domenica 29 dicembre 2013

André Breton, di Giovanni Bruzzi

Stimolato dalla tesi di Francesca Bergadano sul rapporto tra Céline e il surrealismo che abbiamo postato qualche tempo fa, il pittore, amico e céliniano Giovanni Bruzzi ci ha invitato questo ritratto di Breton, e un ricordo del suo incontro con il poeta.


Il poeta José Montero-Valle, attraverso una sua cara amica che lavorava presso l'Editore Gallimard, mi comunicò l'indirizzo di André Breton, che io volevo assolutamente conoscere. Un pomeriggio (dicembre 1961) mi recai al 42 Rue Fontaine (subito sotto Place Pigalle, proprio accanto ad un piccolo teatro), dove dunque abitava il celebre poeta, inventore del Surrealismo, forse il movimento artistico più importante del nostro secolo. La casa era molto modesta e mi dovetti fare indicare dal concierge il piano e la porta dell'appartamento di Breton, perchè nessuna indicazione compariva all'esterno. Suonato il campanello, mi vidi aprire l'uscio proprio dal poeta in persona che, sentite le mie ragioni, mi concesse un appuntamento per la domenica successiva alle ore 11. Al rendez-vous concordato, mi presentai con alcune mie tele arrotolate, che avevo realizzato a Parigi. André Breton fu molto cordiale con me e si dimostrò interessato al mio lavoro, lodandone il livello tecnico e lo stile personale raggiunti, anche se precisò subito che, non essendo un pittore di tendenza surrealista, ero fuori dalle sue competenze dirette; presenziò al colloquio anche la sua gentile consorte. Conversammo per più di due ore, toccando argomenti diversi come quello delle riviste d'arte da lui fondate ("Litterature", "Minotaure"), del suo rapporto turbolento con Giorgio De Chirico (che io avevo conosciuto personalmente nel marzo del 1960 a Roma), fino a giungere alla recente grande esposizione da lui organizzata nel 1959 a Parigi sul tema dell'eros e che era stata un clamoroso insuccesso, chiaro sintomo che il Surrealismo, nonostante le scandalistiche stravaganze messe in atto, aveva irrimediabilmente imboccato il viale del tramonto e di questo lui ne era consapevole. Al riguardo delle difficoltà oggettive del vivere a Parigi, mi consigliò, con molto garbo, di trovarmi per almeno altri 15 anni (ne avevo allora 25) una fonte alternativa di sostentamento all'ipotetica vendita dei quadri e mi consigliò anche di fare una visita alla "Galerie Fϋrstenberg", perchè poteva essere interessata alla mia pittura (in seguito mi recai alla sopradetta galleria ma non trovai una buona accoglienza, anche se conobbi in quell'occasione due valenti pittori come Henri Michaux e Stanislao Lepri). Approfittai di quell'incontro per schizzare a penna un veloce ritratto di André Breton che a lui sembrò piacere. La cosa più straordinaria di quella visita fu il corredo di capolavori della pittura surrealista che il geniale poeta aveva accumulato durante gli anni; tutti i più grandi artisti erano rappresentati con opere fondamentali: Yves Tanguy, Joan Mirò, Max Ernst, André Masson, Arshile Gorky, René Magritte, Man Ray, Victor Brauner, Hans Bellmer, Francis Picabia, Paul Delvaux, Sebastian Matta, Wifredo Lam. Però qui voglio ricordare solamente i dipinti che mi colpirono di più: "Il cervello del bambino" di Giorgio De Chirico (l'unico quadro acquistato nella sua vita, mi confidò Breton, perchè tutti gli altri sono stati degli omaggi dei suoi amici pittori), "Il sogno di Guglielmo Tell" di Salvador Dalì, "Ritratto di George Washington" di Marcel Duchamp e un piccolo olio cubista di Pablo Picasso dedicato proprio ad André Breton, il giorno stesso della Liberazione di Parigi, nel 1945. Completavano la decorazione dell'ambiente alcuni grandi totem in legno scolpiti dai Pellerossa d'America. Una casa fantastica, come il grande poeta che l'abitava.


Giovanni Bruzzi

"Tutto è permesso tranne che dubitare dell’Uomo"


"Sono anarchico da sempre, non ho mai vo­tato, non voterò mai per niente né per nessu­no. Non credo negli uomini. Perché vuole che mi metta d’improvviso a suonare lo zufolo so­lo perché decine e decine di falliti me lo suo­nano? io che me la cavo piuttosto bene col pianoforte? Perché? Per mettermi al loro livel­lo di gente meschina, rabbiosa, invidiosa, pie­na d'odio, bastarda? Questa è davvero buona. Non ho niente in comune con tutti questi froci - che sbraitano le loro balorde supposizioni e non capiscono nulla. Si immagina a pensare e a lavorare fra le grinfie di quel gran coglione di Aragon, per esempio? Questo sarebbe l'av­venire? Colui che dovrei adorare, è Aragon! Puah! […] Non sente, ami­co, l’Ipocrisia, l’immonda tartuferia di tutte queste parole d’ordine ventriloque! […] I nazisti mi detestano al pari dei socialisti, e i comunisti anche, senza contare Henri de Régnier o Comoedia. Si in­tendono tutti quando si tratta di sputarmi ad­dosso. Tutto è permesso tranne che dubitare dell’Uomo. Allora non c’è più niente da ri­dere.
Ho fatto la prova. Ma io me ne frego, di tutti.
Non chiedo nulla a nessuno".

