martedì 22 settembre 2009

FRANÇOIS GIBAULT RACCONTA CÉLINE


François Gibault accanto a Lucette Destouches in una fotografia dei primi anni '90

FRANÇOIS GIBAULT RACCONTA CÉLINE

di Gilberto Tura


Per chi non conoscesse François Gibault è sufficiente ricordare che è l’autore della biografia di riferimento di Céline, un’opera in tre volumi pubblicati a metà degli anni ’80 per le “Mercure de France”. È reputata la biografia più completa e documentata tra le ormai molte in circolazione, anche grazie alla possibilità, concessagli dalla vedova Lucette, di accedere alla consultazione di molti documenti inediti, conservati dai genitori di Céline. Gibault di professione è avvocato e dal 1962, anno in cui (come racconta nella conversazione) ha conosciuto la signora Lucette, difende e cura gli interessi della vedova. Inoltre ha curato, nel 1969, la pubblicazione e la prefazione di Rigodon e, nel 1998 per Gallimard, la pubblicazione di “Lettres de prison à Lucette Destouches et à Maître Mikkelsen. 1945-1947” . È presidente della Société d’études céliniennes.

CHI ERA CÉLINE?

Conversazione con François Gibault

In quali circostanze è arrivato a Céline?
Conobbi sua moglie, Lucette Destouches, attraverso André Damien, nel luglio 1962, un anno dopo la morte dello scrittore, in circostanze un po’ particolari: durante un viaggio, avevo fatto una caduta stupida ed è stata lei che mi ha rimesso la schiena a posto, con esercizi di ginnastica. A poco a poco mi ha affidato la decifrazione del manoscritto di Rigodon, che Cèline aveva lasciato prima di morire. Durante la settimana, patrocinavo come avvocato le grandi cause dell’epoca – attentato del Petit-Clamart, Ben Barka… − e la domenica, armato di una lente d’ingrandimento, decifravo Rigodon, a Meudon, negli stessi luoghi dove lo scrittore aveva lavorato. Ciò mi ha occupato per molti anni. Ero spesso accompagnato dal mio amico Bob Westhoff, ex marito di Françoise Sagan, e questo lavoro si è svolto in un’atmosfera gioiosa. Infine, per la pubblicazione del libro, nel 1969, Lucette Destouches mi ha fatto l’onore di chiedermi la prefazione.

Perché, in seguito, si è dedicato alla biografia di Louis-Ferdinand Céline?
La signora Destouches mi aveva presentato a Marcel Aymé, Gen Paul, Henri Mahé, Jean Dubuffet e numerosi altri amici di Céline. Mi aveva inoltre mostrato delle lettere e delle fotografie inedite. Un giorno, Simone Gallimard, che dirigeva il Mercure de France, mi ha suggerito di scrivere una biografia. Ho accettato, pensando di essere nelle condizioni ottimali per farlo. Ciò mi ha preso quindici anni. Ho seguito le tracce di Céline in Danimarca, in Russia, in Germania, in Inghilterra, in Africa…Ho avuto accesso agli archivi del Quai d’Orsay e della giustizia militare. La signora Pedersen, ministro della giustizia danese, mi ha fatto visitare la cella dove lo scrittore è stato imprigionato a Copenaghen. Il fatto di essere spesso accompagnato dalla signora Destouches e la mia condizione di avvocato rassicuravano i miei interlocutori. Sono grato peraltro alla signora Destouches di non avermi mai chiesto di leggere il testo prima della pubblicazione. È stata una formidabile avventura, poiché Louis-Ferdinand Céline ha partecipato a tutti i drammi del XX° secolo e la sua opera romanzesca è per molto autobiografica.

Da quale ambiente proveniva?
Si può dire da un ambiente piccolo-borghese con pretese aristocratiche e con mezzi da proletari. Il padre − per il quale il piccolo Louis non ha alcuna ammirazione – è un mediocre impiegato di una compagnia d’assicurazione e sua madre vende merletti. Louis, del resto, è stato allevato dalle donne – sua madre e sua nonna materna, Céline Guillou, alla quale renderà omaggio in seguito, prendendo il suo nome come pseudonimo di scrittore. Louis nasce il 27 maggio 1894, rampe du Pont, a Courbevoie – come ricorderà per tutta la vita, inventandosi una leggenda di abitante di periferia. In realtà, all’età di due anni, si trasferisce con i suoi genitori a Parigi, rue de Babylone poi al passage Choiseul, vicino ai Grands Boulevards. Ha spesso paragonato, in seguito, il passage ad una «campana a gas». Sono riuscito a entrare nel loro alloggio: era in effetti molto angusto, con il negozio di merletti in basso, una scala montante al primo piano e, al secondo, al di sotto della vetrata, la camera di Louis da cui si vedeva il cielo.

Ha avuto una infanzia felice?
Non proprio. Era figlio unico e i suoi genitori erano molto opprimenti. Non possedevano l’automobile e non facevano vacanze. I suoi più grandi ricordi saranno uno spettacolo di Buffalo Bill e l’Esposizione universale del 1900. La famiglia non crede granchè all’università e vuole avviare Louis nel commercio. Appena ottenuto il suo certificato di studi, che resterà per molto tempo il suo unico diploma, verrà inviato per dei lunghi soggiorni linguistici a Diepholz e Karlsruhe, in Germania, poi a Broadstair e Rochester in Inghilterra. È un’infanzia molto solitaria e conserverà, per tutta la vita, fino ai suoi ultimi anni a Meudon, l’inclinazione alla solitudine. Sarà, del resto, uno scrittore isolato, appartenente a nessuna scuola, parrocchia o accademia. La sua vita sarà una lunga fuga in avanti per sfuggire alla sua condizione sociale, allo stesso modo cercherà di inventare una scrittura per sfuggire ai modi di espressione tradizionali.

È cresciuto in un ambiente antisemita?
Non bisogna mai dimenticare che Louis-Ferdinand Céline nasce nell’anno in cui scoppia l’affare Dreyfus. La sua infanzia è stata segnata da questo dramma. Quando sarà inseguito, dopo il 1945, dai tribunali, si dichiarerà instancabilmente «vittima di un affare Dreyfus a l’inverso». Suo padre, che leggeva “La Libre Parole” di Drumont [pubblicazione antisemita, NDLR] era antidreyfusardo, alla maniera dei piccoli commercianti che erano convinti di vedere le banche e i grandi commerci ebrei regnare dappertutto. Era anche revanscista e ha fatto di Louis un buon piccolo patriota francese.

