martedì 17 dicembre 2019

Martin Scorsese, The Irishman e Louis-Ferdinand Céline

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"Come ispirazione per The Irishman, il cinema francese resta una delle sue influenze maggiori [...] Mentre sul lato letterario, Martin Scorsese cita Louis-Ferdinand Céline e il suo Viaggio al termine della notte".


Céline nel film Jeune Juliette!

Divertente citazione di Louis-Ferdinand Céline nella commedia canadese Jeune Juliette (regia di  Anne Émond, 2019).









martedì 10 dicembre 2019

NAUSEA DI CÉLINE di Jean-Pierre Richard recensito su "Libero" di oggi




"La condizione umana secondo Céline", la recensione di Emanuele Ricucci del saggio NAUSEA DI CÉLINE di Jean-Pierre Richard, traduzione di Daniele Gorret e a cura di Andrea Lombardi per Passaggio al Bosco Edizioni su LIBERO, in edicola, del 10/12/2019.

LEGGI L'ARTICOLO >> "Lo sfracello di questo tempo comincia dagli uomini. Un Céline schifato. Al termine della notte, dove tutto si disfa e l’unica redenzione è ritrovarsi cadavere libero degli odori della morte, o nel pieno della Grande Guerra, mentre, in un campo, i macellai fanno a pezzi le bestie per la truppa. Il vomito e il profumo della fine, della putrefazione che tutto si mangia, come inconfutabile verità, come a ricordarci che nelle cose prossime a cadere sembra esserci più verità, perché esauste e manifeste. E finalmente liberatorie di ogni peso. Non c'è disprezzo più umano e sincero di quello di Destouches. Una ripugnanza densa, che si fa chirurgica, tra le pagine della Nausea di Céline (Passaggio al bosco, pp.68, euro 8). Un viaggio nella meccanica della fine, complice forse la sua esperienza di medico, negli odori, nella visione della morte del corpo che libera l’anima. Lavoro di mani esperte. Di quelle di Jean-Pierre Richard, critico letterario, docente universitario, autore di questa meditazione critica e brutalmente poetica, di Andrea Lombardi, tra i massimi studiosi italiani di Céline, che sullo stesso ha firmato molti lavori, da ricordare Louis-Ferdinand Céline. Un profeta dell’Apocalisse. Scritti, interviste, lettere e testimonianze, e del lavoro del poeta e traduttore Daniele Gorret, che ne ha curato la traduzione. Un lavoro inedito, come racconta Lombardi – «questo saggio era in appendice all'edizione Guanda del pamphlet La bella rogna di Céline, del 1982, subito ritirato dal mercato» -, dal titolo eccelso, come voluto da Richard, controcanto all’uomo redento dal peccato, che ha in vita possibilità di salvarsi, che evoca il sapore, e il suo esatto contrario, di un’Estasi di San Francesco, di Tiziano. Qui è Nausea di Céline. Nausea della guerra vissuta, del lungo viaggio per arrivare a concepire come finisce la notte degli uomini, dove e di cosa profuma mentre marcisce. Non c’è l’atto dell’estasi o dell’allungamento degli uomini alla loro salvezza, ma l’esatto contrario: vi è la nausea, la decomposizione dei corpi e delle anime, la caduta del confine - come luogo in cui «l’Io giunto sul bordo della grande fusione esistenziale, si ferma un breve istante per considerare ed assaporare la sua catastrofe», scrive Richard -, la corrosione, a convocarli nell’inferno di vermi. Pagine che escono dalla carta e invitano a toccare, annusare. «In fondo, l'uomo è soltanto putrefazione in sospeso», scrive, il dottor Destouches: un morto a credito. È uno sbracato (categoria céliniana per Richard), uno stronzo evanescente, immeritevole di salvezza, per la propria vanità e insieme per la propria pochezza, preso solo dall’istinto di conservazione, che dello sfacelo fa la sua estasi, «l’immagine fisiologica più nauseante in cui l’intero universo è trascinato», l’atto finale, epifania di verità, però, unico e ultimo momento di aggancio dell’eternità; il colpo di fucile all’alba del fronte dopo la notte, quello della fine, dirà Céline. Forse l’unica vera perversa salvezza. Lo sbracato evocato da tanta Francia letteraria che legge la storia nella notte della fine, come per Raspail, Houellebecq, Harouel, Carrère, che prolifera infetto nella decomposizione umana nella “religione dell’umanità” (Harouel) dell’Uomo-Dio che cerca redenzione solo da se stesso, abbandonato il Divino, incapace di coltivarsi, di prolungare la Bellezza del mondo, se non nel godere eroticamente delle proprie soddisfazioni materiali. Pupazzi avvicinati e compromessi. Nausea. L’uomo céliniano, scrive Destouches, «flaccido e spaccone, fifone e teatrale», che vuole portarci a fondo con sé, rinforza Richard. Quanto è vicino il termine della notte, in questo nostro presente misero. Uomini integri, sovrani di se stessi, contro uomini replicanti, sterilizzati. Céline non è una dimostrazione di stile da mandare a memoria. Ma uno schiaffo in faccia sul presente"

giovedì 5 dicembre 2019

Morto Frédéric Monnier, editore e studioso céliniano

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Qui la notizia sul Bulletin célinien di ottobre 2019:

Il se savait condamné depuis plusieurs années et faisait face à la maladie avec un courage magnifique. J’ai fait sa connaissance il y a quarante ans lorsque Pierre publia son Ferdinand furieux avec 300 lettres inédites de Céline. Frédéric, lui aussi fervent admirateur de l’écrivain, suivit la trace de son père en se faisant l’éditeur de Céline dans les années 80. Il commença modestement en publiant, sous la forme de plaquettes, Chansons, puis un scénario de ballet, Arletty jeune fille dauphinoise, avant de s’attaquer à la correspondance de Céline, éditant celle-ci de manière rigoureuse et soignée. C’est ainsi que, grâce à lui, nous disposons de la correspondance à ses avocats (Naud et Tixier-Vignancour), à Joseph Garcin et enfin au traducteur hollandais de Céline, J. A. Sandfort. Faut-il préciser que ces éditions sont aujourd’hui très recherchées par la nouvelle génération de céliniens ? Les premiers livres qu’il a édités le furent sous l’égide de La Flûte de Pan, librairie musicale, sise rue de Rome à Paris, dont il fut le fondateur et qui s’avéra une belle réussite professionnelle. Ses dernières années furent consacrées à une enquête minutieuse sur son arrière grand-oncle, Marius Mariaud, figure méconnue du cinéma muet. Le livre, édité l’année passée par l’Association Française de Recherche sur l’Histoire du Cinéma, est un modèle de recherche historiographique. Durant quatre ans Frédéric y apporta tout le soin et la persévérance dont il était capable. Cet ouvrage, qui fera date, constitue une manière de testament. « Il s’agissait moins ici de réhabiliter un auteur que de montrer ce qu’a été le parcours d’un homme qui a participé à la grande aventure créatrice de son temps et qui a fini sa vie dans le dénuement et l’oubli », écrit-il en conclusion. Sans lui, seuls quelques cinéphiles pointus connaîtraient l’œuvre de ce pionnier ¹.