Céline a Elie Faure, 1934

mercoledì 13 novembre 2013

Scrittura e oralità nell'opera di L.-F. Céline, di Giulia Grementieri




Siamo felici di postare questo estratto della tesi di laurea di Giulia Grementieri, intitolata "Scrittura e oralità nell'opera di L.-F- Céline" e la ringraziamo per le belle parole sul nostro blog riportate nel secondo paragrafo postato.

2.2 Tecnica e stile di Céline
  
Personalità eccentrica e fortemente contraddittoria Louis-Ferdinand Céline, come abbiamo visto non nasce con l’intenzione di fare lo scrittore: infatti non ha radici dalla letteratura ma ha una formazione in ambito medico. Céline è stato il primo scrittore nel Novecento a introdurre nella lingua scritta il sentimento, l’emozione della lingua parlata e l’autenticità. Lo stile letterario di Louis-Ferdinand Céline è spesso definito, e a lui va il merito, per aver rappresentato una «rivoluzione letteraria»[1].
Egli ha inventato un modo nuovo di scrivere, un linguaggio riconoscibile e ha spaziato in ogni campo, dalla letteratura alla musica.
Louis-Ferdinand Céline appartiene a una serie letteraria che comincia con scrittori come Ernest Hemingway, con un abbandono totale del racconto psicologico, e si avvicina a letterati come James Joyce e Samuel Beckett. Spesso, però, il nome di Céline è accostato ad un altro grandissimo scrittore come Marcel Proust. Proust e Céline, entrambi bretoni, sono stati, riconosciuti, infatti, come i più grandi romanzieri francesi del Novecento attraverso l’originalità della loro scrittura, per il loro stile inconfondibile.
Come fa notare Vitoux, i loro romanzi sono molto dissimili e i due autori si presentano distanti «à des années-lumière l’un de l’autre»[2] .
Come nota Jean Bloch-Michel: «les lecteurs de Céline ne sont pas ceux que cette œuvre touche parce qu’il s’y trouvent à leur aise, dans un language qui est leur», ma «plutôt ceux qui sont sensibiles à des qualités esthétiques extrêmement raffinées qu’ils découvrent dans cette œuvre»: insomma, essi «apparteinnent à la même famille que les lecteurs de Proust ou de Dostoïevsky: ce sont simplement des gens qui aiment la littérature, non des gens à qui Céline a ouvert l’accès a la littérature»[3].
Dal punto di vista stilistico Céline ha compiuto l’impossibile miracolo di introdurre il “parlato” nella scrittura e ha creato una forma letteraria e una rivoluzione stilistica senza precedenti che verrà omaggiata e riprodotta  da molti scrittori successivi come Charles Bukowski ed Henry Miller. Bukowski in confronto a Céline risulta meno graffiante e più di facile lettura, la sintassi  è meno strutturata e decisamente vicina alla “cattiva scrittura” di cui Céline faceva uso e di cui lo scrittore americano era grande estimatore infatti, nei suoi libri cita lo scrittore francese più volte, a partire da Shakespeare non l’ha mai fatto, fino al suo ultimo romanzo Pulp. Una storia del XX secolo, verso il quale si dichiara debitore[4].
Ha dichiarato Céline stesso:

[...] La cosa che mi interessa più di tutto è scrivere, dire tutto quello che ho da dire, con passione; non potrei fare altrimenti. Ci ho messo gli anni a mettere giù Viaggio al termine della notte. Ma ce ne vorranno forse cinque di anni per scrivere il libro che ho cominciato. Voglio che sia come una cattedrale gotica. Ci saranno buoni e cattivi, assassini, massoni, come viene in principio, finché tutto prenderà ordine, se ne avrò la forza, come in una cattedrale. [...] Il mio stile? Se lo abbasso al livello famigliare e volgare, è perché è così che lo voglio[5].

Gli idiomi creati da Céline non esistono, un aspetto importante dello stile celiniano è dato dall’importanza dei neologismi, parole che l’autore inventa.
Nel tono, nel linguaggio, nei luoghi descritti e nelle atmosfere sociali si comprende lo squallore dell’esistenza umana, del suo degrado. La narrazione si fa grido e ritmo, sostenuto da un linguaggio fatto di un argot popolare. I personaggi vivono in un’immobilità stagnante, fatale, ineluttabile, per cui tutto procede senza che si possa intervenire. Il suo stile è anticonformista, si basa sul linguaggio parlato, e conferisce autenticità alle emozioni descritte[6].
Lo stile di Céline, scrive Lanuzza, si compone di una dialettica che erompe nella sua scrittura, si riversa in un vero e proprio caos: fluido, magmatico e fluttuante. Uno scorrere che nell’argot tipico-delirante dello scrittore trova il suo miglior linguaggio espressivo-comunicativo. Una scrittura e uno stile letteralmente sovversivo e innovativo. Dal taglio originale, come se fosse un inarrestabile Joyciano flusso di coscienza, che scompiglia la scrittura simbolica nell’ordine del discorso. Anche la sintassi viene messa a soqquadro:

Tre puntini di sospensione e punto esclamativo. Frasi con intonazioni sospensive […] e frasi con intonazioni esclamative: un po’ in tutte le narrazioni […] Céline, manieristico imitatore di sé stesso, le adopera per dare alla frase un ritmo sincopato, attuare una scansione musicale delle proposizioni e inventarsi una logica enunciativa ellittica e senza subordinate. […] Stile esclamativo”! di Céline: d’un autore che non interroga ma dà risposte. Sempre perentorie[7].