Céline ha sempre sostenuto di essersi arruolato nella Prima Guerra mondiale. Ciò corrisponde alla realtà?
Non completamente, come spesso succede con lui. In effetti ha anticipato la chiamata di leva, nel 1912, raggiungendo il 12° reggimento dei corazzieri a Rambouillet. Ma non ha mai fatto parte dell’esercito professionale. Detto ciò, fu estremamente coraggioso e rimarrà segnato nella carne e nello spirito dalla guerra, come esprimerà mirabilmente nelle prime pagine del Viaggio al termine della notte. Dall’inizio della guerra, riporterà due ferite. La prima volta, gli esplose vicino una granata, scaraventandolo contro un albero e causando dei disturbi all’orecchio, che lo farà soffrire per tutta la vita di vertigini e di fischi – le famose «valanghe di tromboni» evocate in Morte a credito. Il brigadiere Destouches sarà ferito più gravemente una seconda volta, da una pallottola, nelle Fiandre, vicino a Poelkapelle, il 27 ottobre 1914, mentre si era offerto volontario per consegnare un messaggio attraverso le linee. Riconosciuto invalido al 75% - si pensa anche di amputarlo ! -, si porterà dietro per tutta la vita le conseguenze al braccio destro e scriverà con la mano storta. In compenso, non è mai stato trapanato, come ha talvolta affermato e come molti hanno ripetuto. Grazie al suo atto eroico, ha diritto alla quarta di copertina de L’Illustré national e ottiene la croce di guerra e la medaglia militare. Ma è un eroe traumatizzato, allo stesso tempo militarista e pacifista, che ritorna dal campo di battaglia.

Segue un periodo strano, a Londra, circa il quale si sa poco…
Dopo la sua convalescenza al Val-de-Grâce, è inviato là, nel 1915 come impiegato all’ufficio passaporti del consolato di France. È a Londra che verrà definitivamente riformato. Con il suo amico Georges Geoffroy, se la spassano dopo l’orrore delle trincee. Frequentano i locali loschi di Soho e del porto, senza dubbio anche i bordelli. Ritroveremo questo scenario equivoco in Guignol’s band, scritto trent’anni più tardi. È sempre a Londra, il 19 gennaio 1916, che sposa, per un colpo di testa una certa Suzanne Nebout, che lascerà molto presto. «Sono l’uomo delle partenze veloci», scrive all’epoca a suo zio… Non avendo fatto legalizzare questa unione al consolato di Francia, il matrimonio non avrà alcun valore legale in Francia.

È vero, come si dice, che là ha incontrato Mata Hari?
Mata Hari l’avrebbe invitato a cenare nel suo appartamento al Savoy con il suo amico Geoffroy. Non ci sono prove, ma ciò è del tutto plausibile. La spia era a Londra nella stessa epoca di Céline e frequentava, per le sue attività, i membri dei consolati…

Perché, allora, parte per l’Africa?
Ha 22 anni, è definitivamente smobilitato e gli vengono fatti balenare dei sogni di fortuna. La Francia e l’Inghilterra avendo invaso il Camerun, ex colonia tedesca, devono trovare degli uomini per occupare il terreno. Céline firma un contratto con la Compagnie forestière Sangha-Oubangui e si ritrova a Bikomimbo, un piccolo villaggio a ventisette giorni di marcia da Douala. Fa dei baratti con gli indigeni – sigarette in cambio di zanne d’elefante… All’inizio di settembre 1916, ottiene la gestione di una piantagione di cacao a Dipikar. Sono andato in quelle regioni, sulle sue tracce, e ancora oggi, è un paesaggio di savana totalmente sperduto. Lo immaginiamo, solo, nella notte africana, assalito dai rumori, come ha mirabilmente raccontato nel Viaggio al termine della notte. Céline vive in condizioni climatiche e sanitarie pessime. Colpito da paludismo e dissenteria, passa lunghe settimane nella sua capanna, nel cuore della foresta equatoriale, inondato di sudore, imbottito di laudano. Spossato, senza aver fatto fortuna, finisce per chiedere il rimpatrio nella primavera del 1917.

La sua vita assomiglia a quella di un avventuriero. A quell’epoca, ha già cominciato a scrivere?
Appena. La prima traccia è stata scoperta in circorstante inaspettate. All’epoca del suo passaggio al 12° reggimento di Rambouillet, aveva cominciato a redigere, in un piccolo quaderno di finta pelle, una specie di diario intimo, che cominciava con queste parole: « Non saprei dire cosa mi spinge a scrivere ciò che penso.» Quando fu ferito al fronte, cede il suo zaino a un soldato, Maurice Langlet, che conserva il taccuino. È solo nel 1957, all’uscita Da un castello all’altro, che Langlet si riavvicinò al brigadiere Destouches e al romanziere Céline! Restituisce allora al suo vecchio amico questo testo, che saà pubblicato con il titolo Il taccuino del corazziere Destouches. Ma è in Africa che comincia a scrivere, timidamente: una novella intitolata «Onde» e due poemi – quasi romantici – inviati a una amica.

Al suo ritorno in Francia, fa la conoscenza d’un uomo bizzarro che diventerà uno dei grandi personaggi della sua opera…
Si, l’inventore Raoul Marquis, alias Henri de Graffigny, modello del futuro Courtial des Pereires di Morte a credito. Appassionato di voli in mongolfiera, creatore d’apparecchi elettrici stupefacenti, grafomane impenitente – gli dobbiamo più di centoquaranta opere sugli aquiloni, l’automobile o sulla moda! - , collabora alla rivista Euréka. È lì che Céline lo incontra. Sembra che Céline sia stato il suo uomo tuttofare, segretario, fattorino… Henri de Graffigny è sepolto nel cimitero di Septeuil. Ho fatto trasformare la concessione trentennale di questo personaggio tipicamente céliniano in concessione perpetua.