Lorsqu’on évoque sa mémoire, il importe de relever cet humour pince-sans-rire apprécié par ses amis. Et qui est apparu très tôt si l’on en juge par les souvenirs de son père : « Frédéric a huit ans et demi. Il est impassible, il écoute et sourit à peine… En classe, il est très sage, il travaille peu, parle peu, sauf pour dire par moment et sans broncher, une énormité. On l’appelle Buster Keaton. Ce soir, visite de notre ami Frédéric Pons, prof à Louis Le Grand. Homme de haute taille avec un fort accent biterrois et un crâne chauve et pointu. Il prend Frédéric dans ses bras… “Et toi, petit Frrrdérrric, tu ne me dis rien ?…” …Frédéric pose sa main sur le crâne chauve et dit : “Oh !… la belle petite poire à lavement…” ». Et l’auteur d’ajouter : « Les parents disparaissent lâchement dans la cuisine… ». Sur la même page, Pierre Monnier conte d’autres anecdotes révélatrices de l’esprit déjà facétieux du fiston ².

Frédéric n’était pas un admirateur frileux de Céline. À un ami qui désapprouvait l’attitude de l’exilé rendant son éditeur responsable de la réédition des pamphlets pendant la guerre, il répondait : « Je pense au contraire que, pour se défendre dans un procès politique, ces coups-là sont permis. D’autant plus que Denoël était mort. » Bien entendu, il était à nos côtés au cimetière de Meudon lorsqu’en 2011, François Gibault, entouré de quelques autres admirateurs de l’écrivain, prononça une allocution à l’occasion du cinquantenaire de sa mort. Grand moment d’émotion… Avec Frédéric Monnier, nous perdons un ami fidèle ainsi qu’un homme de talent.


Michel Houellebecq su Louis-Ferdinand Céline, Louisiana Channel 2019



Presentatore: Qual è la vostra relazione con Céline?

Houellebecq: Non grande. Ho apprezzato ‘Viaggio al termine della notte’, e penso che poi sia diventato sempre più formalistico. Si guardava scrivere. E alla fine, era solo vuoto formalismo. Mi spiace… L’altra cosa sgradevole da dire su Céline, è che i suoi pamphlet antisemiti non sono affatto male. Per me, era più dotato per i pamphlet che per i romanzi. Detto questo, penso che globalmente c’è del buono nella sua opera, e sono contento che i danesi abbiano impedito che venisse ammazzato nel 1945. Ma per me, contrariamente a molti francesi, non è il vertice della letteratura francese del ‘900. Preferisco di gran lunga Proust. Per esempio, tra gli altri. Questa è la mia risposta.

Louisiana Channel, Michel Houellebecq - Domande e Risposte con i suoi lettori, 29 novembre 2019.

