venerdì 29 maggio 2009

In memoria di Pol Vandromme



Décès de Pol Vandromme
28/05/2009 18:35
On a appris jeudi le décès à Loverval du journaliste et critique littéraire Pol Vandromme, ancien directeur-rédacteur en chef du journal "Le Rappel".
Pol Vandromme, qui était âgé de 82 ans, a succombé jeudi à l'IMTR de Loverval, où il avait été admis il y a plusieurs semaines. Journaliste, écrivain, critique littéraire, Pol Vandromme avait été journaliste dans les années 50 au journal "Le Rappel", à Charleroi, et il en était rapidement devenu rédacteur en chef. Il était aussi critique littéraire. On lui devait notamment des critiques sur Brasillach, Drieu La Rochelle, Simenon, Céline, Maurras, et sur l'extrême droite. Il avait aussi consacré un ouvrage à celui qui a été le dernier Premier ministre francophone, le socialiste Edmond Leburton. Paul Vandromme était l'auteur de "Brel, ou l'exil du Far West", ainsi que du premier ouvrage consacré à Tintin, "Le monde de Tintin". (NLE)


La morte di Pol Vandromme, spentosi giovedì scorso all'età di 82 anni, è una triste notizia per il mondo della cultura e per tutti i céliniani: Vandromme consacrò a Céline uno dei suoi studi più belli.



domenica 24 maggio 2009

Il Verri e Céline


Il Verri e Céline
di Gilberto Tura

E' solo verso la fine degli anni '60 che la critica italiana inizia a interessarsi seriamente di Céline, imponendosi un approccio scientifico rivolto al superamento della dimensione scandalosa e "politica" che fino ad allora era stato l'oggetto privilegiato degli studi céliniani. Finalmente viene messo al centro dell'indagine e dell'analisi la portata e il valore dell'innovazione stilistica dell'opera del medico-scrittore, i legami e le ascendenze con la tradizione letteraria francese, ma anche i parallelismi e i confronti con le espressioni più originali e avanzate del novecento.
In questo nuovo contesto la rivista letteraria IL VERRI, fondata a metà degli anni '50 da Luciano Anceschi (1911-1995), autorevole critico letterario e docente di estetica all' Università di Bologna, dedica (quasi integralmente) nel febbraio 1968 un numero speciale a Louis-Ferdinand Céline, precisamente il n. 26 . La pubblicazione contiene una raccolta di saggi del linguista e critico letterario austriaco Leo Spitzer, del poeta livornese, primo e unico traduttore in italiano di Mort a credit, Giorgio Caproni, dello scrittore, famoso per il lungo e fortunato sodalizio con Carlo Fruttero, Franco Lucentini, del critico Renato Barilli, della francesista Anna Licari e dello scrittore Gianni Celati.
Vi compaiono inoltre, per la prima volta tradotti in Italia, quattro scritti di Céline.
Il primo è la "Prefazione inedita alla tesi del dott. Destouches" pubblicato da Les Cahiers de l'Herne nel n. 5 del 1965.
Il secondo è l' "Omaggio a Zola", il famoso discorso pronunciato da Céline, il primo ottobre del 1933 in occasione dell'annuale anniversario della morte dell' autore di Teresa Raquin e Germinale. In una lettera all'amica scrittrice belga Evelyne Pollet, Cèline scrive «Devo parlare di Zola il primo ottobre [ ... ]. Per fare piacere a Descaves e ai suoi amici. Santo cielo, Zola non mi piace per niente - allora parlerò di me stesso, ma neanche questo mi piace tanto. Tutto ciò è molto seccante».
Il terzo è "L'argot è nato dall'odio. Non esiste più" pubblicato su Arts del 6 febbraio 1957 e sul n. 5 del 1965 dei Cahiers de l'Herne
Il quarto, che troverete trascritto al termine, "Rabelais ha fatto fiasco", prefazione in forma d'intervista apparsa su Gargantua et Pantagruel (1959), per Le Meilleur Livre du Moi e ripubblicato dai Cahiers de l'Herne n. 5.
Seguiranno, nei circa dieci anni successivi, quattro saggi monografici interamente consacrati a Céline:

Paolo Carile, Louis-Ferdinand Céline, un allucinato di genio, Bologna, Patròn, 1969
Michele Rago, Céline, Firenze, La Nuova Italia, 1973
Paolo Carile, Céline oggi, Roma, Bulzoni, 1974
Renato Della Torre, Invito alla lettura di Céline, Milano, Mursia, 1979

In conclusione va citato lo speciale che il primo canale della RAI trasmise nell'autunno del 1970, a cura di Ugo Leonzio all' interno della rubrica culturale «L' Approdo», dal titolo Céline, viaggio al centro del delirio.