Un argot come gesto e grido che insiste sul significato risonante, prosegue Lanuzza:

una specie di instancabile passo semantico, di orgiastico spasimo metrico ritmante l’insofferenza e, ancor più, l’esacrazione […] Scrittura non sequenziale, quella di Céline: leggibile per impressioni ed emozioni liberamente collegate. […] In sovrappiù […] c’è l’aggiunta del tema dell’odio: odio per la lingua del potere, odio di chi scrive in nome della volontà di potenza della parola contro la storia della società[8].

Alberto Albasino, che incontrò, a Meudon, Céline descrisse la sua esperienza e tratteggiò Céline come un medico dedito ai suoi pazienti e uno scrittore scrupolosissimo, sempre alla ricerca del modo di rendere l’emozione nello scritto, tanto da etichettare lo scrittore con l’ appellativo di “stilista”. Lui in un intervista usa a dare questa spiegazione: «Perché io sono uno stilista, solo questo. [...] Mi importa soltanto lo stile [...]. Ma a me interessa solo il punto di vista emotivo: solo questo appare nel libro»[9].
Nel suo saggio Poétique de Céline Henri Godard sottolinea che, nonostante la plurivocità dell’autore, la sua voce rimane «unica» e rappresenta la forza dell’opera:

Essa [la voce] si è imposta di primo acchito, poi riaffermata di libro in libro: è essa che ritroviamo, identica a se stessa, interamente presente e impossibile da confondere, in qualunque pagina dei suoi romanzi. La plurivocità che essa coltiva non è che uno dei suoi caratteri, i suoi accenti sono dipendenti da essa. Al di là dei suoi effetti, per quanto ricchi e sottili siano, c’è una maniera, diversa da tutte le altre e consustanziale all’opera, di scrivere il francese, ed è prima di tutto a questa maniera che diamo il nome di Céline[10].

Secondo Alexander Styhre l’uso sperimentale dei puntini di sospensione come dispositivo letterario nella scrittura di Céline porta alla pura innovazione, sorprendentemente poco curata dalla letteratura, e alla capacità d’innovare allo stesso modo con  i segni grafici del trattino o la virgola[11].
L’eccellenza del linguaggio celiniano, inarrivabile per qualsiasi altro scrittore e, contrariamente a quanto immaginabile frutto di un pazientissimo, ed accuratissimo lavoro, di come una data frase può essere scritta per suscitare la giusta emozione, come per le pagine dei manoscritti di uno dei libri, da molti considerati come minori, della Trilogia del Nord, Céline, scriveva decine e decine di migliaia di pagine. Come afferma Badellino nella terza parte del suo scritto:

La cosa che più mi colpisce, aprendo un libro di Céline […] è certamente il linguaggio. Un brano tipo di Céline è pieno zeppo di “allucinazioni, deliri, controsensi”, il tutto imbastito nel suo linguaggio funambolesco che ha tanto del soliloquio del demente. […] Ogni pagina, lontana dall’essere scritta di getto come sembra, è frutto di molteplici riscritture e di un pazientissimo lavoro di lima[12].

E spiega: «Céline, con la sua “Petit Musique”, come egli stesso ebbe a chiamarla, creò uno stile che raggiunge il nucleo incandescente dell’emozione originaria»[13].
La sua lingua affronta diversi periodi raggiunge l’apice sperimentalista negli anni ’50 con Guignol’s band (1944) e La Trilogia del Nord dove la scrittura si presenta in maniera stranissima: piena di puntini di sospensione e piena di punti esclamativi come a replicare le pause e l’incisività nel discorso parlato. Il parlato si presenta molto esasperato, la lingua appare disarticolata, i personaggi balbettano e bofonchiano. Riguardo al primo, a parere di Celati le pagine di questo libro sarebbero:

pura musica di parole, che a me sembrano il più audace tentativo mai fatto per narrare uno stile musicale: per sfuggire quel genere di divagazione sospesa e senza oggetto che solo la musica può compiere[14].

In un intervento del 1980, dopo aver manifestato la propria attrazione per le parole celiniane così asfissianti e distruttive ma vibranti di un ritmo senza pari, Celati parla di scrittura jazzisticamente orientata che faccia finta con «le frasi a braccio-di-morto-che-cade»[15], poiché «scrivere jazz si potrebbe a svelti passaggi, piccoli silenzi, e variazioni d’improvviso che portan via»[16], Gianni Celati invita a leggere a voce alta Guignol’s Band; che egli stava allora traducendo per Einaudi, interpretandone l’anima musicale e focalizzando: «I toni bassi. E i piccoli silenzi, le riprese, le note stridule, le scale con variazioni al momento giusto. La voce-strumento e la penna-sax»[17]. Convinto che l’emozione possa essere catturata solo attraverso il linguaggio parlato, Céline impegna la propria scrittura in questo trasferimento dal parlato allo scritto assumendo la qualità logica e grammaticale del discorso alle urgenze dell’enunciazione. Il parlato si propone proprio come il parlato reale che trasmette emozioni,  la lingua è come destrutturata e dà l’impressione che lo scrittore voglia procedere solamente per suoni come a richiamare un recupero del primordiale che rompa con il formale. Secondo Julia Kristeva in Guignol’s Band sarebbe proprio la scrittura céliniana a produrre la strategia musicale – che utilizza prevalentemente i processi della segmentazione e dell’ellissi sintattica: «Céline musicista si rivela uno specialista della lingua parlata, un grammatico che concilia mirabilmente la melodia e la logica»[18].
Céline rifiuta in realtà di dare un centro a ogni unità del racconto. Introduce differenti novità lessicali, come vocaboli che non hanno equivalente in italiano e nelle altre lingue, un ritmo originale. Céline, come nella sua personalità, è uno scrittore contradditorio; il suo stile mescola il linguaggio orale al linguaggio scritto ed è facilmente identificabile e riconoscibile. La sua scrittura è chiaramente dominata dalla violenza, le frasi sono brevi spesso esclamative. La ripetizione di uno stesso gesto o di una stessa parola genera una particolare ritmicità. Il suo linguaggio si compone di neologismi, onomatopee e di vocaboli che imitano i suoni della quotidianità. Céline ha uno stile particolare nei suoi romanzi, tale ritmo distintivo domanda al suo autore un riguardo del tutto particolare.