martedì 12 novembre 2019

"Ora Madame Céline è di nuovo con il suo Louis", di Stenio Solinas




Nel 1961, quando Louis-Ferdinand Céline morì all’età di 67 anni, Lucette, sua moglie, fu finalmente libera di vivere. Ci prese talmente gusto che è morta solo ieri, a 107 anni di età, e si potrà anche dire che il destino in qualche modo avesse deciso sin dall’inizio di ripagare con gli interessi ciò che nel primo mezzo secolo le aveva fatto pagare. Allora, alla morte dello scrittore “maledetto” per eccellenza, Lucette aveva 49 anni e fra la fuga dalla Francia attraverso un’Europa in fiamme, l’esilio forzoso in Danimarca, il rientro in patria grazie a un’amnistia, l’autoesilio volontario sulle alture di Meudon, si era giocata quasi vent’anni della sua esistenza nel ruolo di moglie invisibile di un uomo impossibile. Céline non usciva mai di casa e, tranne rare occasioni, non riceveva, un “morto che cammina”, artisticamente e fisicamente, il cui unico obiettivo era riprendersi quella gloria letteraria finita nella polvere per le sue scelte politico-ideologiche. La decadenza fisica di lui prese via via le caratteristiche di una catastrofe, un corpo che sempre più si incurvava, un volto che sempre più si incavava, dei panni che sempre più coprivano, ma non vestivano, laceri, sporchi stracci senza forma...Al primo piano del villino di Meudon dove vivevano una vita di autoreclusi per scelta di Louis, accettazione di Lucette, lei aveva ricavato la sua camera e organizzato una sala di danza. «Danza classica e di carattere» era l’insegna che aveva voluto mettere al cancello, sotto quella di «medico» scelta dal marito. Gli allievi, come i pazienti, erano rari. Per gli uni e per gli altri era Madame Almanzor. Nel decennio dell’esilio volontario di Meudon, Céline fece di Lucette la Lili e l’Arlette dei suoi ultimi romanzi, oggetto di desiderio e di ammirazione, «Ofelian ella vita, Giovanna d’Arco nella prova », ninfa pagana e gentile, «natura tutta armonia, danzatrice nell’animo e nel corpo, tutta nobiltà... Oh, lei ha i segni Arlette, felicemente!Le danzatrici, le vere, quelle che ci nascono, sono fatte di onde, diciamo! Non di carne... È utile nelle ore atroci... niente parole, allora! Basta parole! Solamente le mani! Le dita... un gesto... una grazia... È tutto». Dopo che Céline morì, Madame Almanzor, Lili, Arlette, divenne per tutti Madame Céline: la sua esistenza alimentava l’illusione che in qualche modo in quella casa lui continuasse ad esserci: si andava al 25 ter di route des Gardes, sulla strada che porta a Versailles, come si va in pellegrinaggio. Nel 1969 un incendio distrusse l’abitazione e Madame Céline la ricostruì tale e quale; glimorì il pappagallo del Gabon, Toto, e lei prese un Toto II, e così fece con i cani e con i gatti. Per certi versi accadde la stessa cosa con gli amici fedeli dei tempi bui, le Arletty, i Marcel Aymé. Alla loro scomparsa, via via che le Parche ne tagliavano il filo della vita, Madame Céline li rimpiazzava con amici più giovani, ma egualmente fedeli... Nel mezzo secolo e passa di Lucette senza Louis, per lei ci sono stati l’esame per prendere la patente e l’acquisto di una macchina, i viaggi in Asia, Giappone, India, Tailandia, in Africa, Kenya, Tanzanica, nel Mediterraneo, Marocco e Grecia, Tunisia e Spagna, Italia, nel nord-Europa, i fine settimana a Dieppe, le corse a Parigi per uno spettacolo di teatro o di danza, una serata al cinema, gli acquisti da Fauchon per le cene della domenica con amici, conoscenti, ammiratori: Charles Aznavour e Maurice Ronet, Claude Berri e Fabrice Luchini, Françoise Hardy e Philippe Sollers, Jacques Vergès e... Carla Bruni. Un universo completamente diverso rispetto al precedente, eppure non nuovo. Nel 1936, quando Louis e Lucette si misero insieme, lei appena tornata da una tournée negli Stati Uniti, lui fresco del nuovo scandalo di Mort à crédit, erano una ragazza curiosa e piena di vita di 24 anni e un quarantenne sensibile, colto e divertente. Alto più di un metro e ottanta, biondo con gli occhi azzurri, abiti di buon taglio e stoffa inglese, di casa a Ginevra come a Vienna, a New York come a Londra, già sposato e già divorziato quel Céline era un uomo di mondo... Poi il mondo non fu più lo stesso, e lui nemmeno. Da vent’anni ormai, Madame Céline non usciva più: le gambe avevano smesso di funzionare, tre persone si occupavano della sua salute,ma i rendez-vous domenicali per quanto diminuiti hanno continuato ad esserci quasi fino all’ultimo: dal punto di vista della verve e della testa, Lucette era rimasta quella di sempre. Nel tempo l’indirizzo di route des Gardes al numero 25 era divenuto lo spazio fuori moda eppure alla moda di un culto, il luogo intemporale dove soffiava un certo spirito del tempo, un salotto da tè che sapeva dello zolfo dell’inferno umano e artistico proprio di Céline. Intelligentemente, Madame Céline aveva messo la sordina sul Céline maledetto, dedicandosi al suo riscatto di scrittore puro e costruendo in alternativa l’immagine di un uomo sofferente, buono, travolto dagli eventi... Fatalmente, la casa di Meudon era divenuta lo spazio dove la sovversione si era fatta istituzione, il sole nero dell’ignominia era andato sempre più tramontando, un cimitero di vivi che assomigliavano a dei morti e dove l’unico veramente vivente era il morto periodicamente ricordato, difeso e amato, una sorta di Père-Lachaise alla rovescia. Il più infrequentabile degli scrittori di Francia aveva lasciato la più frequentata delle vedove. Adesso sono di nuovo insieme.

Stenio Solinas, "Il Giornale" del 9 novembre 2019

venerdì 8 novembre 2019

Lucette Destouches, la vedova di Louis-Ferdinand Céline, è morta oggi, venerdì 8 novembre 2019



Lucette Destouches, la vedova di Louis-Ferdinand Céline, è morta oggi, venerdì 8 novembre, all'età di 107 anni, nella loro casa di Meudon.

Lucette Destouches, la veuve de Louis-Ferdinand Céline, est morte
La seconde épouse de l'écrivain est décédée à l'âge de 107 ans.

Lucette Destouches, la seconde épouse de Louis-Ferdinand Céline, de 1943 à son décès, en 1961, est morte vendredi 8 novembre à son domicile de Meudon. Elle avait 107 ans. Professeure de danse, Lucette donnait des cours depuis l’étage de la maison du couple.
En 2018, criblée de dettes, elle avait annoncé mettre en viager la demeure où elle habitait depuis près de 70 ans et où elle souhaitait finir ses jours. Lucette Destouches apparaît dans trois romans du grand écrivain français, D’un château l’autre, Nord et Rigodon, où elle est désignée sous le nom de «Lili».
Après la mort de Céline, elle s’était fermement opposée à la reparution des pamphlets antisémites de l’auteur, avant d’y consentir en 2017 à la faveur de Gallimard.

Quand elle a enterré Céline, en 1961, Lucette a fait graver sur sa tombe, en plus de l’inscription pour son mari, « Lucie Destouches, née Almansor, 1912-19..». Elle aura finalement connu le début du siècle suivant, survivant 58 ans à l’auteur de Voyage au bout de la nuit.

giovedì 26 settembre 2019

NAUSEA DI CÉLINE La condizione umana nell’immaginario e nelle opere di Louis-Ferdinand Céline, di Jean-Pierre Richard



«È a Jean-Pierre Richard che spetta il merito d’aver saputo – nel 1980 – scoprire e descrivere superbamente la “nausea di Céline”. Questa, per Louis-Ferdinand Céline, non ha niente a che vedere con il silenzio ostinato; ancor meno, può essere paragonata all’assurdità fisica delle cose tangibili, dissezionate da Jean-Paul Sartre. Mentre il filosofo esistenzialista – infatti – dava al suo “disgusto d’esistere” una dimensione metafisica, Céline ha immediatamente situato il proprio nel piano sensoriale degli eventi.

È così che si riflette, nel “Viaggio al termine della notte”, un’impressione indelebile lasciata dalla carneficina della guerra, che sta in un’atroce rivelazione: la carne, viva e umana, è solo “carne da macello”. Essa di disfa in un batter d’occhio, senza che niente e nessuno possa impedirlo. Questa deliquescenza primordiale, che si può veder grondare da un romanzo all’altro, trascina con sé tutto l’universo celiniano, imprimendosi nel tempo.