RABELAIS HA FATTO FIASCO

Volete che vi parli di Rabelais? e va bene, ho frugato proprio stamattina nell'Enciclopedia, così adesso so tutto; perché c'è proprio tutto, nella Grande Enciclopedia. Si fanno delle belle carriere, col suo aiuto. Io dunque ho cercato alla voce "Rabelais".
Vedete, con Rabelais, si parla sempre di quello che non importa. Si dice, si ripete ovunque: "E' il padre della letteratura francese." E poi vengono l'entusiasmo, gli elogi, è una storia che si ripete da Victor Hugo a Balzac, a Malherbe. Il padre delle lettere francesi, un momento! non è mica così semplice. In realtà Rabelais ha fatto fiasco, sí, ha fatto fiasco, non è riuscito.
Quel che voleva fare lui, era un linguaggio per tutti, un linguaggio vero. Voleva democratizzare la lingua, una bella battaglia. Era contro la Sorbona, lui, e contro i dottori, e tutto il resto. Contro tutto quel che era ammesso e stabilito, il re, la Chiesa, lo stile.
No, non l'ha vinta lui, ma Amyot, il traduttore di Plutarco, che ha avuto, nei secoli seguenti, molto più successo di Rabelais. E ancora oggi viviamo su di lui e sulla sua lingua. Rabelais aveva voluto trasportare la lingua parlata in quella scritta: un fallimento. Quanto a Amyot, alla gente gli va sempre bene, Amyot e lo stile accademico. Questo si chiama scrivere della m...: un linguaggio imbalsamato. Le colonne di un grande quotidiano del mattino, che si vanta di avere dei redattori che sanno scrivere, ne sono piene. E questo porta a una cloaca dal tono ben scorrevole, con frasi ben costruite, e alla fine dell'articolo una piccola astuzia innocente. Non pericolosa, non troppo forte, per non spaventare il pubblico. Ecco il fallimento di Rabelais, ecco l'eredità di Amyot: della vera m..., ripeto.
Rabelais ha veramente voluto una lingua ricca e straordinaria. Ma tutti gli altri l'hanno castrata, questa lingua, fino a renderla completamente piatta. Così, oggi, scrivere bene vuol dire scrivere come Amyot, ma questa roba non sarà mai altro che una "lingua di traduzione."
Una nostra contemporanea quasi celebre ha detto una volta leggendo un libro: "Ah! Come si legge bene, sembra una traduzione!" Ecco a che punto siamo arrivati.
La smania moderna del francese è questa: fare e leggere delle traduzioni, parlare come nelle traduzioni. A me c'è della gente che m'è venuta a chiedere se non avevo preso questo o quel passo dei miei libri da Joyce. Sì, me l'han chiesto! ed è logico, perchè l'inglese è di moda. Io parlo l'inglese perfettamente, come il francese. Andare a prendere qualcosa da Joyce! No, come Rabelais, ho trovato tutto nel francese stesso.
Lanson dice: "Il francese non ha molto spirito artistico." Niente poesia in Francia, tutto è troppo cartesiano. Evidentemente ha ragione: Amyot, eccolo, un pre-cartesiano, ed è così che si è guastato tutto. Ma non era il caso di Rabelais: un vero artista.
Sí, Rabelais ha fallito, e Amyot ha vinto. La posterità d'Amyot son tutti quei romanzetti evirati che escono ai nostri tempi dalle migliori case editrici, migliaia all'anno. Ma io, di romanzi così, ne faccio uno all'ora.
Ora, dato che non si pubblica altro, dove è andata a finire la posterità di Rabelais, la vera letteratura? Scomparsa. Il perché è chiaro: bisognerebbe capire una volta per tutte (basta ipocrisie!) che il francese è una lingua volgare, da sempre, dalla sua nascita al trattato di Verdun. Solo che questa verità, nessuno la vuole accettare, e si continua a disprezzare Rabelais.
"Ah! è rabelaisiano!" si sente dire talvolta. Ciò significa: attenzione, non è fine, quell'espressione, è un pò scorretta. E così il nome di uno dei nostri più grandi scrittori è servito a raffazzonare un aggettivo peggiorativo. Che cosa mostruosa! sí, perchè era un bel tipo, Rabelais, scrittore, medico, giurista... Ha avuto le sue grane, poveretto, anche da vivo; e il suo tempo lo passava a cercar di non essere bruciato...
No, la Francia non può più capire Rabelais: si è troppo impreziosita. Quel che è peggio da pensare, è che poteva essere il contrario, che la lingua di Rabelais poteva diventare il francese.
Ma ormai ci sono soltanto dei servi che hanno lo stesso odore del padrone e si sforzano di parlare come lui. Viva l'inglese e lo stupido contegno!
Rabelais, direte voi, sa un pò troppo di partito preso: certo, vorrei vedere, uno come lui braccato dalla persecuzione cattolica, partito lancia in resta contro i potenti. Sí, quel che faceva sapeva un pò di eresia.
Questo è l'essenziale di quel che volevo dirvi. Il resto (fantasia, capacità creativa, comicità. ecc.) non mi interessa. La lingua, solo la lingua. Ecco quel che conta. Tutto ciò che si può aggiungere si trascina un pò dappertutto, nei manuali di letteratura, nell'Enciclopedia. E se ne volete di più, andatelo a chiedere a tutti quei gran scrittori che, loro sí, han "delle idee su Rabelais." Ah, quanti ne conosco che si prenderebbero la testa tra le mani e vi direbbero seriamente: "Rabelais, che prodigioso inventore di parole!" Sono soltanto dei ciarlatani.
Attaccatevi piuttosto a quel che c'è di interssante in Rabelais: la sua intenzione un pò demagogica di attirare il pubblico parlando come lui, io lo capisco, Rabelais, era medico e scrittore, come me. Questo si vede da quel tanto di sboccatura. Era anche un buon anatomista e, cosa prodigiosa per quel tempo, faceva già operazioni. Perbacco, ha inventato perfino uno strumento chirurgico.
In Dio non doveva crederci molto, ma non osava dirlo. D'altra parte non è poi finito male, non l'hanno nemmeno suppliziato... Il supplizio è venuto dopo, quando hanno accademizzato il francese che lui parlava per farne una letteratura da esame di maturità e da diploma di magistrali.
Come dice Robert Poulet, hanno fatto un francese magro, mentre il suo era grasso. Peggio ancora, un francese scheletrico. Nemmeno Balzac è riuscito a resuscitare qualcosa. E' la piena vittoria della ragione.
La ragione! Bisogna esser matti. Non si può far niente a questo modo, così castrati. Mi fanno ridere. Guardate cosa basta a contraddirli: nessuno è mai riuscito a fare "ragionevolmente" un bambino. Niente da fare. Per la creazione ci vuole un attimo di delirio.
Ma no, in letteratura bisogna restare continenti. Ecco allora che oggi si usa mettere una fila di puntini quando succede qualcosa e poi si continua molto tranquillamente: "l'indomani erano entrambi invitati al ricevimento della duchessa." Oh! non raccomando mica l'erotomania, mi disgusta, ma quel che è terribile è un linguaggio così ripulito.
Quel che in effetti c'è di buono in Rabelais, è che lui metteva la sua pelle in gioco e la rischiava. La morte gli stava in agguato, ed è una cosa che ispira, la morte! è addirittura la sola cosa che riesca a ispirare, ne so qualcosa io, quando è là, alle spalle. Quando è in collera.
Non aveva un buon carattere, Rabelais, dicono, ma non è vero. Lavorava, lui, e, come per tutti quelli che lavorano, era una vita da galera: avrebbero voluto averlo in mano, condannarlo. Altre galere, quelle del papa, e sono esistite per davvero. E là i ragazzi dovevano sgobbare, o "bisognava che sgobbassero,"cone direbbe Duhamel. E anche Bardamu, il mio eroe del Voyage, direbbe così. Ah! i congiuntivi imperfetti...
Nella mia vita ho avuto lo stesso vizio di Rabelais. Ho passato anch'io il mio tempo a mettermi in situazioni disperate. Come lui non mi aspetto niente dagli altri, come lui non rimpiango niente.