2.3 Le comunità céliniane

In Italia c’è sempre stato un occhio di riguardo verso Louis-Ferdinand Céline, in particolare nell’ultimo periodo, e anche in occasione del cinquantesimo anniversario della morte avvenuta nel 1961. Nei decenni successivi alla sua morte e con la rivisitazione storica e la rivalutazione commerciale sono aumentati i lettori di questo grande scrittore.
Alcuni di questi, tra i più “fedeli” hanno contribuito alla diffusione biografica e letteraria di Céline, tantissimi gli ammiratori e le comunità che si sono create negli anni nelle quali è vivo non solo il ricordo letterario dell’opera, ma anche il dibattito e il confronto tra i suoi “seguaci”. Una di queste grandi comunità è per esempio quella creata da Andrea Lombardi e Gilberto Tura, uno dei primi blog italiani animato da post e notizie, testimonianze, interviste ed estratti, anche rari, della vita e dell’opera dello scrittore[19]. Particolarmente visitato è anche lo spazio, all’interno del blog, dedicato alle iniziative presenti e future quali conferenze, convegni, recensioni dove il tema centrale è sempre il percorso letterario di Céline. Attualmente in Italia sono stimati in circa migliaia lettori dell’opera céliniana, e questo fenomeno risulta ancor più presente, diffuso e amplificato in Francia dove tra i principali siti dedicati allo scrittore segnalo i più noti: LE PETIT CÉLINIEN sito di attualità celiniana[20], Société d’études céliniennes[21], l’ottimo L’ombre de Louis-Ferdinand Céline, “Réflexions, commentaires et critiques sur l’écriture, la vie et l’esprit de Céline” di Pierre Lalanne[22], Céline en phrases, sito diretto da Michel Molus[23], e la bibliografia degli scritti dello scrittore di Jean-Pierre Dauphin e Pascal Fouché[24].
È interessante analizzare come l’influenza letteraria di Céline si sia consolidata dopo la sua morte. Anche la critica si è esposta sempre di più con giudizi positivi riuscendo a ridurre al minimo l’influenza negativa avuta dal pensiero politico dello scrittore e difficilmente accettato soprattutto nel periodo post-bellico. Non solo la letteratura ma anche il ruolo della censura è stato completamente rimesso in discussione, scardinato dal coraggio e dalla violenza lirica del fluire delle pagine celiniane così come Céline pochi altri hanno avuto questo ruolo di frantumazione con un certo tipo di critica moralistica: tra questi si può certamente ricordare Henry Miller. Tra gli aspetti meno noti, ci sono poi alcune curiosità di comunità esterne a quelle letterarie che traggono tuttavia ispirazione dal pensiero dello scrittore: tra questi l’infinita comunità degli animalisti di tutto il mondo che riconoscono a Céline di essere stato un precursore nella lotta alla difesa dei diritti agli animali, la presenza di questi ultimi non solo è riscontrabile nelle pagine dei suoi scritti ma una costante della sua vita. In particolare il gatto, animale che Céline adorava e con il quale aveva un rapporto quasi spirituale, è facile quindi trovare il volto emaciato di Louis-Ferdinand accanto a uno slogan per i diritti degli animali.





[1] Jean–Yves Guérin et Agnès Spiquel, Les révolutions littéraires aux XIX et XX siècles, Presses Universitaires de Valenciennes 2006, p. 187.
[2] Frédéric Vitoux, Céline, Belfond, Paris 1978, p. 21.
[3] Jean Bloch-Michel, Le Présent de l’indicatif, Gallimard, Paris 1963, p. 119.
[4] Charles Bukowski, Pulp. Una storia del XX secolo, Feltrinelli, Milano 2013.
[5] AA.VV., Giancarlo Pontiggia (a cura di), Céline e l’attualità letteraria, SE, Milano 2001, p. 24.
[6] Renee Winegrarten, Céline: the problem, American Scholar, Vol. 65, Issue 2, Spring 95, p. 286.
[7] Stefano Lanuzza, Maledetto Céline. Un manuale del caos, Stampa Alternativa, Roma 2010, p. 200.
[8] Ivi, p. 192.
[9] Alberto Arbasino, Parigi o cara, Adelphi, Milano 1995, p. 42.
[10] Henri Godard, Poétique de Céline, Gallimard, Paris 1985, pp. 181-182.
[11] Alexander Styhre, Céline and the Aesthetics of Hyperbole: Style, Points, Parataxis and Other Literaty Devices, “Ephemera”, vol. 11, issue 3, 2011, p. 263.
[12] Paolo Badellino, La follia controversa di Louis-Ferdinand Céline, in «Rivista sperimentale di Freniatria», vol. 108, 1984, p. 28.
[13] Ivi, p. 29.
[14] Gianni Celati, Céline, jazz a credito, in «Effe», 2, primavera 1996.
[15] Gianni Celati, Scrivere Jazz si Potrebbe, e Charlie Parker Sarebbe Contento, in «Musica 80», 2 marzo 1980, p. 24.
[16] Ibidem.
[17] Ibidem.
[18] Julia Kristeva, Power of Horror: An Essay on Abjection, Columbia Univerisity Press, New York 1982 (trad. it., Poteri dell’orrore: saggio sull’abnegazione, Spirali, Milano 1981).
[19] http://www.lf-celine.blogspot.it/
[20] http://www.lepetitcelinien.com
[21] http://www.celine-etudes.org
[22] http://celinelfombre.blogspot.com
[23] http://www.celineenphrases.fr
[24] http://www.biblioceline.com