Eccellente idea la ristampa di questo piccolo saggio del grande critico Jean-Pierre Richard su Louis-Ferdinand Céline. Si contano a bizzeffe gli studi dedicati all’autore del “Viaggio al termine della notte”, ma se dovesse restarne uno solo, forse sarebbe proprio quel “Nausea di Céline”, che regge in meno di cento pagine».

Le Figaro, 23 febbraio 2008

Traduzione di Daniele Gorret, a cura di Andrea Lombardi.

La vita è più un ospedale che un baccanale, intervista a Colette Destouches-Turpin, figlia di Céline

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(nella foto, Lucette Almansor e Colette ai funerali di Céline)

Online sul nuovo sito di Satisfiction!

martedì 6 agosto 2019

Albert Paraz e Céline

Su "Il Manifesto" di domenica 4 agosto, articolo di Massimo Raffaeli su Albert Paraz: scrittore francese nato a Costantine in Algeria nel 1899 e morto a Vence nel 1957, fu uno dei più accesi sostenitori di Céline.


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 LOUIS-FERDINAND CÉLINE A  ALBERT PARAZ

                                                               [Copenaghen] lunedì [29 marzo 1948]
     Vecchio mio
     Niente da fare con gli editori. Sono dei commercianti. Tutto dire. Il loro compito è tosarci a zero. I giornalisti coprirci di merda. La copertina a fiori orripila il lettore. La copertina in merda lo fa godere di brutto. Malvagità è Regina. Odiosità una Dea. E comunque mi esaspera che si parli o si scriva di me in bene o in male dove non importa. E’ spiccicato. Le reazioni sono sempre ignobili e disastrose. Preferisco mi si dia per morto. Già è bello da morti essere meno odiati dai vivi. Una amica mi scrive che in “Ici Paris” hanno passato la notizia dove sarei descritto come particolarmente sadico! “sulla base di lettere da me spedite a delle amiche”!!!
     Sta schifezza non ne so nulla. Io sadico? Io che da anni mi trascino nell’angoscia e la miseria e la noia e la malattia. Cacchio, a me che da anni non mi si drizza! Dov’è che lo trovo l’umore santo Iddio? Io che l’unica passione è rubare dei ¼ d’ora di sonno grazie al véronal… Io che me ne sono sempre fottuto delle fregature del sesso! eccomi sadico! non più che alcolista ahimé! Gli oblii e le ebbrezze mi sono tutti impediti. Vecchio bevitore d’acqua, vecchio sfinito, naturalmente casto ho sempre descritto ogni specie di porcherie per spassare le scimmie umane che tanto le disprezzo! Si bagnano godono e ci credono pure sti sgorbi! E ne fanno di intrugli coi loro miserabili 3 secondi di riproduzione! Commedia e dramma e piselli dovunque! L’immenso spasso!
     Paulhan fa uscire finalmente Casse-pipe. Quanto mi sono rotto con le bozze. E gratuitamente. Diranno ancora che mi sono intascato dei lingotti!
     Il tuo polmone va. Va bene. Tu mi affosserai è ovvio. Io non mi reggo più in piedi. Se solo un po’ mi rianimo – poi lo pago a notti di insonnia. Ah! Rianimarmi con lo sgobbo. Non stare a eccitarti! Ogni giorno noi coricati alle 7 alzati alle 6.  Mai una visita. Mai una passeggiata. Mai un cine. Niente. Mi divertirei di più in un lebbrosario. Mi guadagnerei da vivere, prima cosa. Se ti capita di scendere a Nizza vai a trovare i miei suoceri (molto gentili e molto signorili) i Sigg. Pirazzoli 8 Rue Massena Nizza. Ti riceveranno senz’altro. MA TU NON DIRLO A NESSUNO.
                                                Molto affett. tuo   
                                                                                          LFC

[Louis-Ferdinand Céline, Lettres à Albert Paraz (1947-1957), Edition établie et annotée par Jean-Paul Louis, “Cahiers Céline” 6, Gallimard 1980, poi in Lettres, Edition établie par Henri Godard et Jean-Paul Louis, “Bibliothèque de la Pléiade”, Gallimard 2009, pp. 1034-1035]

                                                      