[Traduzione di Valeria Borsari]

sabato 23 maggio 2009

Loredana Trovato, Armonie della forma. Alchimie della vita. Guignol's band di Louis-Ferdinand Céline



Su suggerimento di Patrizio, che ringraziamo, segnaliamo il bel lavoro di Loredana Trovato, Armonie della forma. Alchimie della vita. Guignol's band di Louis-Ferdinand Céline, Bonanno editore, Acireale-Roma, 2008, 335 pagg.

mercoledì 20 maggio 2009

Dai Canti postumi di Ezra Pound



Perdonatemi il fuori tema, ma questa opera di Pound fa comprendere la tragedia della guerra - e della nostra guerra del 1940 - più di decine di dotti trattati di storia:

Così mise su una segheria; e lo richiamarono
per combattere in Africa;
e finita quella guerra iniziò un piccolo commercio
e lo mandarono a combattere in Grecia e Albania:
ed erano cinquemila in una piega delle colline
completamente circondati;
e per sei mesi con piedi congelati
e provviste con una fune sulla rupe
o da un albanese, con cui scambiavamo riso per alimenti;
e "c'erano dottori in prima linea" davvero?
c'erano quattro miglia di mulattiera per i feriti:
e quando i barellieri arrivavano in prima linea
gli davano fucili:
che non avevano mai toccato un fucile:
dove la terra puzzava di sangue e puzzerà per cinque autunni
e il resto propaganda; e nessuna lettera arrivava da casa
ma un aeroplano portò dopo un mese un giornale;
che diceva del bombardamento di Genova;
la casa dove viveva con i figli
e nessuna notizia per tre mesi dopo
e per avere la razione di famiglia, quando fu sospesa;
alla fine la ottenne dando una mancia all'usciere
"queste cose ti scoraggiano, professore"

insomma l'umanità non è canaglia

Filippo di Stefano

formiche vengono in casa cercando acqua

da Canti postumi, Ezra Pound.

domenica 17 maggio 2009

Quelle mille foto per scandagliare l'oggetto Céline, di Adriano Scianca - Louis-Ferdinand Céline in foto recensito sul Secolo d'Italia



Quelle mille foto per scandagliare l'oggetto Céline
di Adriano Scianca
Secolo d'Italia 17/5/2009

«Scusi, avete qualcosa di Céline?». «Certo, in fondo a destra, reparto musica». Ovvero, quando più che la scomunica ideologica può una melensa cantante canadese cui la madre, ascoltando una canzone di Hugues Aufray, ha messo quel nome così musicale: Céline (cognome: Dion). Ed ecco che alla fine del buon Louis-Ferdinand Destouches non si ricorda più nessuno. «In realtà – spiega Andrea Lombardi – è solo negli ultimi tempi che in Italia Céline è un po’ “dimenticato”. Da Arbasino a Carile, da Raboni a Rago, dagli anni '60 ai '90 molte voci della critica italiana “non del ghetto” si sono occupate di Céline, spesso con interventi di altissimo livello. E' negli ultimi tempi che la critica secondo me si appiattisce quasi esclusivamente, parlando di Céline, su antisemitismo e simili e credo più per l'involgarimento degli umani intelletti in questi tempi tormentati che per precise scelte».