In quali circostanze Louis Destouches diventa medico?
Dopo avere per un po’ percorso la Bretagna con le missioni Rockefeller contro la tubercolosi, ottiene il diploma di maturità nel 1919. È a quell’epoca che incontra, a Rennes, Edith Follet, che sposa nell’agosto di quello stesso anno. Lei è la figlia di Athanase Follet, decano della facoltà di medicina di Rennes. Louis allora beneficia di disposizioni che permettono agli ex combattenti di sostenere gli esami secondo dei corsi accelerati. Nel 1922, ha già fatto l’equivalente di quattro anni di studi di medicina a Rennes. Completa la formazione a Parigi, moltiplica i tirocinii ospedalieri e sostiene la tesi, consacrata allo scienziato ungherese Filippo Ignazio Semmelweis. Sono convinto che sia stato un eccellente medico, dalla diagnosi sicura, accontentandosi a volte di scrivere sulle ricette: « Niente caffè, niente tabacco, niente alcol.» A quell’epoca, avremmo potuto immaginare che il dottor Destouches, genero di un notabile di Rennes, il decano Follet, padre di una bambina Colette - nata nel 1920 e ancora vivente – si sarebbe imborghesito. Ma come ogni volta, alla prima occasione, fugge, lasciando la sua sposa sconcertata. L’ho incontrata, molto più tardi. Era una donna affascinante, che aveva riallacciato dei rapporti amichevoli con Céline – e Lucette – al termine della sua vita.

Louis Destouches lavora poi per la SDN.
A Rennes si sente soffocare e si fa assumere come «medico della Sezione d’Igiene classe B» alla SDN, a Ginevra. Dovrà accompagnare dei gruppi di medici in Europa, in Africa, negli Stati Uniti; in questa occasione, scopre per la prima volta New-York. Le delegazioni alle quali appartiene sono ricevute dal presidente americano Coolidge e più tardi, a Roma, da Mussolini. Sosterrà di essere stato medico alla Ford. In realtà, vi ha trascorso due giorni e redatto un rapporto, «Nota sull’organizzazione sanitaria delle officine Ford a Detroit». Come sempre con lui, a partire da un fatto vero, costruisce una leggenda… É a quest’epoca, fine 1926 o inizio 1927, che scrive un’opera teatrale, in cui l’azione si svolge alla SDN, L’Eglise. Sarà rifiutata da Gallimard, nonostante il seguente commento, molto pertinente: « Ha del vigore satirico, ma manca di coerenza. Dono della pittura di ambienti molto diversi»…

Di colpo, avvia l’attività medica…
Si, nella periferia parigina, a Clichy. Ma poiché il suo ambulatorio attira pochi clienti, integra il dispensario della città, dove visita tutti i giorni. Parallelamente, redige dei testi pubblicitari per i laboratori Biothérapie – è suo quello del dentifricio Sanogyl – e mette a punto un farmaco contro i disturbi psico-tiroido-ovarici, la Basedowine, che gli procura qualche magra royalties.

É allora che incomincia il Viaggio al termine della notte?
Ha lasciato maturare un certo numero di episodi della sua vita – la guerra, l’Africa, New York… - prima di metterli per iscritto, senza dubbio nel 1929. Vi lavora la sera, la domenica, la notte, nel suo appartamento di rue Lepic. Ha sempre sostenuto di essersi avvicinato alla scrittura per guadagnare dei soldi, «pagare l’affitto» del suo appartamento, come diceva. Niente è meno sicuro. Elisabeth Craig, una ballerina americana incontrata a Ginevra, vhe visse con lui e sarà la dedicataria del romanzo, ha raccontato che mentre scriveva sembrava in trance. Bisogna immaginarlo, lui che non conosceva nessun scrittore, piccolo medico di periferia, dedicare senza sosta diversi anni della sua vita a questo lavoro. Scrisse migliaia di pagine senza mostrarle a nessuno. Poi, nella primavera 1932, consegna il manoscritto a Gallimard e a Denoël. Gallimard tergiversa e suggerisce dei tagli. Robert Denoël, giovane belga intraprendente, divora il romanzo in una notte. Accetta all’istante il manoscritto. Il contratto viene firmato il 30 giugno. Louis Destouches, che desidera mantenere l’anonimato, assume lo pseudonimo di Céline. Già dai primi giorni, questo stilista si mostra intrattabile con il suo editore: «Per favore, soprattutto, non aggiungete una sillaba al testo senza avvertirmi! Gettereste il ritmo per terra come niente.»

Il Voyage costituisce, di punto in bianco, un terremoto negli ambienti letterari?
Si, critici e lettori si rendono conto subito che sono difronte a un torrente verbale radicalmente nuovo. È straordinario constatare oggi che il romanzo non mostra una ruga. Ma Céline resterà molto feriro dalla sua disaventura al Goncourt. Grazie al sostegno di Lucien Descaves, è stato ad un passo dall’ottenerlo fin dalle deliberazioni preparatorie della giuria, il 30 novembre 1932. Era dunque sicuro che sarebbe stato premiato. Il giorno dell’assegnazione, va in place Gaillon, difronte a Drouant, e attende, con sua madre e sua figlia Colette. Porta con sé un piccolo sonaglio d’argento, proveniente dalla culla di sua figlia, che gli serve da talismano. Infine, il Goncourt viene assegnato a Guy Mazeline per Les loups. Appreso il verdetto, dalla rabbia, Céline schiaccia il sonaglio nella mano. Colette lo ha conservato fino ad oggi, come ricordo di quella giornata… Ciò non impedirà al Voyage di vendere 80 000 copie in un anno.

Il successo gli cambierà la vita?
Per niente, visto che il suo secondo romanzo, Morte a credito, che uscirà nel 1936, è accolto meno bene. Numerosi lettori sono scandalizzati da certi passaggi, che devono essere tagliati. Céline continua le sue visite mediche presso il dispensario e si avvicina alla bohème di Montmartre, dove ormai vive. Frequenta i pittori Gen Paul e Henri Mahé, l’attore Robert Levigan, Marcel Aymé… È inoltre affascinato dalle ballerine, la loro grazia, la perfezione dei loro corpi. «Voglio terminare la mia vita nelle scuole di danza», scriverà un giorno… Soprattutto, vivrà molto male il ritorno negli Stati Uniti di Elisabeth Craig, alla quale era molto legato. Andrà in California con la speranza di farle cambiare idea ma, al termine di un incontro drammatico, ritornerà da solo in Francia. Intreccia, allora, una relazione con una ballerina danese, Karen Marie Jensen. Si conoscono alcune relazioni sentimentali con la pianista Lucienne Delforge, una giovane ebrea austriaca, Cillie Pam, o una scrittrice belga, Evelyne Pollet. Aveva preso, a quell’epoca, l’abitudine di assistere a dei corsi di danza. Così, da Blanche d’Alessandri, incontra Lucette Almanzor, una ballerina con la quale va a vivere fino alla fine dei suoi giorni.