     Nel marzo del 1948, Louis-Ferdinand Céline è reduce da quasi un anno di prigione a Copenaghen ed è ospite dell’avvocato Thorwald Mikkelsen che sta arredando alla meglio per lui, sua moglie Lucette (la ballerina che i lettori conoscono come Lili), il loro gatto Bébert e la cagna Bessy una baracca di legno sulle rive del Baltico. Céline è fuggito da Montmartre nel giugno del ’44, è stato a Sigmaringen a margini della cricca di Pétain e Laval, poi ha attraversato la Germania in fiamme puntando sulla Danimarca dove tempo prima aveva messo in banca (tradotti in lingotti d’oro) i diritti d’autore dei due grandi romanzi anteguerra, Viaggio al termine della notte e Morte a credito. Fin dalla Liberazione è ricercato dalla giustizia francese e presto viene condannato a morte in contumacia sulla base dell’art. 75 del codice penale,  “intelligenza col nemico”, ritenendosi tale non tanto gli infami libelli antisemiti di cui si è macchiato nel decennio precedente quanto i suoi reiterati rapporti con la stampa e gli alti papaveri collaborazionisti sotto l’0ccupazione e dunque sotto il tallone nazista, sous la botte des nazis. Pescato dalla Resistenza a Copenaghen nel dicembre del ’45, incarcerato, poi ricoverato in ospedale e infine ai domiciliari sulla parola, ora è in attesa di una estradizione che il suo avvocato sta procrastinando con ogni cavillo. Céline non ha un soldo e non ha più un editore perché Robert Denoel (colui che aveva scommesso sul Voyage dopo il gran rifiuto di Gallimard) è stato giustiziato a Parigi, in circostanze mai chiarite, poco dopo la liberazione della città. Peraltro è difficile immaginare al presente un editore per colui che in patria è sinonimo di una canaglia soltanto meritevole, pari a Robert Brasillach, del plotone di esecuzione. Per parte sua Céline non ha mai avuto se non astio e disprezzo nei confronti degli editori, che considera in blocco peggio dei giornalisti, turpi ignoranti, pescicani affamatori o avidi parassiti: una volta amnistiato e di nuovo a Parigi già alla fine del 1951, egli non risparmierà neanche il suo grande redentore, Gaston Gallimard in persona, dandogli regolarmente, in privato come in pubblico, del truffatore e del maniaco sessuale (le vieux cochon, vecchio porco per antonomasia, come attestano a oltranza Lettere agli editori, a cura di Martina Cardelli, Quodlibet 2016). Grazie ad alcuni fan, tra cui il giovanissimo Pierre Monnier, ora sta cercando di piazzare con scarsi risultati in Belgio e nella Svizzera francese i suoi vecchi capolavori, meglio se in edizioni di lusso, e però sta evidentemente sottovalutando il lavoro sottotraccia di Jean Paulhan, longa manus di Gallimard e neodirettore della “N.R.F.”, che ha il compito sia di rimuovere dal catalogo le macchie collaborazioniste sia di acquisire in silenzio Céline (primo segnale è la pubblicazione di uno squarcio narrativo inedito, Casse-pipe) cioè un autore perduto dalla casa editrice molti anni prima per un ambiguo giudizio del comitato di lettura. Céline proprio grazie a Paulhan verrà “pleiadizzato” (immesso da vivo nella prestigiosissima collana della Pléiade) eppure nei suoi romanzi terminali contraccambierà trattandolo alla stregua di un paraninfo ipocrita e viscido, del servo più zelante del vecchio Gaston, ribattezzandolo Loukoum, leccalecca. Il fatto è che Céline, nella sua paranoia perfettamente autocentrata, non ha bisogno di interlocutori ma di sparring che ogni volta gli facciano da sponda e ne rilancino la logorrea o necessita insomma di qualcuno che riceva la sua giaculatoria perpetua di vittima e di capro espiatorio.  In questo è ideale Albert Paraz, anche lui un ex di Denoel, e il loro carteggio è infatti il più cospicuo del periodo danese, oltre trecento lettere a testa. Paraz (Costantine, Algeria 1899-Vence 1957) è per taluni aspetti l’antipode di Céline perché nonostante la tubercolosi è un bon vivant, uno scapigliato, un poligrafo disordinato e dispersivo, ma per altri riguardi Paraz è un doppio di Céline: anarchico di simpatie destrorse, collabora a “Rivarol” e purtroppo nel ’50 accoglie il volume di un ex socialista, Mensonge d’Ulysse di Paul Rassinier, accettando di scrivere la prefazione (con un gesto di presunto e del tutto male inteso anticonformismo) a quanto viceversa farà da battistrada ai futuri negazionisti. Mai tradotto in italiano, ci informa il suo maggiore studioso Jacques Aboucaya (in Paraz le rebelle, L’Age d’Homme 2002) che anche in Francia è poco letto e confinato tra gli eccentrici. Molto datati i due romanzi picareschi del suo portavoce e antieroe Bitru (1936-’37), di Paraz rimangono in sostanza tre pamphlet in onore di Céline ovvero scritti virtualmente con Céline medesimo, Le Gala des vaches (’48), Valsez saucisses (’50) e Le Menuet du haricot (postumo, 2003). Paraz vi incorpora le lettere céliniane via via che le riceve come materia prima per la apologia di uno scrittore braccato, umiliato e ormai quasi cancellato. Lo stile di Paraz non è affatto mimetico e alla piccola musica di Céline (la poetite musique che in effetti è una musica sincopata, jazzistica) oppone la cadenza di chi cerca la leggerezza e la rapidità stenografica. Paraz non vedrà mai né il proprio redentore né l’edizione complessiva dei libelli uscita solo nel 2003 a Losanna presso L’Age d’Homme dell’indimenticabile Vladimir Dimitrijevic. A dispetto del maestro che l’aveva ripetutamente messo in guardia dagli editori: quelle joie de nous assassiner! Quanto gli gusta di assassinarci!

                                                                                         Massimo Raffaeli


    
    


giovedì 23 maggio 2019

Andrea Lombardi su "Le Bulletin Célinien" di maggio



Sapevo che nel numero di maggio de "Le Bulletin Célinien", dal 1981 la pubblicazione dedicata a Céline più seguita, avrebbero citato i miei lavori su Louis-Ferdinand Céline, ma non immaginavo lo avrebbero fatto dedicandomi copertina e editoriale di apertura, onore concesso in questi quasi 40 anni di attività della rivista a ben più illustri critici letterari e scrittori céliniani. Grazie a Marc Laudelout e al BC e a tutti quanti i miei lettori e alle persone che mi hanno aiutato negli anni.


Andrea Lombardi


"Andrea Lombardi è senza alcun dubbio il céliniano più attivo d'Italia. Oltre a un blog dedicato interamente al suo autore prediletto, gli si devono diverse opere, tra le quali una superba antologia, riccamente illustrata, pubblicata nel 2016 dalla sua associazione culturale ITALIA Storica. Da molti anni, non smette di rendere accessibile ai lettori italiani dei testi poco conosciuti di Céline (come la sua corrispondenza) ma anche delle testimonianze e studi letterari che raccoglie in testi di bella fattura.
Oggi, pubblica una plaquette riunente i tasselli del dossier polemico che oppose Céline a Roger Vailland [...]"



"Andrea Lombardi est sans nul doute le célinien le plus actif d’Italie. Outre un blog entièrement dédié à son auteur de prédilection, on lui doit plusieurs ouvrages dont une superbe anthologie, richement illustrée, éditée en 2016 par son association culturelle “Italia Storica”. Depuis plusieurs années, il n’a de cesse de rendre accessible au lectorat italien des textes peu connus de Céline (dont sa correspondance) mais aussi des témoignages et des études littéraires qu’il réunit dans des ouvrages de belle facture.
Aujourd’hui, il publie une plaquette réunissant les pièces du dossier polémique qui opposa Céline à Roger Vailland. [...]"






mercoledì 8 maggio 2019

Recensioni di "Céline contro Vailland", a cura di Andrea Lombardi (Eclettica Edizioni)



Il complotto (sgangherato) per uccidere il Céline "nazi"
di Alessandro Gnocchi 

Nel 1950, lo scrittore Roger Vailland, oggi ignoto ma al tempo una celebrità, pubblicò un articolo su La Tribune des Nations in cui raccontava una storia bizzarra.