E’ allora proprio per riscoprire questo straordinario autore così inquietantemente e splendidamente novecentesco che lo stesso Lombardi ha deciso di pubblicare Louis-Ferdinand Céline in foto, immagini, ricordi, interviste e saggi (Effepi Edizioni, Genova 2009, 218 pag., 85 foto in b/n, Euro 24, effepiedizioni@hotmail.com). Si tratta, come è chiaro già dal titolo, di una raccolta per immagini, sia fotografiche che letterarie, che abbiano per oggetto l’autore di Morte a credito. Quindi interviste, ricordi e saggi, per la maggior parte inediti in Italia, di Lucette Almansor, Arletty, Michel Aymé, Abel Bonnard, Arno Breker, Lucien Rebatet, Gen Paul, Ernst Jünger, ma anche interviste dello stesso Céline alla televisione e alla radio francese, e infine gli alti e bassi della critica italiana, con interventi di Marina Alberghini Pacini, Paolo Badellino, Alberto Arbasino, Gabriele Armandi, Giovanni Raboni, Carlo Bo, Alberto Rosselli, Antonio Moresco, Alessandro Piperno.

Ma se le testimonianze e gli articoli raccolti costituiscono un apparato filologico di sicuro interesse, sono in verità le interviste a risultare veramente sorprendenti. Interviste di cui si può trovare peraltro il corrispettivo filmato spulciando su YouTube, godendosi quindi lo spettacolo di questa vecchia canaglia che incalza l’intervistatore, lo spiazza, lo prende in giro con i suoi balbettamenti, le sue iperboli, la sua inimitabile presenza scenica. Gli si chiede di autodefinirsi e lui prende il largo con una digressione dal sapore fenomenologico: «Io lavoro – dice Céline – e non me ne frega nulla. Ecco esattamente quello che penso. La questione è che noi siamo i colpevoli della pubblicità. Perché è l’orrore del mondo moderno che produce la pubblicità. Dunque, io sto dalla parte della modestia. Quello che conta è l’oggetto». Sull’ostracismo abbattutosi su di lui nel dopoguerra, lo scrittore dice: «Sono riuscito a passare attraverso la più grande battuta di caccia mai organizzata nella storia, è già mica male». E ancora: «”Il nemico del genere umano”. È il mio nuovo appellativo. Sono il nemico del genere umano. Sono un genocidio platonico, verbale. Ma non importa. Sono le miserie umane che un po’ di sabbia cancella. Cito la sorella di Marat. La cosa davvero importante è pagare il droghiere».

E nella massa di aneddoti, critiche, racconti, analisi, recensioni, Lombardi non manca di dar battaglia contro critici avventati, malevoli, disinformati. E’ il caso degli accenti lombrosiani di un Antonio Moresco, che può chiedersi basito come mai «uno dei più grandi scrittori del Novecento ha questa faccia da uomo losco, corrotto, cattivo, da brutta persona, da malavitoso che è meglio tenere alla larga». C’è poi la squisita sensibilità sociale di un Alessandro Piperno, che rispetto all’ultimo Céline ridotto in miseria si mette a criticare «i leziosi foulard con cui i barboni si danno un tono». Complimenti. Rispetto a queste e altre accuse, Lombardi fa giustizia in modo puntuale e documentato, non mancando di affrontare anche i punti più controversi e sulfurei della produzione céliniana con doverosi chiarimenti e messe a punto. Insomma: scrittore visionario, eccessivo, maledetto, provocatore sì. Penna di partito o di regime no, mai. E oltre alla leggende nere sullo scrittore e sul “collaborazionista”, pian piano vanno dissolvendosi sotto il peso dei fatti anche le maldicenze sull’uomo, che quando non recitava il ruolo nichilista e un po’ scontroso che si era ritagliato per sé appariva come una persona nobile e lontana dallo stereotipo facile del belzebù misantropo. Lo spiega bene Marcel Aymé, che scrive: «Céline non era un uomo dal cuore duro, al contrario. La grande e spontanea tenerezza che aveva per i bambini e per gli animali basta a testimoniarlo. Si è detto molto, anche da vivo e perfino tra i suoi ammiratori, che era avaro. Questo è un errore che egli denunciò giustamente per tutta la vita. Alla fine dei suoi studi medici, sposò la figlia unica di un medico facoltoso. Normalmente, un tale matrimonio avrebbe dovuto rappresentare l’inizio di una carriera facile e di un’attività redditizia, ma il denaro lo annoiava; il denaro gli sembrava una tara. Divorzierà, per condurre a modo suo un’esistenza bisognosa. Procacciarsi una clientela non gli interessava, poiché quest’uomo, che doveva dimostrarsi tirannico con i suoi editori, era incapace di incassare i soldi dei consulti medici, soprattutto se si trattava di quelli della povera gente». Un demone dal volto umano? Forse. O forse no, ma che importa? Quello che conta non è l’uomo, è l’oggetto. Ancora una volta, aveva ragione Céline.
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Potete richiedere Louis-Ferdinand Céline in foto a:

Effepi Edizioni
Telefono (0039) 010 6423334 - 338 9195220
Indirizzo postale Via B. Piovera 7 - 16149 Genova
Posta elettronica effepiedizioni@hotmail.com

Disponibile anche presso:

giovedì 14 maggio 2009

Gian Dauli e Alex Alexis: la prima traduzione italiana del Viaggio al termine della notte
























Di seguito, Gilberto ci pr
esenta una interessantissima scheda sulle prime traduzioni italiane del capolavoro di Céline:

GIAN DAULI E ALEX ALEXIS
ARTEFICI DELLA PRIMA TRADUZIONE ITALIANA DEL VOYAGE


La prima traduzione italiana del Voyage la si deve a due personaggi singolari, quasi del tutto dimenticati, ma molto attivi, con alterne fortune, fra le due guerre. Entrambi furono romanzieri, editori, traduttori e adottarono uno pseudonimo: il vicentino Giuseppe Ugo Nalato quello di Gian Dàuli e il piemontese Luigi Alessio quello di Alex Alexis. Traggo buona parte delle notizie dal saggio dell' italianista professore emerito dell' Università di Grenoble, Michel David, dal titolo Sulla prima traduzione italiana del " Voyage au bout de la nuit" apparso sul numero 8-9 dell' aprile 1967 della rivista letteraria Opera Aperta. Gian Dàuli era, nei primi anni '30, direttore della collana Scrittori di tutto il mondo per le Edizioni Corbaccio di Milano che annoverava tra i titoli pubblicati opere, tra gli altri, di G. Bernanos, A. Schnitzler, T. Wilder, A. Doblin, T. Mann, J. Dos Passos, a dimostrazione di un interesse e una competenza tutt'altro che superficiali, in controtendenza rispetto al provincialismo culturale italiano dell'epoca, delle migliori esperienze letterarie che stavano emergendo e affermandosi in Europa e America. Sul suo diario, in data 23 aprile 1933, si legge: « Sto leggendo Voyage au bout de la nuit di Louis-Ferdinand Céline e debbo dire che ne sono stupito per il suo formidabile verismo intellettuale e dico intellettuale di proposito perché la realtà è vista attraverso l'intelletto piuttosto che per realtà vissuta, cioè immaginata fuori da personale esperienza. Questo per gran parte almeno di quello che ho letto fin qui. E voglio notare anch'io che in quest'arte realistica del Céline si sente il metodo d'osservazione minuta e spesso sofisticata per essere troppo minuta, usata dal Proust nella sua miope ricerca del tempo perduto. E direi quasi di più! Céline deve aver letto e riletto alla sazietà le opere di Proust tanto che alcune immagini e alcune fini osservazioni le ha assimilate senza però riuscire a trasformarle del tutto, cosicché al microscopio alcune cellule celiniane si riconoscerebbero per proustiane. Non avviene lo stesso nel travaso del sangue da un individuo a un altro?». Probabilmente Céline non avrebbe gradito l'accostamento a Proust, di certo va riconosciuto a Dàuli un sicuro fiuto editoriale (la traduzione italiana del Voyage sarà la prima nel mondo). L'anno precedente Dàuli aveva terminato il romanzo La Rua e nel comunicare a Céline il successo della traduzione del Voyage gliene invia una copia. Céline gli risponderà con due biglietti, il primo tra novembre e dicembre del 1933: «Cher confrère, je serai très honoré de recevoir votre livre. Mais trés malheuresement je ne parle pas un mot d'italien! Seulment je puis me le faire lire par une amie italienne qui me fera trés certainement comprendre votre oeuvre dans son intimité. Puisque vous êtes auprès de mon editeur, ayez la bonté de lui demender de me faire l'envoi de 2 voyages en italien. Je n'en possède aucun. Je vous écrirai dès que je serai en mesure de vous donner mon impression sur La Rua qui par truchement ne peut malheureusement vous satisfaire qu'à moitié. Bien cordialement à vous et très impatient - L.F. Céline ». Il secondo il 21 dicembre 1933: « Cher confrère, je suis parvenu tant bien que mal à saisir toute l'importance de votre livre à travers une traduction forcément imparfaite. Je discerne évidemment les signes d'une très exceptionnelle finesse d'analyse, d'une rigueur littéraire tout à fait précieuse, d'une grande connaissance des difficultés instinctives en même temps qu'un haut sens de l'épopée! Mais que ne puis-je lire l'italien. Bien cordialment - L.F. Céline». La Rua venne tradotto in francese da Marie Canavaggia, la fedele segretaria di Céline, e Dàuli chiese allo stesso Céline di scrivergli la prefazione, ma questi si rifiutò affermando che, poiché la critica gli era ostile, una sua prefazione si sarebbe ripercossa negativamente sul romanzo di Dàuli. Se nell'ottobre del 1945 la morte non lo avesse colto all'improvviso, Dàuli avrebbe portato a termine i due progetti relativi alla pubblicazione di Guignol's Band con il titolo Compagnia della teppa e successivamente Mort à crédit. Alex Alexis, nasce a Caramagna in provincia di Cuneo nel 1902. Nel 1920 partecipa all'avventura dannunziana di Fiume. Tornato a Torino si iscrive alla facoltà di giurisprudenza senza però portare termine gli studi. Nel 1923 fonda la rivista Teatro e la casa editrice Rinascimento e nel 1927 si trasferisce a Parigi dove, tra mille difficoltà, avvia piccole attività editoriali, destinate quasi tutte all'insuccesso. Quando Dàuli gli affida la traduzione del Voyage Alexis ha ormai acquisito una più che buona conoscenza della lingua francese e dell'argot parigino: porta a termine la traduzione a tempo di record in circa un mese. A distanza di settantasei anni la traduzione può essere considerata decorosa, ma non pienamamente riuscita. A difesa di Alexis va però tenuto presente che la lingua letteraria italiana dell'epoca non poteva di certo essergli molto di aiuto, essendo una lingua classiccheggiante, influenzata ancora dagli echi aulici carducciani e dal decadentismo estetizzante di D'Annunzio, lontana anni luce dalla potenza dirompente, rivoluzionaria, innovativa e antiretorica della lingua parlata di Céline. Alex Alexis, autore di numerose commedie e romanzi quasi tutti inediti, è il traduttore anche di Bagattelle per un massacro sempre per Corbaccio nel 1938 e di un altro dei famigerati pamphlets céliniani, L'école des cadavres che però non giungerà mai alle stampe. Il Viaggio verrà ripubblicato nel 1948 senza varianti e ancora nel 1962, ma questa volta, sebbene integralmente attribuita ad Alex Alexis, la traduzione subirà un rimaneggiamento ad opera di autore ignoto, senza alcuna avvertenza da parte dell'editore se non quella che «Il traduttore ritiene opportuno avvertire il lettore che, per conservare la massima fedeltà al linguaggio impiegato dai personaggi nel testo originale, si é valso di frequente di una forma italiana volutamente scorretta e di espressioni dialettali». Occorrerà attendere quasi sessant'anni prima di trovare in libreria una nuova traduzione realizzata da Ernesto Ferrero il quale, potendosi avvalere di una lingua letteraria italiana nel frattempo rinnovata dalle esperienze linguistiche, tra gli altri, di Gadda e Pasolini, riuscirà a darne una versione più attuale e in sintonia con l'espressività di una scrittura così potente e ricca di immagini, di intonazioni, di ritmo e di musica che ad ogni rilettura si manifesta al lettore sempre viva e nuova, in grado di rigenerarsi in perpetuo.