Come spiegare che dopo questi due romanzi, Céline si lancia in pamphlets antisemiti?
C’è una immensa ingenuità da parte sua in questa impresa, un atteggiamento disperato alla Don Chisciotte: ha creduto che lui, piccolo scrittore francese, avrebbe potuto impedire la guerra coi suoi libri! Pubblica, dapprima, un breve testo, Mea culpa, che racconta le sue impressioni sul viaggio nell’ URSS comunista. È rimasto sbigottito da ciò che ha visto. Scrivendo Mea culpa, ha preso coscienza di possedere un vero talento come pamphlettista. Ora sente che l’Europa corre verso la guerra e, in quanto veterano del ’14, vuole evitare a tutti i costi una nuova macelleria. Incita a stringere un patto con i tedeschi. Pensa che gli ebrei spingano la Francia alla guerra contro Hitler e che occorra quindi ridurre la loro influenza. Pubblica, dunque, Bagattelle per un massacro nel 1937, poi la Scuola dei cadaveri l’anno successivo. L’eccesso dei suoi propositi, sostenuti da uno stile spesso fiammeggiante, lo costringerà a dare le dimissioni dalle sue funzioni presso il dispensario di Clichy.

La leggenda sostiene che incontri a quell’epoca Jean Moulin…
Probabilmente è vero. L’incontro avrebbe avuto luogo presso un amico di Céline, il dottor Tuset, che abitava a Quimper. È sempre da lui che Céline ha incrociato lo scrittore Max Jacob.

Che fine fa alla dichiarazione di guerra?
Gli succede un episodio buffonesco, molto celiniano: un naufragio in mediterraneo. Nel settembre 1939 diventa medico marittimo per la compagnia Paquet. Si imbarca quindi sulla Chella che effettua la linea verso il Marocco. Ma nella notte tra il 5 e il 6 gennaio 1940, davanti Gibilterra, la nave sperona per sbaglio un avviso (nave a vapore da guerra, NdT) inglese. Ci sono ventisette morti dalla parte inglese e il dottor Destouches soccorre le vittime. La Chella raggiunge bene o male Marsilia. In seguito, Céline vive l’esodo. Era a quel tempo medico al dispensario di Satrouville e partecipa all’evacuazione della città. È quindi in un’ambulanza, accompagnato da Lucette, da due lattanti e da un’anziana signora, che prende la direzione del sud. Il viaggio fu epico e Lucette mi ha raccontato che una notte, hanno dormito in una stalla con un cavallo, cosa che ho potuto verificare per miracolo! Andranno così fino a Saint-Jean-d’Angély, in Charente. Poi, in luglio, Céline risale a Parigi e diventa medico del dispensario di Bezons.

Domanda cruciale: Céline ha collaborato con la Germania durante la guerra?
No, ma ha avuto delle relazioni amichevoli con dei tedeschi, che, in maggioranza, conosceva già prima della guerra. Ho incontrato alcuni di questi per la mia biografia: il dotto Karl Epting, direttore dell’Istituto tedesco a Parigi, il tenente Gerard Heller, che Céline chiamava il «zazou» (giovane appassionato di jazz, NdT), o il colonnello SS Hermann Bickler. Incontrare quest’ultimo fu una caccia al tesoro. L’ho finalmente trovato nella sua proprietà italiana sul lago di Lugano (lago Maggiore, NdT). Céline era stato invitato al famoso viaggio degli scrittori francesi in Germania e rifiutò. Certo, si era recato a Berlino nel 1942 ma era per consegnare alla sua amica Karen Marie Jensen la chiave della sua cassetta di sicurezza presso la banca di Copenaghen, dove aveva depositato dell’oro. Se non ha collaborato, parlando propriamente, possiamo tuttavia rimproverargli la pubblicazione d’un terzo pamphlet antisemita nel 1941, La bella rogna, e soprattutto, la riedizione dei primi due nel 1942, quando tutti erano a conoscenza delle retate e delle deportazioni. Ha anche inviato numerose lettere molto violente alla stampa collaborazionista, in particolare a Je suis partout, sapendo per certo che sarebbero state pubblicate. Lui che non era per nulla incline all’autocritica non manifesterà dopo la guerra che un solo rimorso, terribile: aver forse spinto dei giovani ad arruolarsi nella LVF [Legione dei volontari francesi] al prezzo, per alcuni, della vita.

Poi, alla Liberazione, fugge dalla Francia…
Trascorre la guerra nel suo appartamento in Rue Girardon, dove scrive Guignol’s band, pubblicato nel 1944, e va e viene in Bretagna, in particolare a Saint-Malo dove ha dei legami. Ma prima dello sbarco degli alleati aveva cominciato a ricevere delle piccole bare al suo domicilio. Non c’è dubbio che se fosse rimasto a Parigi sarebbe stato assassinato dai partigiani o condannato a morte dai tribunali. Dai nove mesi di erranza in Germania che seguiranno, ricaverà la materia di tre lunghi e magnifici romanzi pubblicati molto più tardi: Da un castello all’altro, Nord e Rigodon.

Dove va?
Céline ha un’idea fissa, che non lo abbandonerà mai: raggiungere la Danimarca, paese neutrale, dove ha nascosto il suo oro. L’otto giugno ottiene dalle autorità tedesche, per sé e Lucette, un fremdenpass per la Germania. Si fanno inoltre fare dei documenti falsi a nome di Louis-François Deletang et Lucile Alcante. Svuota la sua cassetta di sicurezza del Credit Lyonnais di tutte le monete d’oro, che Lucette cuce all’interno di un gilet speciale, dal quale non si separerà mai. Il 17 giugno, accompagnati dal loro gatto Bebert, dentro un tascapane, prendono il treno per Baden-Baden, « Bains-Bains », come diceva Céline. Resteranno per qualche settimana in questo scenario da operetta. È lì, in agosto, che li raggiunge l’attore Le Vigan, che non li lascerà più fino al marzo del 1945. Per questo motivo sarà uno dei grandi personaggi della Trilogia tedesca. Alla fine dell’estate salgono a Berlino, dove rincontrano il dottor Hauboldt, uno degli alti responsabili della Camera dei medici del Reich. Questi li sistema presso degli amici, i Scherz, a Kraenzlin, un paese vicino a Berlino. Resteranno solo poche settimane in questa porta chiusa del Brandeburgo, ma Céline ne ricaverà un allucinanre romanzo-fiume di 400 pagine, Nord.