Il giornale era finanziato dai servizi segreti sovietici. Vailland (1907-1965) era un comunista molto particolare. Credeva in Stalin ma preferiva le donne. Dopo i fatti di Budapest abbandonò il partito. Il suo romanzo Uno strano gioco (1945) sulla Resistenza, aveva fan trasversali. Ad esempio piacque molto a Roger Nimier, il rispettato consulente di Gallimard al quale si deve anche il ritorno sulla scena di Céline... Al quarto piano del palazzo in rue Girardon 4 c'era una base segreta della Resistenza, nel cuore della Parigi occupata dai nazisti. Una cellula, di cui Vailland faceva parte, si riuniva in quelle stanze per fare il punto della situazione, elaborare piani, scambiare armi, ascoltare la radio inglese e altro. Al quinto piano abitava un altro scrittore, Louis-Ferdinand Céline. E mentre di sotto si cospirava, di sopra si festeggiava. A dire di Vailland, l'appartamento di Céline ospitava la «crema» del collaborazionismo francese, redattori della rivista filo nazista Je suis partout, colonnelli delle SS. Verso le undici di sera, gli ospiti se ne andavano ma rimanevano comunque a fare crocchio sotto il portone. Vailland e compagni iniziarono a pensarci su. Perché non far fuori un po' di tedeschi e collaborazionisti? Si valutarono due opzioni. Far cadere in testa ai nazisti una bomba a mano, affacciandosi alla finestra. Irrompere mitra alla mano e falciare i convenuti. Dopo un'accesa discussione, i ribelli decisero di soprassedere. Il motivo? Si potevano maciullare tedeschi e collaborazionisti meno uno: Céline. Alcuni soci di Vailland fecero notare che non si poteva crivellare come un sacco di patate l'autore del Viaggio al termine della notte. Sarebbe stato un reato contro la letteratura francese. Incredibile a dirsi, l'argomento fu sufficiente per far cadere ogni azione violenta. Vailland conclude con un filo di rammarico per l'occasione sprecata. Céline manda immediatamente una lettera al suo avvocato affinché la trasmetta all'Haute Cour: non c'è mai stato alcun cenacolo in rue Girardon, non ha mai ricevuto giornalisti o scrittori collaborazionisti, va a letto da sempre alle sette di sera. Fino a qui siamo ancora nel 1950.

Otto anni più tardi, Vailland vince il premio Goncourt con La legge. Céline scrive una contro memoria intitolata Illuminazioni e pubblicata su Le petit Crapouillot del febbraio 1958. Lo scritto si apre con il vecchio articolo di Vailland e prosegue con un'invettiva feroce.

Ora le pagine infuocate di Céline sono pubblicate in Céline contro Vailland. Due scrittori, una querelle, un palazzo di una via di Montmartre sotto l'Occupazione tedesca (a cura di Andrea Lombardi, con un testo di Giampiero Mughini, traduzione di Valeria Ferretti, Eclettica edizioni).

Céline carica a testa bassa: «Quel Vailland è solo un idiota patentato! Di dettagli, e ben gustosi, su questa buffonata resistente degli eroi dello scampato pericolo gliene potrei raccontare a migliaia! Con i puntini sulle i! Roba da uscirne alla grande, scrivere pagine e pagine per ottenere un Goncourt decente!». Céline ribadisce di aver saputo perfettamente cosa accadeva nell'appartamento al piano di sotto e di non aver mai aperto bocca a differenza degli epuratori dell'ultimissima ora: «Certo queste persone si sono trasformate più tardi, ancora una volta, passato qualsiasi pericolo, in quali giustizieri feroci... vendicatori implacabili delle coliche!».

Céline spala «a forconate» le illazioni di Vailland: «Io dico, e affermo che questo Vailland (che orrore che sia così privo di forma e stile) mi deve la vita e il suo Goncourt... E questo povero cretino si dà oggi tali arie, pose fotogeniche, stile Gréco, Malraux, Mauriac che dovrebbe essere messo in provetta con Sartre, Madeleine, Triolette, Cousteau... non una provetta! una cisterna intera per metterceli tutti!».

Eppure c'è un testimone degli incontri a casa Céline e delle sue tirate antisemite così esagerate da mettere in difficoltà i suoi ospiti. Parola di Hermann Bickler, colonnello delle SS e amico dell'autore del Viaggio al termine della notte. La memoria è pubblicata in calce al volume citato: «Poi, lo scrittore mi invitò da lui, sulla Butte. Molte di queste serate sono rimaste scolpite nella mia memoria. Il suo domicilio si trovava al cuore di Montmartre, e corrispondeva pienamente al suo stesso aspetto». Il colonnello racconta che spesso si univano alla bohème altri scrittori o pittori residenti nel vicinato o nel palazzo. Céline ce l'aveva con i tedeschi impegnati nell'Occupazione. Per patriottismo? No. Li accusava di farsi prendere in giro dal governo di Vichy.





mercoledì 3 aprile 2019

“L’umanesimo paradossale di Céline”, di Antoine Jaquier




Louis-Ferdinand Céline – seicento pagine, è troppo breve.

Leggere Viaggio al termine della notte e pensare che Céline aveva ragione. Con questo testo, pubblicato nel 1932, ha ostacolato la letteratura francese per almeno un secolo. O perlomeno, niente sarebbe stato mai più come prima. Ma i rappresentanti del panorama letterario non avevano intenzione di lasciar vacillare le loro certezze. Trecento anni passati a nuotare a rana e a rallegrarsene, ed ecco che un medico dei poveri inventa lo stile libero. Un invalido della Grande Guerra! I lettori applaudono. Peggio, comprano.