Gilberto Tura

lunedì 11 maggio 2009

A mio avviso, il più grande scrittore del Novecento; Céline




"Eccoci qui, ancora soli. C'è un'inerzia, in tutto questo, una pesantezza, una tristezza... Fra poco sarò vecchio. E la sarà finita, una buona volta. Gente n'è venuta tanta, in camera mia. Tutti han detto qualcosa. Mica m'han detto gran che. Se ne sono andati. Si son fatti vecchi, miserabili e torpidi, ciascuno in un suo cantuccio di mondo.
Ieri alle otto la signora Bérenge, la portinaia, è morta. Si sta schiodando dalla notte un gran temporale. Quassù in cima dove stiamo noi il casamento trema. Era una cara e gentile e fedele amica. Domani la sotterreranno in Rue des Saules. Era proprio vecchia, allo stremo della vecchiaia. Io gliel'avevo detto fin dal primo giorno che s'era messa a tossire: « Non si sdrai, soprattutto!... Se ne resti a cuccia nel suo letto! » Non ero affatto tranquillo. E infatti ecco qua... E infatti, al diavolo...
Mica l'ho praticata sempre, 'sta merda di medicina. Ora glielo voglio proprio scrivere ch'è morta, la signora Bérenge, a tutti quelli che m'han conosciuto, che han conosciuto lei. Ma dove saranno?
Vorrei che il temporale facesse ancor più baccano, che i tetti sprofondassero, che la primavera non ritornasse più, che casa nostra sparisse.
Lei lo sapeva, la signora Bérenge, che tutti i dispiaceri arrivan per lettera. Ma mica so più a chi scrivere... È tutta gente lontana... Si son cambiati l'anima per tradir meglio, scordar meglio, parlar sempre d'altro...
Vecchia signora Bérenge, il suo cane strabico se lo prenderanno, se lo porteranno via...
Tutto il dolore delle lettere, da una ventina d'anni ormai, s'è fermato da lei. Eccolo qui nel sentore della morte recente, l'incredibile acre gusto... È appena uscito dall'uovo... È qui... Se la gironzola... Lui conosce noi, noi conosciamo lui, adesso. Non se n'andrà. Mai più. Bisogna spengere il fuoco nella guardiola.
Ma a chi scrivere? Non ho più nessuno. Più un'anima che accolga dolcemente lo spirito gentile dei morti... che parli, dopo di ciò, con più dolcezza delle cose. Animo, via, da soli!
Sull'ultimo, la mia vecchia custode, lei non poteva più dir nulla. Soffocava, mi tratteneva per una mano... È entrato il postino. L'ha vista morire. Un rantoletto. Tutto qui. Ne venne da lei gente, una volta, per chieder di me. Se ne son riandati via, lontano, molto lontano nella dimenticanza, a cercarsi un'anima. Il postino s'è levato il berretto. Potrei dir io tutto il mio fiele. So io. Lo farò più in là, se non torneranno. Ora preferisco raccontar delle storielle. Ne racconterò di tali che quelli torneranno apposta, per accopparmi, dai quattro venti. Allora la sarà finita e ne sarò arcicontento."

Avrei voluto scriverle io, queste cose. Sono dentro di me, una per una, queste cose e le tante altre che Céline ha scritto. Ha dato forma a quel che sono, quest'uomo, a quel che vedo, a ciò che penso e sento. Avrei voluto scriverle io, queste cose. Non è comunque di poco momento il fatto che abbia avuto la fortuna di leggerle, queste cose. E di amarle. Seppur di un amore che trascolora in un dolore che non conosce requie.

Paolo Pizzato

Céline, Bagattelle per un massacro: caveat ai bibliofili, bibliomani e "libridinosi" céliniani!