Perché, in seguito, vanno a Sigmaringen, enclave francese in Germania, dove s’erano rifugiati il maresciallo Pétain e i principali collaborazionisti?
Non hanno avuto scelta. Vivranno quattro mesi all’ombra dell’immenso castello degli Hohenzollern, dove Lucette fa i suoi esercizi di danza nella sala da ballo. Alloggiano a l’Hotel Löwen. Contrariamente a ciò che si dice, Céline non è stato il medico personale di Pétain – che non stimava e che soprannominava «Philippe le Dernier» - ma la colonia francese. Intrattengono rapporti soprattutto con Abel Bonnard, ministro dell’Educazione nazionale, Jean Bichelonne, ministro della Produzione industriale, e Paul Marion, ex segretario di Stato dell’Informazione. In Da un castello all’altro ha realizzato un quadro penetrante e satirico di questa piccola colonia collaborazionista.

Precisamente, qual è la componente di realtà e quella di fantasia nella trilogia tedesca?
Céline parte sempre da fatti veri, che traspone poi alla sua maniera. Così racconta lungamente come è andato, in treno, a partecipare alle esequie di Bichelonne a Hohenlychen. È un passo epico e prodigiosamente comico. Ora, sappiamo che non ha partecipato a quel viaggio… Ugualmente i mostruosi assassinii della fine di Nord non ci sono evidentemente mai stati. E poi, si ha sempre l’impressione che viva sulle bombe, quando, di fatto, non è mai stato a meno di 200 chilometri dal fronte… [in effetti però Céline in numerosi passaggi dei libri della Trilogia si riferisce ai bombardamenti aerei, che come noto colpivano la Germania praticamente ogni giorno, NdAndrea]

Raggiungeranno finalmente la Danimarca?
Si. Con Lucette lasciano Sigmaringen e, a caso, i treni che prendono, risalgono fino ad Amburgo, poi a Flensburg. Lì la coppia sale su un treno della Croce Rossa svedese per Copenaghen.

Non immaginano che vi resteranno sei anni…
Giunto a Copenaghen, è rinfrancato. Si sistema con Lucette in un appartamento che presta loro la ballerina Karen Marie Jensen, si lascia crescere la barba e aspetta che gli avvenimenti si calmino. Ma, i mesi passano, Céline diventa imprudente. Poco prima del Natale 1945, su richiesta di estradizione da parte della Francia, è arrestato e imprigionato nella Vaestre Fengsel. Ho visitato le celle e non è per niente un luogo allegro, soprattutto per un uomo come lui, assetato di libertà. Malato, dimagrito, invecchia di dieci anni durante i diciotto mesi che trascorre lì. Prima della guerra Céline era un bell’uomo, seducente, alto, gli occhi azzurri; quando tornerà in Francia ha l’aspetto di un vecchio, vestito come un clochard. È liberato sulla parola e va a vivere a un centinaio di chilometri dalla capitale in una piccola capanna.

Sarà giudicato in Francia?
C’è dapprima un lungo giocare al gatto e al topo tra le autorità danesi e quelle francesi. Grazie al suo avvocato, molto influente, Céline beneficia della benevolenza di molti personaggi importanti della Danimarca. I danesi, infine, rifiutano la sua estradizione. In Francia lo scrittore è difeso da Albert Naud poi da Jean-Louis Tixier-Vignancour. È quest’ultimo, vero genio della difesa, che ottiene l’amnistia per Céline grazie a un espediente. Dopo la condanna a un anno di prigione della Corte di Giustizia, Tixier domanda al Tribunale militare l’amnistia per uno dei suoi clienti, Louis Destouches, veterano, senza precisare che si tratta di Louis-Ferdinand Céline. I giudici non si accorgono di nulla e, il 20 aprile 1951, lo amnistiano.

Che fa allora Céline?
Prende in considerazione varie soluzioni. Raggiungere Le Vigan in Argentina, il suo amico Zuloaga in Spagna o stabilirsi in Marocco! Alla fine, poiché la lingua francese gli manca terribilmente, decide di ritornare in Francia. A cinquantasette anni prende l’aereo per la prima volta. Dopo qualche settimana presso la famiglia di Lucette a Menton e presso degli amici a Neuilly, la coppia acquista un villino, in route des Gardes, a Meudon grazie alla vendita di beni che la famiglia di sua moglie possedeva in Normandia. Lì, durante dieci anni, porta a compimento il suo personaggio di cane rognoso delle lettere francesi. È una specie di esilio volontario. Si reca molto raramente a Parigi, vede pochi amici come Marcel Aymé o Roger Nimier.

Che ne è della sua opera d’anteguerra?
In seguito all’assassinio del suo editore, Robert Denoël, nel 1945, si oppone molto violentemente alla sua erede, Jeanne Loviton. Vieta tutte le riedizioni dei pamphlets e recupera finalmente i diritti del Viaggio al termine della notte e di Morte a credito. Un giovane giornalista, Pierre Monnier, li aveva coraggiosamente pubblicati, in poche copie, mentre era esiliato in Danimarca. Ma Céline è infuriato di non poter più, praticamente, ricevere alcun diritto d’autore. « Il Voyage vale una fattoria, una fattoria che va avanti da sola, una fattoria magica! », scrive al suo avvocato danese nel 1946. Perciò, appena arrivato in Francia, il 18 luglio 1951, uno dei suoi primi atti sarà di firmare un contratto con Gaston Gallimard, che non voleva «perdere» Céline una seconda volta. L’editore accetta tutte le richieste dello scrittore, pure molto alte: la riedizione dei suoi vecchi romanzi, un anticipo di cinque milioni di vecchi franchi, delle mensilità e il 18% dei diritti d’autore sui libri futuri. Ciò che non impedirà a Céline, di cui la riconoscenza non è la principale qualità, d’insultare il suo editore in alcuni testi divenuti famosi, in cui lo tratta da «droghiere disastroso» o da «vecchio nasello libidinoso»…

Céline ritrova il suo status di «star» delle lettere?
Gli inizi sono difficili. I tempi sono cambiati, Sartre e Camus appartengono all’alta società, e viene guardato come un sopravissuto d’anteguerra. Pantomima per un’altra volta (1952) e Normanne (1954), seppure bei libri, sono dei fiaschi, di cui vengono venduti alcune migliaia di copie. Bisognerà attendere Da un castello all’altro, nel 1957, lanciato da una famosa intervista all’ Express, perché sia nuovamente riconosciuto. La consacrazione quando gli viene annunciato che presto verrà pubblicato nella Pléiade. Da allora moltiplica le interviste alla stampa e fa delle apparizioni memorabili alla televisione. Di fronte alle telecamere recita sopra le righe il suo personaggio di misantropo. Ma la sua personalità era molto più complessa di così. Era un uomo al tempo stesso avaro e generoso, anarchico e amante dell’ordine, pacifista e militarista, ricco d’umanità eppure capace di scrivere i pamphlets…