martedì 12 novembre 2013

Céline pilota, di Jean Dubuffet

Céline pilota
di Jean Dubuffet

Il modo disgustoso in cui è stato trattato Céline dall'intellighentia francese, benché logico e prevedibile nel clima degli ambienti letterari e giornalistici, resta comunque uno dei fatti più desolanti ai quali io abbia assistito. Considero Céline come un inventore geniale, un poeta (ma questo ter­mine così trito di poeta lo definisce molto fiaccamente) di portata considerevole, non soltanto ai miei occhi il più im­portante nel nostro tempo ma addirittura nei molti secoli che costituiscono i tempi moderni, una delle più grandi chia­vi di volta della storia dello scrivere. Che questo non sia stato compreso di primo acchito dagli intellettuali contem­poranei, o per lo meno non in misura sufficiente per far ta­cere i loro risentimenti e i loro ignobili cavilli, che essi ab­biano fatto blocco con una così perfetta solidarietà per de­nigrare questa creazione monumentale e trasportarla in un ambito meschino di politica, è cosa solo a stento credibile. Perché un simile fenomeno abbia potuto prodursi su così va­sta scala bisogna che l'arte di scrivere sia oggi in tutti gli spiriti assai deviata rispetto al suo statuto originario, che sia stato affatto dimenticato quello che ci si può, che ci si deve aspettare da essa. Bisogna che la natura dell'arte e delle sue danze sublimi sia del tutto occultata, e che siano notevol­mente calate le temperature alle quali lo spirito si riscalda; bisogna che il gusto per il pensiero analitico e discorsivo (eterna insidia) abbia nettamente preso il sopravvento sulle incandescenze della creazione poetica, e che alla letteratura altro non si richieda, se non di raziocinare su argomenti cosi palmari, così oziosi, così piatti come i dibattiti di sociologia e di civismo. È francamente stupefacente dover constatare che i nostri poeti — perfino quelli che strombettano da po­sizioni che si pretendono ormai liberate dai luoghi comuni dell'etica — fanno un coro così superbo con i motivetti più scalcagnati e più stupidi della sociologia e del patriottismo. Eccoci ritornati ai bei tempi delle guerre di religione.
Il bello è che soltanto chi è in malafede può attaccar bri­ga con Céline in nome della salute pubblica e del patriotti­smo. Mai conosciuto un uomo dal cuore più caldo, più pa­triottico, più pronto a fraternizzare di lui: esemplare. Ma ci sono due modi di essere patriota, quello della testa e quello del cuore; il modo astratto, dottrinale, e il modo attivo e immediato. Inutile dire che Céline rientra nel secondo.
È bene notare che l'ostilità di cui fu oggetto Céline si di­chiarò molto tempo prima che egli avesse manifestato le sue opinioni su un qualsiasi argomento politico; l'atteggiamento demistificatorio che appariva fin dai suoi primi libri ne fu probabilmente la causa. L'intellighentia capì subito che c'era uno che si era messo a smascherare — così come si smina un campo. Lo statuto dell'intellighentia riposa tutto su un sistema di vasta impostura con una rete così complessa di postazioni e di trincee che anche se l'una o l'altra di esse salta non mette in pericolo l'insieme; ma quando compare un guastatore risoluto, colui che aggredisce direttamente la centrale, il grande sabotatore, le campane suonano a martel­lo e gli associati di ogni grado corrono sulle mura con l'olio bollente. L'intellighentia ha, per consenso unanime, la fun­zione sociale di criticare le istituzioni senza danneggiarne le fondamenta, di assumere il ruolo di difendere il pubblico con­tro la malversazione (per impedire che ci sia qualcuno che lo faccia sul serio); essa fa da compare all'imbonitore. Nella commedia, le spetta la parte del protestatario, ma ben inteso si tratta di un protestatario fasullo. Supponiamo che venga alla ribalta uno che non è della combriccola, ecco allora che tutto il teatro è invaso dal panico.
Le mistificazioni, Céline non le amava affatto, non voleva avere niente da spartire con esse. Rifiutava di valersene. Vo­leva dimostrare che non servono alla produzione dell'arte — di quella vera, per lo meno. Mirava a costruire un'opera che sia efficace anche senza il loro intervento, che anzi sia tanto più efficace per il fatto che esse non vi intervengono. E fu appunto quest'impresa a sollevare ovunque la collera. Gli scrittori, gli artisti tengono principalmente a conservare la mistificazione. E non soltanto essi. Contrariamente a quel che si potrebbe credere, contrariamente a quel che credono i demistificatori, a torto persuasi che si sarà loro grati della fatica che si prendono, il pubblico è attaccato alle mistifica­zioni; è complice e consenziente; si indigna non appena qual­cuno faccia l'atto di svelarle. Il pubblico è timoroso; il suo parere — abbastanza assurdo — è che le mistificazioni sono una moneta falsa tutto sommato preferibili all'assenza com­pleta di ogni moneta. Alla poesia intrinsecamente conside­rata esso non crede molto; la considera come un mormorio fugace (o addirittura illusorio) che comunque non può ma­nifestarsi qualora sia assente la sua liturgia. E quando la poesia appare a un tratto non più come un mormorio ma come un tuono, non più su una scena allestita con cura, ma in mezzo alla folla e per la strada, non più vestita di orpelli e di maschere, ma a viso scoperto, grintosa e furiosa, esso non vi riconosce più, come è ben comprensibile, l'immagine che gliene avevano inculcato.