Comunicazione di servizio:

oltre a pretendere i consueti prezzi elevatissimi per l'edizione Guanda (200-300-400 Euro, ma vi invito a evitare di cadere vittime della libridine e attendere... le mie due copie Guanda, aspettando l'occasione giusta, le ho pagate solo 50 e 25 Euro, condizione dei libri pari al nuovo o giù di lì) alcuni venditori adesso stanno "cammuffando" l'edizione anastatica di Ar (clicca), edita nel 2008.

Non so se il venditore sia in buona fede o meno, ma la fraseologia "RARA EDIZIONE ANASTATICA DEL 1938 CORBACCIO" è quantomeno sospetta... specie se si chiede più del doppio del suo prezzo:

Céline, Bagattelle per un massacro, Edizioni di Ar-Adel, euro 24,00
Ristampa anastatica, in tiratura limitata, dell’edizione italiana del 1938.

domenica 10 maggio 2009

Da Zola a Céline: la modernità che si rovescia



Che cosa si inventa il romanziere? Nulla perché il suo è (anzi dev’essere) un percorso di conoscenza compiuto all’interno dei luoghi, delle esperienze e soprattutto del volere concreto, materiale degli uomini. Attraverso questa materialità (questa competenza materiale), egli poi risalirà agli effetti per così dire morali, psicologici delle azioni, e ciò soprattutto attraverso l’analisi della componente ereditaria, «scientifica» del comportamento umano. A pensarla così, com’è noto, era il grande scrittore francese. Émile Zola (Parigi, 1840-1902), padre del naturalismo e del cosiddetto romanzo sperimentale, al quale Giuseppe Panella ha appena dedicato un saggio edito da Solfanelli dal titolo Émile Zola. Scrittore sperimentale (pp. 120, euro 9.00).In cosa consiste questo romanzo o metodo sperimentale? Semplice: «Il vero scienziato», scrive il medico Claude Bernard al quale Zola, ex fattorino della Hachette, aveva accostato la propria “teoria” «è colui che dubita di se stesso e delle proprie interpretazioni ma crede nella scienza e ammette che anche nelle scienze sperimentali esistono un criterio o un principio scientifico assoluti. Questo principio è il determinismo dei fenomeni: esso … ha valore assoluto sia nelle manifestazioni degli organismi viventi che in quelle dei corpi bruti». Da un lato, dunque, lo scrittore si trova vincolato a leggi necessarie ma dall’altro si muove all’interno di una infinita varietà di casi e situazioni naturali che costituiscono la base per la sua attività di indagatore. Lo scienziato è un uomo perennemente libero, libero nell’osservare e libero (anche) nel giudicare se stesso ed i propri risultati. «È partito dal dubbio per arrivare alla conoscenza assoluta e non cessa di dubitare se non quando il meccanismo della passione, da lui smontato e rimontato, funziona secondo le leggi stabilite dalla natura». Siamo in presenza di una scrittura come riproduzione e non come immaginazione o al più come intuizione regolata da leggi necessarie, come studio di legami reali, naturali, necessitanti; stabiliti da una natura chiusa alla fantasia ma ricchissima di quotidiane curiosità, da osservare e descrivere con esuberanza di particolari. Scrittura antifilosofica, antimetafisica e ovviamente affatto razionale. D’altra parte è noto come certo “realismo” letterario e come certa critica anti-borghese, abbiano partorito numerosissimi filoni “maledetti” fondamentali nella poetica di primo Novecento e oltre. All’interno delle descrizioni zolaiane e di quelle – puntuali – di un Panella che predilige il Zola romanziere a quello più propriamente politico o sociologico (e certo, forse stranamente, più conosciuto), la questione si tinge così d’un interesse per così dire parallelo. Le ultime pagine del libro ospitano un intervento di Louis-Ferdinand Céline datato 1 ottobre 1933 (non inedito ma ugualmente poco conosciuto), scritto in onore dell’autore parigino. Il padre del Viaggio al termine della notte, in quel periodo uscito da poco più di un anno, non ha voglia di celebrare il proprio connazionale, a spingerlo pare ci sia un interesse (un’opportunità…) quasi esclusivamente di tipo professionale. Tuttavia gli accenti del dottor Auguste Destouches (questo il vero nome di Céline), sono doppiamente interessanti. Valgono per se stessi (dunque come documento) e come materia per un approfondimento storico in parte ancora di là da venire. È inutile dire che il 1933 è un anno fondamentale per l’Europa intera…Peraltro Panella è bravo nel cogliere nella frasi céliniane il filo rosso di una tormentata poetica capace di lambire estremità piuttosto lontane del mondo moderno: «… il testo cèliniano dedicato alla poetica naturalistica di Zola è pieno di straordinarie intuizioni ermeneutiche che illuminano sulle differenze tra i due scrittori ma anche sulla loro fede comune in un linguaggio letterario capace di rendere conto di quell’Orrore che costituisce ormai la sostanza del mondo moderno e al quale la scrittura che vuole darne relazione in maniera adeguata non è più in grado di sfuggire se non attraversandolo fino in fondo».Mezzo secolo è passato dalle teorizzazioni zolaiane a quegli anni Trenta dove «il dubbio sta scomparendo da questo mondo», nei quali la modernità dell’acciaio ha celebrato se stessa e si appresta a raccogliere altre sfide rovinose. Non c’è più spazio per ottimismi da belle époque, tutto è diventato più potente e pericoloso, perfino le divinità scrive Céline; e non c’è modo per pensare in positivo perché si maledice con la parola quel che invece si accoglie nei fatti. Il nulla imperversa e con esso uno strano istinto di morte, conclude l’autore di Morte a credito. Saranno profezie su profezie: meno di dieci anni dopo sarà ancora quest’ultima (la morte) ad avere la meglio sulla grande parentesi storica europea che aveva posto sugli altari i presupposti materiali del mondo moderno. Come nella, e più della, seconda metà degli anni Dieci, all’inizio degli anni Quaranta la realtà della vita sarà annientata dalla più atroce realtà della morte.