Questo vecchio avventuriero termina la sua vita in letteratura?
Si. Ha esposto la sua targa di medico e si è iscritto all’ordine dei medici per poter, un giorno, percepire la pensione, ma i clienti sono pochi, scoraggiati dalle sue apparenze. Lavorerà fino al suo ultimo respiro, quando la malattia l’avrà logorato e la sua calligrafia si sarà fatta sempre più tremolante. Scrive migliaia di pagine che tiene unite con delle mollette da bucato. Il 30 giugno 1961 termina Rigodon e informa Gaston Gallimard per posta. Ha terminato la sua opera, può morire. L’indomani, il primo luglio, si spegne in silenzio. Lucette non annuncia subito la notizia. Solo una manciata di persone, le più vicine, tra le quali Arletty e Marvel Aymé, assistono alle esequie nel vecchio cimitero di Meudon. Sulla sua tomba, Lucette ha fatto incidere un veliero trialbero – omaggio al Brettone amante del mare e dei porti – e questo semplice epitaffio:
« Louis-Ferdinand Céline/Docteur L.-F. Destouches/
1894-1961 ».
Intervista realizzata da Jérôme Dupuis

(Traduzione di Gilberto Tura)

Tratto da “LIRE, HORSE SERIE” N° 7 - 2008


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Ringrazio tantissimo Gilberto per aver tradotto questa lunga e interessante intervista!


Andrea

mercoledì 16 settembre 2009

Pier Paolo Pasolini e Céline



Ringraziamo l'amico Daniz per la seguente segnalazione:



DALLE COLONNE DEL 'TEMPO' ANCHE PASOLINI SI ERA COSTRUITO IL SUO CELINE...

Dal 26 novembre 1972 al 24 gennaio 1975, Pier Paolo Pasolini, in arte P.P.P., tenne una rubrica letteraria a cadenza quasi mensile, sul giornale settimale ''Tempo''; il 22 luglio 1973 recensirà così il libro di Céline "Da un castello all'altro".





"E' un luogo comune ammirare incondizionatamente Céline. l'obbligo morale che impone questo luogo comune è una specie di spregiudicata presa di posizione antideterministica, per cui risulterebbe, appunto, <> giudicare uno scrottore dalla sua ideologia e dai fatti della sua vita: mentre sarebbe <> dissociare, da tale ideologia e da tali fatti, la sua opera.Nel caso di Céline questa dissociazione è codificata con particolare rigidità. E' punto d'onore dell'intellettuale di sinistra non discuterla. si tratta di un un esempio di letteratura avanzata in uno scrittore reazionario: e serve a salvare la coscienza dell'intellettuale di sinistra dal dogmatismo dello scandalo.Invece questa comoda dissociazione va discussa. L'ultimo romanzo di Céline, ''Il castello dei rifugiati'' è di carattere particolarmente autobiografico: parla dei fatti della sua vita e allude continuamente all'ideologia che li ha determinati. anche per il più ostinato anticonformista sarebbe difficile in questo caso sfuggire al conformistico dovere di confrontare il risultato estetico con la volontà noetica , il tipo di conoscenza, che vi presiede. tale confronto è disastroso per Céline e il suo valore letterario. il romanzo è concepito come un lungo, interminabile monologo interiore: lo scrittore si immerge nello spirito-nella fattispecie, nello spirito linguistico- del protagonista vive il suo rapporto discorsivo con la realtà e sulla realtà. generalmente il protagonista di cui lo scrittore rivive il discorso è molto diverso, psicologicamente e socialmente dallo scrottore (per esempio Padron 'Ntoni è molto diverso dal Verga che lo rivive nella sua scrittura): invece, nel caso del ''Castello dei rifugiati'', il protagonista e lo scrittore sono la stessa persona! Céline vive il discorso di Céline-appena appena distanziato da sé- in una forma piccolo-borghese e media. Questo monolo interiore, che è tipico della scrittura naturalistica, è però da Céline stilizzato: ma con una trovata priva di ispirazione, che non diviene una vera e propria ''idea formale''. egli ha interrotto il flusso interminabile del discorso di chi pensa ai casi suoi come a voce alta, e l'ha tutto spezzettato in una serie di lacerti sintattici minimi, divisi tra loro da punti di sospensione e da una serie infinita di punti esclamativi. sicché anziché una rimeditazione, com'è in genere il monologo interiore, questo è un concitato referto tutto esclamativo. è uno sfogo, un'arringa. ma poiché l'autore non può e non vuole affrontare direttamente i fatti di cui parla, instaura col suo ipotetico ascoltatore un rapporto tutto allusivo e ammiccante. ed è appunto qui, in questo rapporto, che si manifesta l'ideologia e il carattere psicologico-polito dell'autore. e poiché questo rapporto è in sostanza lo stile del libro, ecco che la famosa dissociazione non può essere operata.''Il castello dei rifugiati'' è un brutto libro perché è odioso ciò che Céline pensa ed è. il destinatario del suo monologo finto è un uomo come lui, che la pensa come lui, o quasi. o che è comunque in grado di comprenderlo quando egli allude ai suoi trascorsi di collaborazionista e di criminale di guerra; o, quantomeno, di fare la sua disillusione che ne è seguita, con la conseguente spregiudicatezza critica nei confronti dei suoi ex idoli nazisti rimescolati in una generale indegnità del mondo. sicché il lettore è costretto a sentirsi identificare con un destinatario complice. ma ciò che l'autore gli comunica e gli confida- ammiccandogli come a un suo pari- come, appunto, a un orrendo complice- è così meschino e volgare, che il rifiuto da parte del lettore non può essere che assoluto. non è possibile perdonare a Céline il suo fascismo in nome del buonsenso borghese, e non è possibile dissociare da questo il suo stile, se il suo stile altro non è appunto che la mimesi del buonsenso di un borghese, sia pure disperato e scardinato dalla vita normale''




Il meno che possiamo dire è che, per una volta, il geniale anticonformista Pasolini è scivolato nel pieno conformismo intellettuale. Nessuno è perfetto.


martedì 8 settembre 2009

E' morto Louis-Albert Zbinden...


Notre ancien collègue, l'écrivain et journaliste neuchâtelois Louis-Albert Zbinden, s'est éteint à Paris à l'âge de 86 ans. Forum diffuse un extrait de l'un de ses entretiens, réalisé avec l'écrivain Louis-Ferdinand Céline.