Spero che si afferri bene quel che intendo riferendomi alla mistificazione su cui la letteratura cavalca. La letteratura è in ritardo di cento anni sulla pittura. Essa si alimenta da molti secoli non ai dati immediati della vita ma alle opere del passato, come api che si nutrano del miele e non dei fiori; essa è irresistibilmente magnetizzata e polarizzata dal­le opere del passato. Il prestigio di quelle è così forte che nessuno scrittore, quand'anche vi metta ogni sforzo, riesce a districarsene e a ritrovare lo stato di innocenza di cui ne­cessita la creazione. La pittura ha fatto ormai da tempo la sua rivoluzione; la letteratura — se si eccettui il solo Céline — non ha fatto la sua. Malgrado certe varianti che restano epidermiche (consistono soltanto nel cambiare un poco il ripieno del pasticcio, sono di tematica e non di tecnica, di intervento locale e non di rinnovamento ab imis) la lettera­tura è bloccata, messa in gelatina. Chiunque non sia un sot­tile specialista potrebbe con tutta facilità attribuire una pa­gina contemporanea a Voltaire o a Descartes. Fate solo lo sforzo di paragonare le differenze che separano un dipinto attuale da uno di Raffaello e una pagina di Sartre da una di Diderot e coglierete subito come stanno le cose. La forma della pittura è totalmente cambiata; quella dello scrivere è pressoché rimasta la stessa. Ora nell'arte è la forma che de­termina ogni possibile efficacia dell'opera. A una stessa for­ma corrisponde uno stesso contenuto. E solo un cambiamen­to di forma che provoca un cambiamento di contenuto. La letteratura crede che importi il suo pensiero, non il suo cor­po; si tratta dell'ottica cristiana del corpo e dello spirito. Essa crede di poter rinnovare il pensiero senza toccare il corpo, che in tutta la faccenda le sembra essere soltanto re­cipiente inefficace, imballaggio. Errore! Così non rinnova un bel nulla. Solo quando la letteratura si deciderà a inventarsi dei corpi nuovi (come ha fatto la pittura), potrà conoscere che cosa vuoi dire avere un atteggiamento spirituale vera­mente nuovo, e vedrà riaccendersi il suo fuoco.
Non si ripeterà mai abbastanza che l'arte è una questione di forma e non di contenuto. Lo sforzo dello scrittore di nu­trire la sua opera di informazioni rare e di analisi fini è del tutto improprio. Il pensiero analitico è una cosa e l'arte un'al­tra, completamente diversa. Essa ha dei mezzi più ricchi, più sbrigativi. Vi sbriga con un gioco di mano, in una mezza riga (pensate a Céline) quel che il pensiero analitico, con i suoi piedi di piombo, non riesce a enunciarvi in un intero volume. Anche la pittura ha creduto a lungo che il suo problema fos­se di dare ai cristi e alle vergini delle espressioni ingegno­samente rinnovate. E solo quando si è decisa a sostituirvi delle mele, dei bicchieri di assenzio e dei pacchetti di siga­rette che ha fatto la sua rivoluzione. Questa consisté nel por­tare l'invenzione non più sulla scelta dell'oggetto rappresen­tato ma sui mezzi e i materiali messi in opera, sui modi di trascrizione, sulla sintassi. Che ali le sono spuntate allora! A che voli si è data incessantemente a partire da quel mo­mento !
Può darsi che la pittura abbia approfittato dello sviluppo della fotografia; essa le sottraeva una funzione tale da im­plicare delle confusioni continue e di cui ha probabilmente sofferto per molto tempo. Ci sarebbe da augurarsi che anche le funzioni dello scrivere, che sono del pari assai varie e di­verse fra loro, fossero messe in chiaro allo stesso modo. Cosi come la pittura e il disegno sono ora un mezzo di creazione e d'arte e ora di informazione, di documentazione (come nei grafici industriali, geografici o d'altro genere, o come nei ritratti di persone care e di luoghi piacevoli), allo stesso mo­do lo scrivere serve indifferentemente al poeta e all'avvocato, al giornalista, al notaio. Si tratta di due funzioni che non sono abbastanza distinte. La rassomiglianza, la quasi identità della forma di cui si valgono gli scritti miranti alla creazione artistica con quella che assumono il rapporto di un carabi­niere, o il discorso di un ministro, o le istruzioni per l'uso di una macchina, è cosa altamente sorprendente. Credo che non se ne avverta sufficientemente l'incongruenza. Dopodiché non c'è da meravigliarsi se le posizioni di pensiero dell'avvo­cato, del giornalista e del politico si insinuano sulla scia della forma impiegata e prendono il posto della creazione d'arte al punto da far dimenticare addirittura quel che essa fu in passato, quel che deve tornare a essere.
Il fatto è che lo scrivere creativo comincia solo quando le parole siano utilizzate non più in ragione del loro stretto significato (esse formano sotto questo aspetto un povero re­gistro di schemi adatti a enunciare soltanto dei pensieri del tutto semplicisti), ma con arte come fanno i giocolieri con i cappelli, le uova, i fazzoletti — in un'ottica completamente diversa da quella di indossarli, di berli o di soffiarsene il naso. Soltanto a patto di usare le parole in questa maniera si può fare della loro tastiera uno strumento atto a trasmet­tere un pensiero caldo e pungente. In ciò sta l'innovazione di Céline, che va nello stesso senso della pittura attuale che utilizza allo stesso modo i segni, i tracciati, le tinte, non più soltanto in ragione delle figurazioni cui sono attribuiti (e in guisa tale che sia possibile "prenderli alla lettera") ma al con­trario procurando di spezzare il loro legame troppo imme­diato alle rappresentazioni dirette d'oggetti. In questo modo il pittore provoca uno sfasamento, una cesura tra i segni di trascrizione e gli oggetti da trascrivere, introduce un margi­ne tra i primi e i secondi ed è appunto questo margine che, aprendo il passaggio a tutto un flusso di echi e di trasalimen­ti, diviene un vero e proprio meccanismo generatore.
Può sembrare paradossale che certi caratteri ritenuti pri­vativi come l'improprietà, l'inadeguazione, possano, se abil­mente sfruttati, accrescere notevolmente il valore delle tra­scrizioni. Ma il fatto è che il pittore (o lo scrittore quando si tratta di Céline) che assegna in partenza come regola al suo gioco una simile articolazione aperta tra i fatti descritti e la descrizione che ne restituisce, obbliga con ciò stesso il fruito­re dell'opera a un processo continuo di sostituzioni e lo co­stringe ben presto a leggere non le righe, ma tra le righe. L'o­pera si trova con ciò dotata di una nuova dimensione comparabile a un rilievo, a una risonanza, al timbro di una voce. Così come appunto il timbro di una voce è prodotto dalla si­multaneità di due vibrazioni che non coincidono esattamente.