Marco Iacona, Arianna Editrice

Grazie a Harm Wulf per la segnalazione!

martedì 5 maggio 2009

Bulletin célinien n°308...


... dedicato al romanziere, giornalista e critico Jacques d'Arribehaude (1925-2009), autore tra l'altro di diversi saggi su Louis-Ferdinand Céline.

Per richiederlo scrivere a:

Le Bulletin célinien
BP 70
B1000 Bruxelles 22

celinebc@skynet.be

lunedì 4 maggio 2009

Louis-Ferdinand Céline: Lettere d'Africa






LETTERE D'AFRICA
di Gilberto Tura

A testimonianza dell'avventura coloniale africana del poco più che ventenne Louis Destouches, quale amministratore di una piantagione di tabacco in Camerun per conto della Compagnie Forestiere Sangha Oubangui, restano ottandue tra lettere e cartoline che nel 1978 Gallimard pubblicò sul quarto volume dei Cahiers Céline. Nello stesso volume si trovano pubblicate anche due poesie e la novella Des vagues (quest'ultima pubblicata in Italia con il titolo Le onde nel 2008 dalle Edizioni Via del vento a cura e con la traduzione di Anna Rizzello) coeve alle lettere. La principale destinataria delle missive é l'amica d'infanzia Simone Saintu, poi seguono quelle ai genitori e un paio ad Albert Milon, un vecchio amico con il quale aveva condiviso la camera d'ospedale durante il periodo di cura a seguito della grave ferita riportata al braccio destro, causata da un proiettile che lo aveva raggiunto al ritorno da una rischiosa missione di collegamento sul fronte di guerra nella Fiandra occidentale. Quattordici delle ottantadue lettere sono apparse in Italia nel 1985 sul numero primo e secondo della rivista letteraria In forma di parole, alcune integralmente altre parzialmente, tradotte e commentate da Sandra Teroni. L'esperienza africana, durata poco meno di un anno, segnerà nel profondo l'animo del futuro medico-scrittore, tanto che, quindici anni più tardi, la utilizzerà per creare uno degli episodi più toccanti e memorabili del Voyage.

Di seguito una lettera all'amica Simone Saintu. Notare le irregolarità ortografiche e della punteggiatura che sono state trascritte in maniera assolutamente fedele all'originale.

Sotto il ramo! - ? -
14 luglio.
Mia cara Simone.
Oggi 14 luglio, dove sono?
Neppure io lo so, so che due anni fa
ero a Longchamp, in mezzo a tanti
altri che non ci sono più, e dopo, sono
successe tante, tante tristi cose.
Sono triste anch'io, oggi, chissà
perché, che sia la febbre, o il passato,
forse tutti e due
Sono quasi otto giorni che vado
avanti, sotto la foresta, non ho ancora
incontrato nessuno, e, se le carte
dicono giusto, non incontrerò nessuno
prima di quindici giorni
Ci sono, mia cara Simone, dei
momenti grigi, in cui per una ragione
o per l'altra, tutto l'essere si lascia
andare, un'intima sensazione di
disgusto vi invade la gola. l'odore di
concime umido che il suolo esala
diventa insopportabile, i negri ancora
più neri i gesti si fanno stanchi, mille
riflessioni scoraggianti affluiscono alla
mente, se non ci fate attenzione, è lo
svaccamento generale e naturalmente la
febbre -
Di sera, soprattutto, quando sotto
la grande volta dei rami ho sistemato
l'accampamento e tutti i portatori
dormono, e faccio cuocere il mio pezzo
di scimmia giornaliero, su un focherello
recalcitrante di legno umido, e per una
ragione o per l'altra sono incupito mi
invade una sorta di timoroso pudore,
ho paura nella grande caverna che gli
alberi formano, cerco invano le stelle, i
mille gridi di animali che l'eco
ingingantisce ancora mi sembrano
protestare contro la mia presenza.
E vi confesso che in questi momenti
evito di urtare col mio unico cucchiaio
le pareti della mia unica casseruola, per
paura di far rumore.
Allora pian piano mi lascio andare
a riflessioni malinconiche sul mio stato
vagabondo... ma subito evoco il piatto
quadro del confort europeo, della vita
insulsa, ordinata, misurata, pesata,
compassata, commentata, di quelli di
laggiù, ottusi, rompiscatole, pretenziosi
meschini, e la mia noia sparisce, mi
sento liberato dall'angoscia, protetto da
tutto questo grazie alla mia grande
solitudine -
E se qualcuno potesse osservarmi mi
vedrebbe raddoppiare le attenzioni al
mio focherello, umido e racalcitrante,
che faticosamente cuoce un pezzo di
scimmia coriaceo, nella mia unica,
casseruola
Il vostro vecchio amico -
Louis -