Gaston Gallimard, che si era fatto soffiare il manoscritto da Denoel&Steel, piccolissimo editore dell’epoca, è offeso. Il Goncourt sfugge a Céline e i salotti letterari lo aspettano al varco per infangare il suo prossimo libro e cercare di ristabilire lo stile accademico.
Tuttavia, il quadro della nostra umanità, in tutta la sua cupezza, era già lì e vi scoprivamo l’emozione del linguaggio parlato nella scrittura. Il romanzo lirico. Una piccolissima invenzione, diceva Céline. Gli impressionisti avrebbero reinventato la pittura in reazione all’arrivo della fotografia; lui, come per resistere al cinematografo, ha fatto sorgere il romanzo lirico. Il romanzo diventa una sinfonia emotiva. In principio non era il Verbo, affermava, in principio, vi era l’Emozione.
Poi si inizia a leggere Morte a credito. Allora si capisce che non è finita. Anzi. L’infanzia non aveva detto l’ultima parola e nemmeno la letteratura. Stavolta, è attraverso gli occhi del piccolo Ferdinand che scopriamo il mondo degli adulti. La svolta del 19esimo secolo come se ci fossimo. La miseria del popolino. È noir senza essere avvilente. Anzi, esplosioni! Uno humour corrosivo, uno sguardo tagliente. Céline alterna misantropia e tenerezza infinita  verso alcuni personaggi. Sembra che il momento dell’andare a letto sia il momento preferito del piccolo lettore. Alcune righe prima di spegnere la luce. L’umiliazione suprema per un autore: il mio testo sarebbe soporifero?
Per addormentarvi, dimenticate Céline. Leggere una frase rende elettrici. Un capitolo? È come una discussione animata con un vecchio amico. L’arborescenza della rete neuronale si accende, poi brilla. Evidenze! Paradossi! Formule! Rivolte! Meraviglie! Andate a dormire dopo tutto questo. Ad ogni sessione finisco per rialzarmi così digerisco la mitraglia. La luce azzurra degli schermi ci renderebbe insonni?
Illuminiamoci alla luce oscura di Céline.

Terribile ombra nel quadro: il suo antisemitismo. Ci lascia sconcertati per il fatto che avremmo voluto poterlo amare totalmente. I suoi pamphlet pubblicati alla fine degli anni Trenta sono ignobili e gli varranno la condanna al carcere e all’oltraggio nazionale. Tuttavia, dopo la guerra pubblica Da un castello all’altro, seguito da Nord e Rigodon, ed è di nuovo la vertigine. Lanciarsi nella trilogia tedesca, cronache della vita dei collaborazionisti rifugiati in Germania, vi teletrasporta alla fine della seconda guerra mondiale con un realismo unico.

I 1.142 esiliati (cifra sua) del regime di Vichy sui quali francesi e tedeschi sputano di comune accordo poiché nessuno ama i traditori. Un angolo morto che solo Céline ha mostrato. Chi altro avrebbe potuto lasciare la traccia di una storia che vorremmo dimenticare? Sigmaringen. L’erranza. Circolare in una Berlino devastata. Tra le macerie di una Amburgo a brandelli in compagnia di un gruppo di bambini disabili.
E Céline narra la sua esperienza personale. Parla di ciò che conosce! Ogni primo paragrafo scricchiola/scoppietta come la miccia di una dinamite. Non se ne esce illesi. Le nostre convinzioni si sgretolano. L’umanità sporca e la bellezza dello stile. Louis-Ferdinand Céline, è un’opera a frammentazione. E questo affetto dell’autore nei confronti dei bambini – dei più deboli, degli oppressi del sistema in generale. Il suo paradossale umanesimo. Il suo amore per gli animali. Il suo gatto Bébert.

In quanto autore, per me, Céline, è la certezza di non potermi mai credere geniale. Qualsiasi cosa faccia e anche in questi momenti di euforia letteraria dove posso sentirmi, come diceva Arturo Bandini, l’alter ego di John Fante, “il più grande scrittore del mondo”, so che sono lontano mille leghe.
Questo grigiore indotto dai nostri stessi testi, che sembra comune agli autori e che ci consente di avere la presunzione di pubblicare i nostri lavori, viene tenuto a freno per fortuna da Céline, Dostoevskij, Ramuz e tanti altri.

Lungi dall’inibirmi, questi autori mi ispirano. Mi motivano e mi convincono che pubblicare non è vano. Che bisogna accanirsi. Migliorarsi. Scrivere il libro che vorremmo leggere. Lo stile. Lo stile! Solo lo stile conta. La storia è secondaria. Delle storie, ne sono pieni i giornali, le serie TV e i film. Essere se stessi il critico più severo. Evitare di essere lento. Evitare di essere pesanti. Il sorriso interiore. Mettere il proprio fegato sul tavolo, trarre ispirazione dal vissuto, non esitar a scrivere in prima persona, trasporre, sedersi al tavolo e non aver paura di sporcarsi le mani nella morchia della natura umana. Come affermava il dottor Destouches: “La grande ispiratrice, è la morte.”

Articolo apparso su “Le Temps” del 16 febbraio 2019. Traduzione di Valeria Ferretti.

domenica 10 marzo 2019

Louis-Ferdinand Céline, fuorilegge della letteratura: conferenza di Rodolfo Vivaldi e Andrea Lombardi

Venerdì 15 marzo ore 17.30 nella sede di DOMUS CULTURA di via D. Chiossone 6/4, 
Genova, si terrà la conferenza:

Louis-Ferdinand Céline, fuorilegge della letteratura 


Maestro di stile e “medico dei poveri”, pacifista e sferzante fustigatore dell’uomo occidentale, autore di capolavori della letteratura mondiale e di quei pamphlet che gli valsero in vita l’emarginazione letteraria: questo e altro fu Louis-Ferdinand Céline, disincantato testimone del Novecento, di cui conobbe, visse e a volte subì tutte le maschere. 

Ne parlano Rodolfo Vivaldi, autore del libro Giovannino Guareschi e Louis-Ferdinand Céline. Due grandi del '900 (I libri del Borghese, 2014) e Andrea Lombardi, curatore del libro Louis-Ferdinand Céline - Un profeta dell’Apocalisse. Scritti, interviste, lettere e testimonianze (Bietti, 2018).



Qualche immagine della presentazione:





Rodolfo Vivaldi e Andrea Lombardi


Andrea Lombardi


Miriam Pastorino, Rodolfo Vivaldi e Andrea Lombardi


La Domus Cultura di Genova



mercoledì 6 marzo 2019

'Il dossier "Bagatelle". La polemica su Céline in Francia e in Italia', a cura di Riccardo De Benedetti


Recensione di Luigi Mascheroni de Il dossier "Bagatelle". La polemica su Céline in Francia e in Italia 
su "Il Giornale" di oggi, 6 marzo 2019.







lunedì 7 gennaio 2019

Morto Piero Sanavio, critico letterario e céliniano


Pur con una visione molto ortodossa, Piero Sanavio è stato tra i primi céliniani italiani. Sotto, una sua intervista del 2013 all'uscita del suo Ancora su Céline.