Nell'impiego magistrale che Céline fa dei vocaboli questi funzionano non già per apportare il loro senso proprio e tra­dizionale ma come dei limiti ingegnosi fra i quali egli eccel­le nel far apparire, senza enunciarlo (in negativo, in rientran­za) ciò che intende veicolare. È per questo che il modo di scrivere che egli ha così meravigliosamente messo a punto (non solo inventato, ma portato subito a una perfezione che sembra impossibile poter eguagliare) rassomiglia al più sa­porito "parlato." Anche nel parlare infatti — mi riferisco evidentemente al parlare veramente comunicativo, al parlare affatto diretto e spontaneo — non è la scelta delle parole pronunciate quella che trasporta e restituisce il pensiero ma piuttosto il tono, l'intonazione, la mimica, dimodoché l'es­senziale — il frutto — si trova a esser manifestato senza venir formulato, con una istantaneità, una totalità, una for­za che non potrebbe esser raggiunta da alcuna formulazione esplicita — fosse anche prolungata a ore e ore di conversa­zione. Il ricorso all'implicito è forse ciò che caratterizza l'ar­te. Nessuno, credo, ha mai usato l'implicito al punto in cui l'ha portato Céline. Egli ne fa tutta la molla continua del­l'opera.
Il caso di Céline, la sua carriera, il suo destino sono sotto tutti gli aspetti fuori di ogni regola e sconcertanti. I suoi primi due libri, il Voyage au bout de la nuit e Mori a crédit hanno avuto presso il pubblico un clamoroso successo, do­vuto senza dubbio per buona parte a un equivoco. Sono si­curamente due opere ammirevoli, ma restano, mi sembra, in confronto con quelle venute dopo, un po' nel giro solito e rendono ancora in parte omaggio al rituale del romanzo clas­sico. Senza dubbio è proprio per questo che sono piaciute. Si è creduto di esser davanti a Zola e al verismo, al docu­mentario e alla presa "dal vero." Il nostro tempo è affasci­nato dal verismo, che gli fa da succedaneo dell'arte. Céline è molto lontano dal verismo. È un artista, un artista molto grande; commuove, trasmuta. Si vale del primo istante di vita giornaliera che gli viene per le mani e, alchimizzando i fatti più insignificanti, i pensieri e gli umori più banali, elabora quei sublimi sabba dello spirito, quelle manipolazio­ni vertiginose, quelle danze di derviscio che sono i grandiosi affreschi di Féerie pour une autre fois e dei libri successivi.
Per una sorprendente singolarità questi libri, che sono quelli di una piena maestria, sono a tutt'oggi ancora praticamente sconosciuti. Non hanno avuto pressoché alcuna diffusione; ben poche persone li hanno letti; vengono citati raramente. Forse che Céline ha "teso le sue reti troppo in alto"? Potreb­be darsi. Il pubblico finora conosce a malapena i suoi due primi libri e la assai speciosa figura di polemista preteso razzista e filo-nazista che su di lui è stata impiantata, a forza di forzature delle sue opinioni e di affermazioni menzognere, da una stampa tutta rivolta a sconfiggere il razzismo e il nazismo e che senza batter ciglio getta nel crogiuolo di que­sta causa il probo, l'irreprensibile Céline e le sue epopee demiurgiche.
Ma questo accanimento contro l'opera di Céline ha vera­mente per solo motivo le sue opinioni politiche? Sembra as­sai poco plausibile. Ho parlato della mistificazione su cui riposano la letteratura, l'accademia, il mito culturale; ma non sono i soli a fondarsi su di essa. Nel nostro paese di estetocrazia — non so cosa succede altrove, la stessa cosa senza dubbio, ma, credo, non allo stesso punto — tutto ciò che si vanta di appartenere alla casta dominante si rifà prima di tutto al buon gusto, al discernimento estetico, al bel parlare, al bello scrivere. Il partito delle belle arti, delle belle maniere e delle belle lettere è il partito che ha il coltello per il ma­nico. La casta al potere si autoproclama museo della cultura e ripone su di ciò la propria legittimità. È il suo argomento di riserva, il suo salvacondotto. La Signora — la signora Boc­ca Delicata, la signora Alta Moda, la signora Grandi Arie — sa che coniugando i suoi congiuntivi non mancherà di tra­volgere in un terrore reverente il fontaniere che ripara il rubinetto. Anche quando la signora non ha soldi per pagare la riparazione. Non è la ricchezza ad assegnare i galloni, è l'uso del congiuntivo. Si è ben considerato tutto ciò? E si son prese le debite precauzioni? Credo di no. Il mito del bello scrivere è una pezza capitale della difesa borghese. Se volete colpire al cuore la casta dominante colpitela nei suoi congiuntivi, nel suo cerimoniale di un bel linguaggio vuoto, nelle sue leziosaggini di esteta. Chi riuscirà a disinnescare una buona volta le sante reliquie che essa brandisce come gli stregoni negri i loro feticci — i suoi grandi autori, la sua Gioconda, le sue sedie Luigi XV, la sua bella grammatica, la sua lingua morta sterilizzata, tutto quel cumulo di ossari che fa passare per arte e cultura — chi riuscirà a far entrare nella testa dell'ultimo fanalino di coda che la vera arte vi­vente, la sola, e la vera creazione inventiva sono dalla sua parte e non da quella della mascherata che si svolge sotto il patrocinio dei ministeri, costui suonerà la fine della casta dominante. Ma potete star tranquilli che la casta dominante si difenderà. Il suo mito essa lo difende secondo il suo stile: tutti i mezzi sono buoni, tutti i colpi permessi. Non credo però che lo difenderà a lungo dalla confutazione portata da Céline.


