica con scientifica precisione, senza pietà né rimpianti. «Céline fu ucciso dai suoi colleghi scrittori», dice lapidario Dominique De Roux in uno splendido libro intitolato La morte di Céline, pubblicato per la prima volta in Italia grazie al curatore Andrea Lombardi e all’editore Lantana (pp. 140, euro 16). De Roux ha i gradi per parlare: nel 1961, proprio l’anno in cui Céline crepa – povero, trattato come un rifiuto radioattivo dagl’intellettuali – e viene sepolto quasi in silenzio nel cimitero di Meudon, egli fondò i Cahiers de l’Herne. Da quelle pagine passò la riscoperta (o addirittura la scoperta) di un pugno d’autori fenomenali, deprezzati o direttamente disprezzati dall’accademia e dalla cultura ufficiale. Céline, appunto (a cui fu dedicato il terzo numero dei Cahiers), Ezra Pound, H.P. Lovecraft, Solzenicyn, Koestler. E poi Witold Gombrowicz, uno dei preferiti di De Roux: le conversazioni tra i due sono divenute un grande libro, tradotto in Italia da Feltrinelli col titolo Testamento.
La morte di Céline uscì in Francia nel 1966, e non è un testo di critica – come specifica l’autore – bensì una narrazione polemica e sfavillante, quasi celiniana, che indaga le profondità dell’opera del «maledetto» per eccellenza. Se è possibile spiegare Céline, tanto del suo significato si trova nelle pagine di De Roux, che a volte ne prendono gli scoppiettii jazzistici e ne condividono le intemerate contro l’universo molliccio delle lettere francesi. Un mondo ottuso che mise all’indice Céline e, appunto, lo uccise. Fu accoppato, Céline, «da questa consorteria di gentucola unita (in ogni epoca) per autocompiacersi del proprio talento e scacciare l’uomo libero, lo scrittore senza compromessi, colui che finisce in cella, in fin dei conti, per il suo rifiuto di appartenere a chicchessia», scrive De Roux. «Dal 1932 Céline, malgrado il successo, o lo scandalo, fu maledetto. Rifiutò subito di entrar a far parte della “sua” famiglia e, come scriveva, dei “suoi” compagni di strada». Come si sa, a pesare più d’ogni altra cosa sulla sorte di Louis-Ferdinand fu la patacca di «antisemita», che gli rimase impressa in virtù del trittico di pamphlet pubblicati tra il 1937 e il 1941: Bagattelle per un massacro, La scuola dei cadaveri e I bei pasticci. Tre libri su cui il marchio d’infamia è perenne, tanto che non si possono ripubblicare. Almeno ufficialmente, perché vagando per librerie (specialmente online) si possono acquistare ristampe anastatiche dell’edizione Corbaccio, e sempre su internet c’è chi ha reso disponibile il pdf dell’edizione Guanda del 1981. Ma, appunto, bisogna andare a cercare col lume, e al grande pubblico queste opere sono tutt’ora interdette. Un divieto ridicolo, come se l’antisemitismo celiniano potesse oggi far danni. Tanto più che, in quei libri, Céline non se la prende solo con gli ebrei. Ne ha per tutti, hitleriani compresi. Quale fosse poi la ratio del suo antisemitismo, lo spiega proprio Dominique De Roux: «Per Céline», scrive, «il termine Ebreo non ha il suo significato abituale. Non indica un preciso gruppo etnico o religioso: lo dimostra il fatto che sotto questo vocabolo avrebbe potuto raggruppare tutti gli uomini, compreso lui. Il termine, ai suoi occhi, ha qualcosa di magico. Vi ripone tutta la sua paura. L’Ebreo, per lui, è il profittatore della guerra, quello che la voce popolare chiama il mercante di armi, le Duecento Famiglie. Mai questa sensibilità infinitamente soave avrebbe tollerato la minima persecuzione razziale, dato che non poteva sopportare il dolore negli altri, e fondava i suoi princìpi terapeutici non sui veri rimedi, ma sui calmanti e la medicina preventiva. (...) Aveva il progetto di scongiurare il male presente o futuro, pronunciando la parola Ebreo in cui voleva fissare tutta una carica malefica, tutti i crimini di questo mondo che incarna in sé le Erinni, le divoratrici, le cagne grigie dell’alba. Cinque anni dopo, i cani di Himmler, invece di dare la caccia ai criminali vanno a caccia degli innocenti». 
Francesco Borgonovo