“Céline era antisemita, certo. Ma è dalla merda e dal sangue che nasce la grande letteratura”

Padovano, classe 1930, fronte ampia, volto volitivo, un po’ Popeye un po’ Marlon Brando, Piero Sanavio si è laureato a Venezia sulle fonti italiane dei “Cantos”, su Ez ha pubblicato un mucchio di libri. Di Sanavio mi piace l’indomita indole alla trasgressione, al vagabondaggio (ha insegnato negli Stati Uniti, in Francia, in Spagna), un cipiglio fuori tempo e fuori norma che ha pagato duro: nel catalogo dei maggiori editori italiani, da Neri Pozza a Rizzoli e Bompiani, oggi è marginalizzato, lo pubblica Raffaelli, a Rimini. La prima volta che l’ho visto Sanavio lavorava a un libro su Louis-Ferdinand Céline, il seguito di “Virtù dell’odio”, del 2009, stampato proprio da Raffaelli. S’intitola “Ancora su Céline”, è in libreria dal mese prossimo, «è nato in parte dall’indignazione per la superficialità o malafede (la scelta è sua) di molta critica italiana che ha minimizzato o addirittura negato l’antisemitismo di Céline – come ne ha minimizzato l’anticomunismo facendo passare Céline persino per un simpatizzante comunista», mi dice, carattere duro, sguardo superbo, voce ferrea. Tendenzialmente introvabile, lo raggiungo per un dialogo via mail. «In questo secondo libro mi sono limitato a suggerire la rilettura di certe pagine, oltre che a indicare molte falsificazioni (sue, dei critici), molte menzogne. Anche il celebratissimo “Semmelweis”, come ce lo presenta Céline, perlomeno, è una menzogna». Quanto incide l’antisemitismo di Céline nell’opera dello scrittore Céline? «L’antisemitismo è inseparabile dall’opera e non ci sono alibi. Non ci sarebbe Céline senza l’antisemitismo. Né serve dire, a giustificazione, che gran parte della Francia tra le due guerre era antisemita. L’antisemitismo di Céline è cialtronesco, viscerale, peggiore persino di quello che fu chiamato il socialismo degli imbecilli. In Céline anche l’insistenza sull’irrazionale, il “rêve eveillé”, i famosi puntini sospensivi, la guerra contro la Grammaire Raisonnée nascono dal suo antisemitismo. È la bestialità irrazionale contro la ragione». Da qui al nazismo il passo è breve. «Con tutto questo, è eccessivo definire Céline nazista, era piuttosto un cialtrone imbevuto dello spirito revanscista che avrebbe prodotto Vichy – vile, ignobile, servile, criminale persino, come coloro che ammassarono gli ebrei al Vel’ d’Hiv’ per mandarli ai lager. Però fu anche un grande scrittore. Parafrasando ciò che qualcuno disse della politica, è anche “dalla merda e il sangue” che nasce la letteratura. Era l’invidia a muoverlo, invidia per tutto ciò che egli non poteva essere. Detestava gli ebrei che identificava con la grande borghesia perché sapeva che per quanti soldi potesse guadagnare e quanto celebre potesse diventare, ciò non bastava a far di lui un borghese, un grand bourgeois alla Proust, alla Gide: occorreva assai di più e quel di più gli mancava». Già, come la mettiamo con Proust. «Con tutto il suo antisemitismo, Céline cedeva al fascino di Proust, imitandolo, per quanto tentasse di nasconderne le tracce e affermasse che lo detestava. Anche questo c’è nel mio libro. Non vi si parla soltanto di antisemitismo, o di quando Céline faceva il finto povero, nascondendo la consistenza dei suoi guadagni – si parla soprattutto, ancora, sempre, di letteratura». In sintesi: il ruolo di Céline nella letteratura moderna. «Ripeto: fu un grande scrittore. Soprattutto all’interno della letteratura francese dove, rompendo le regole della grammatica, poteva illudersi di minare le strutture sociali del Paese e stravolgerne la storia. Intrasportabile, fuori di Francia, il suo stile, come certi vini e certi formaggi, senza senso al di fuori della lingua francese e di quella letteratura». Gombrowicz, Thoreau, Pound, Céline: lei è attratto dai disobbedienti. La grande letteratura è sempre “trasgressiva”? «Shakespeare, probabile “recusant” e prudente fino a sfiorare la viltà, restava formalmente nell’ortodossia non soltanto perché era il Potere che gli permetteva di vivere, proteggendo la sua compagnia teatrale – operava nell’entusiasmo di un boom economico che pareva inarrestabile e lo restò fino alla morte di Elisabetta. Aveva anche, davanti a sé, il terribile ricordo della fine di Marlowe, il grande trasgressore. Con la menzogna del progresso inarrestabile e razionalizzando lo sfruttamento dei subalterni la cultura borghese ha occupato ogni spazio dell’esistente sicché l’arte nel suo ambito non può esprimersi che per negazioni e la scrittura non può che essere antagonista». Lo stato della letteratura italiana. «Bisognerebbe cominciare a chiedersi perché Casanova e Goldoni scrivessero le loro memorie in francese e Barretti scrivesse in inglese. Era il Settecento. Quanto al celebratissimo “Gruppo 63”, ho l’impressione che si sia trattato di un’operazione editoriale più che culturale e di una tardiva imitazione degli stranieri. Non bastava plagiare i “Cantos” per diventare moderni, o pensare che la “housewife from Dubuke, Iowa”, (per la quale Harold Ross aveva fondato il “New Yorker”) fosse sorella di latte della “casalinga di Voghera”, la signora dell’Iowa parlava inglese e aveva la traduzione della Bibbia di re Giacomo, insieme alle chiavi di casa, nella borsa per la spesa. Vale a dire: conosceva il linguaggio di Shakespeare, non fosse altro perché andava a messa, e da brava calvinista credeva nell’importanza radicale del patto – tra l’uomo e dio e tra uomo e uomo, quindi tra lo Stato e il cittadino. Sapeva anche che, se si stancava del marito, poteva sempre divorziare. Se poi si interessava all’arte, alla letteratura, la sua città, come qualsiasi altra della Repubblica, era provvista di ottime biblioteche». Socchiudo la porta della mail con un «grazie per i molti insegnamenti». Segue risposta lapidaria, «non mi prenda troppo sul serio». Davide Brullo

*intervista pubblicata su “La Voce di Romagna” il 9 maggio 2013