Après des études à Genève, Louis-Albert Zbinden a travaillé à la Radio suisse romande dès 1947. Il a réalisé pour la RSR maintes émissions littéraires, en particulier avec l'écrivain Louis-Ferdinand Céline. Ses auditeurs se souviennent de ses chroniques « Le regard et la parole», diffusées de 1977 et 1986, le samedi matin. Il y commentait avec verve des faits d'actualité.

Dramaturge et poète, Louis-Albert Zbinden a signé plusieurs romans ainsi que des nouvelles. Il laisse une vingtaine d'ouvrages. Parmi eux un recueil de poésie, «Les yeux ouverts» paru en 1956, les romans «L'emposieu» (1981), «L'orgue de Barbarie» (1988) et «Le Pollen de Satan» (1992), ainsi que des nouvelles réunies sous le titre «Marie Casamance, suite jurassienne» en 1995.

Louis-Albert Zbinden sera enterré à Paris.

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... sua una notevole intervista a LFC:

intervista a Céline di Louis-Albert Zbinden
a cura di Sergio Falcone

Questa intervista radiofonica con Céline, condotta da Louis-Albert Zbinden, è stata trasmessa da Radio-Télé Suisse Romande (Losanna), il 25 giugno 1957.

Vorrei farle una domanda forse un po’ ingenua. Per quali ragioni ha pubblicato questo nuovo libro, Da un castello all’altro? Perbacco! Debbo confessarlo ancora una volta: è chiaro che lo faccio soprattutto per delle ragioni economiche,… per parlare con una certa finezza. Da un certo numero di anni sono oggetto d’una sorta d’interdizione; ma faccio uscire un libro che, malgrado tutto, è abbastanza pubblico, poiché parla di fatti ben noti, e che riguardano nello stesso modo i francesi. E’ una piccola parte, del tutto piccola, ma pur sempre una piccola parte della storia di Francia: alludo a Pétain, a Laval, mi riferisco a Sigmaringen (Città della Germania, già capoluogo dell’Hohenzollern, alla destra del Danubio. Fu l’ultimo rifugio del governo collaborazionista francese di Vichy; settembre 1944 – maggio 1945. s.f.). Lo si voglia o no, è un episodio della storia francese; può essere doloroso, ce se ne può rammaricare, ma è comunque un momento della storia di Francia. Tutto questo è accaduto e, un giorno, se ne parlerà nelle scuole. D’altra parte torneremo sull’argomento fra poco, se lei è d’accordo. Ma preferirei toccare le questioni letterarie. Quelli che non hanno letto il suo libro, si chiedono se assomiglia, nello stile, per esempio, ai suoi libri passati, al Viaggio al termine della notte… E’ difficile cambiare lo stile; anzi, è impossibile. Pare che i pittori riescono a cambiare lo stile, ma infine anche gli scrittori; in quanto a me, non credo che questo mi sia accaduto. La faccenda dello stile, se così posso dire, m’interessa assai da vicino, anche se non mi ritengo uno stilista, ossia uno scrittore che ha gran cura dello stile. Ho questa debolezza, e credo che sia una scelta non molto frequente, dal momento che quel che c’è di più difficile è lo stile. Per inviare dei messaggi o dei pensieri profondi, non ho che da aprire un’opera specialistica, ne sono pregno; non ho che da sfogliare tra i testi di medicina, così posso facilmente eccellere, brillare, ma non è questo… No. Sono un colorista di certi fatti. Per caso mi sono trovato in circostanze tali per cui la materia da descrivere era interessante. Proust si occupava di tipi del bel mondo, io invece mi sono interessato ai personaggi che mi capitava d’incontrare e di osservare. Ho narrato le loro piccole storie, con uno stile che mi sembrava essere il mio. La letteratura, dunque, è per lei anzitutto una questione di stile, e quando parla di stile, lo distingue dalla storia propriamente detta? La vicenda, la adatto senz’altro allo stile; del resto come fanno i pittori, che non si occupano esclusivamente del frutto. La mela di Cézanne, lo specchio di Renoir, o la bella femmina di Picasso, o la capanna di Vlaminck, sono piuttosto lo stile che essi gli donano. Gli oggetti non prendono molto spazio,… sparivano più o meno… Saprà che, quando la si legge, si ha l’impressione che lei scriva i suoi libri in un modo diretto, molto fluido, e che il famoso stile parlato, che è la sua caratteristica, nasca da una sorta d’improvvisazione costante. È esatto? Oh no, non è proprio così. Scrivo invece con molta fatica, oserei dire. La capacità di esprimersi è un fatto naturale. E’ così, con ogni probabilità, e questa è già una base. Ma, alla fine, il foglio di carta non trattiene l’eloquenza naturale. Conosciamo bene la povertà che offrono i discorsi alla Camera, o le cause in tribunale, quando sono trascritti in stenografia. No,… è tra la gente che hai l’avvio di una chiusa, oppure di una piccola frase faceta… Ma, conservare uno sforzo di composizione secondo lo stile di 400-500 pagine, richiede molto lavoro; bisogna saper vedere e rivedere. In realtà 400 pagine stampate fanno 80000 pagine manoscritte. Ma il lettore non è obbligato a saperlo. Anzi, non deve saperlo. E’ un problema dell’autore quello di correggere il proprio lavoro. Si fa entrare il lettore in un piroscafo. Tutto deve essere gradevole. Quel che accade nelle stive non lo riguarda. Egli deve gradire il paesaggio, il mare, il cocktail, il ballo, la freschezza dei venti. Tutto ciò che è meccanico, o relativo ai lavori servili, non lo riguarda affatto. E la nave ha un cattivo vapore, un cattivo capitano, un cattivo cuoco, una cattiva compagnia, se il passeggero non è messo a suo agio da chi mette in moto le macchine, da chi arrostisce il pollastro, e da chi conduce la barca fuori degli scogli. Dal momento che lei dà un’importanza così grande allo stile, la si potrebbe credere anzitutto un esteta… Ma lei non è un mandarino della letteratura, poiché è al centro della sua stessa opera. Qui tocchiamo una questione molto delicata. Credo che, in un modo inconscio, ho avuto una gran cura nell’evitare di essere un mandarino della letteratura; eppure l’ho quasi cercato. E, per dire proprio tutto, mi sono rese ostili tante persone; mi sono attirato l’odio di tutti; né ritengo che questo sia un fatto volontario. L’ho fatto per non essere popolare, per non essere lusingato, e per non acquistare importanza, il che mi pareva una cosa orribile, non è così? Ho preferito piuttosto la modestia, ed anche la