[Traduzione di Renato Barilli, grazie a Gilberto Tura per la segnalazione!]

sabato 28 settembre 2013

Il Medico di Meudon


















Ricordo di Céline del Dr. R. B.

Fu a Meudon che feci la conoscenza del Dottor Destouches, qualche anno prima della sua morte. Dopo un periodo piuttosto lungo di osservazione, stabilimmo un primo contatto sul piano medico, e quindi, in conversazioni sempre più amichevoli, prese l’abitudine di parlare liberamente dei temi che lo interessavano. Se sembrava avere il fisico piegato dalla malattia, egli era assolutamente normale dal punto di vista intellettuale, sempre molto vivace, curioso, spiritoso, talvolta beffardo e talmente erudito!

Amava la medicina, amava parlarne (riceveva infatti la stampa medica, che leggeva con grande attenzione, rimproverandone talvolta l’evadere dai problemi della pratica corrente). Un giorno, sembrava che la resistenza del cuore degli sportivi fosse per lui oggetto di particolare interesse. Pensava probabilmente a quello di sua moglie, la danzatrice Lucette Almansor. Un’altra volta discuteva del cancro, etc. S’interessava tanto più ai rimedi medici se la sofferenza o la malattia colpiva uno dei suoi amici; si documentava sui più recenti metodi diagnostici e di terapia con una curiosità sempre vigile. All’opposto, il suo estremo pudore gli impediva qualunque riferimento alle sue stesse sofferenze. Talvolta rimpiangeva, visto il suo stato fisico, di non poter esercitare l’arte medica se non raramente; gli esami, l’interpretare le lastre delle radiografie, fare consulti per certe malattie, assistere alle vaccinazioni era per lui una fonte di gioia.

Affrontava i problemi più disparati; la guerra d’Algeria: un avvenimento minore, al confronto dei problemi est-ovest, e soprattutto del problema della Cina, la bomba atomica, che aveva ucciso la guerra, le “Vacanze!”: una vera e propria malattia ciclica, e con ricadute, che ha un decorso lungo tutto l’anno, con diversi periodi (incubazione, invasione, malattia, convalescenza), dalla durata di un trimestre. Letteratura: la sua stima per Jean Cocteau, poeta e creatore. Il suo ultimo manoscritto, Rigodon: tentava di spiegare l’insieme del lavoro, della fatica e spesso della difficoltà di trovare la parola giusta o il collegamento a un brano che si svolgeva in una apocalittica Amburgo. Era un uomo buono, molto semplice, con uno sguardo blu limpido, dolce e molto puro. Era contro l’ingiustizia, da qualunque parte essa proveniva; non era religioso, ma mistico, e voleva la punizione dei malvagi. Amava l’uomo, l’essere umano…

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Nella foto, Céline medico militarizzato e Lucette nel 1940.
Da L'Herne - Céline, traduz. Andrea Lombardi

venerdì 9 agosto 2013

L'Emozione è tutto nella vita!















L'Emozione è tutto nella vita!
Bisogna saperne approfittare!
L'Emozione è tutto nella vita!
E quando siete morti è finita!


Tocca a voi capire! Emozionatevi! “Non ci sono che baraonde nei suoi capitoli!” Che razza di obiezione! Che vaccata solenne! Ohé! attenzione! Ombranati! In sella! Via sull'onda! Emozionatevi dio cristo! Ratatan! Saltate! Vibrate! Fate scoppiare il guscio! Venite fuori, granchi! Schiudetevi! Trovate il ritmo, sacramento d'un dio! È lì il divertimento! Ecco! Già qualcosa! Sveglia! Allè via! Robot di merda! Cambiate o è la morte!
Non posso far di più per voi!
Baciate quella che volete! Se siete a tempo! Tanti auguri! Se siete vivi! Il resto verrà da solo! Felicità, salute, grazia e scappatelle! Non preoccupatevi di me! Fatelo andare il vostro cuoricino!
Sarà tutto quello che ci mettete voi. Tempeste o musica! Come all'Infermo, come tra gli Angeli!

L.-F. Céline, Guignol's Band