condanna generale. Non posso dire che l’ho cercata per intero ma, infine, questo m’è capitato. Se avessi voluto evitarlo, era molto semplice sottrarmi, non avevo che da tacere. Non ho taciuto nel ’37 o nel ’38. Non avevo che da impormi il silenzio, mi si lasciava tranquillo. Invece mi sono cacciato in una storia orrenda, e questo m’è valso un isolamento e un’ostilità totale, mio Dio, nella quale sono diventato un “mandarino” dell’orrore, se preferite, poiché ora vedo degli individui che erano considerati dei collaborazionisti, i quali mi svergognano, e riprendono le stesse calunnie dei partigiani di De Gaulle, o del signor..., o di qualunque mediocre partigiano. Sono un isolato, se così si può dire, solo; per essere più a contatto con le cose. Amo molto gli oggetti. Questo non è molto apprezzato nell’epoca in cui viviamo. Ci si preoccupa molto più della personalità anziché dell’oggetto. Si è individualisti, così come si è legati ai processi verbali. Non è questo il mio caso. Semmai sono un artigiano delle cose. Questo è misconosciuto ai nostri giorni, e lo sarà sempre, a meno che non si provochi una rivoluzione antimaterialista, un istante nei secoli e secoli. Ma ora noi siamo con ogni evidenza nell’epoca della pubblicità e della meccanica. Allora… il robot di genio… l’autore ha successo… Quando lei dice che l’oggetto è il suo interesse principale, questo è in contrasto, penso, con le idee generali. Mi pare che su questa questione, alla vigilia della guerra, esattamente negli anni attorno al 1937, a cui lei ora fa riferimento, allo stesso modo ha assunto un atteggiamento a favore di problemi di ordine generale. E questo forse è l’origine di tutti i suoi guai. … per forza ero contro la guerra. Lo ero in una forma esplicita, totale, come ho il diritto di esserlo… Lei è un pacifista… Sono un pacifista integrale. Tanto più che sono medaglia militare dal mese d’ottobre 1914, cioè non da ieri; sono mutilato di guerra all’80%,… e di conseguenza ho tutto il diritto d’essere un pacifista. Mi sono arruolato nella seconda guerra ancora come medico di bordo; sono andato a picco al largo di Gibilterra; conosco bene i piccoli retroscena della guerra. Per questo non l’amo. La trovo stupida e del tutto negativa per qualsiasi società. Allora ho trovato, mi sono immaginato, le cause della guerra, che ho attribuito ad alcune fazioni… Filippo il Bello doveva tutte le sue disgrazie ai Templari;… i Giansenisti sono stati perseguitati attraverso quattro o cinque secoli. La storia di Port-Royal non è del tutto terminata, se ne parla ancora. I Gesuiti sono stati perseguitati, etc. … Forse ho isolato una setta che non era poi così biasimevole come ho detto; forse la riprova è ancora da darsi, forse la testimonianza verrà con la storia. Diciamo il termine esatto: lei è stato un antisemita. Appunto. Nella misura in cui pensavo che i Semiti ci spingevano alla guerra. Senza questo motivo non ho proprio nulla contro di loro; non trovo alcun motivo di conflitto con i Semiti: non sussistono delle ragioni plausibili. Ma finché essi costituivano una setta, come i Templari, o i Giansenisti, era chiaro come Luigi XIV (il quale aveva delle buone ragioni per revocare l’editto di Nantes) e Luigi XV, nel cacciare i Gesuiti, fossero nel giusto… Allora, ecco, la questione è tutta qui: mi sono appassionato a Luigi XV o a Luigi XVI, ma questo, evidentemente, è un grosso errore. Dal momento che dovevo restare quel che sono, e più semplicemente impormi il silenzio. In questo ho peccato d’orgoglio, lo confesso, per leggerezza, per bestialità. Non avevo che da tacere… Sono dei problemi più grandi di me. Sono nato nell’epoca in cui si parlava ancora dell’affare Dreyfus. Tutto questo è un vero errore di cui faccio le spese. Ed è in questo preciso momento che sono tormentato da ogni specie di uomini che mi scoprono transfuga, recidivo, venduto… Che cosa pensa di queste infamie? Proprio nulla. Dico solo che presto avrò sessantacinque anni, avrò la pensione di medico, con una rendita di 200000 franchi all’anno, e che grazie a Dio resterò un po’ tranquillo… Comunque sono passato attraverso la più grossa caccia alla volpe che sia mai stata organizzata nel corso della Storia… e già questo non è male!... Non rinnego proprio niente… non cambio facilmente d’opinione… Insinuo solo un piccolo dubbio, ma si dovrebbe provare che mi sono sbagliato, e non che ho ragione. Ascolti. Lei ha detto che è un pacifista e che lo è ancora. Certo. Ma come conciliare questo col fatto che lei, per esempio, ha lodato l’armata tedesca? L’armata tedesca la magnificavo prima ancora che penetrasse in Francia, e che scatenasse la guerra. Trovavo che era un buon modo d’essere una potenza… La Svizzera ha un esercito. Il Principato di Monaco ha un esercito. Il ferro evidentemente è la forza, è l’ordine. E allora, quando il potere domina, non c’è più altra forza altrove… Dal momento che parliamo dei francesi, potrei ricordare loro che se ci fosse sempre un’armata tedesca, se non fosse stata dichiarata la guerra, e se la Germania fosse quella che era un tempo, ebbene essi avrebbero conservato l’Algeria senza molti problemi, non avrebbero perduto il Canale di Suez, né l’Indocina. I francesi hanno introdotto il disordine, demolendo una struttura portante, proprio com’erano stati abbattuti gli Asburgo, che non sono stati sostituiti da niente. Ma non crede che l’imperialismo tedesco potesse anche essere una causa di distruzione per certe strutture, ivi compresa la fine del primato francese in Europa? Sono convinto che si potesse trattare coi tedeschi in modo molto vantaggioso. Vale a dire che noi esercitavamo ancora su di loro del prestigio. I tedeschi si ricordavano del carico di legnate del ’18, e ci guardavano con molto rispetto. Sappiate che dagli inizi della storia del mondo niente è valso più del prestigio della guerra che si sta per vincere, o del prestigio di quella che si va a vincere… Di conseguenza, noi conservavamo il prestigio della vittoria nella guerra ’14-’18. Occorreva difendere questo prestigio comunque, non importa come, ma non in modo da metterlo in pericolo, o in discussione… Si custodiva il piccolo trincerista… il ’18… Verdun… questo contava enormemente, questo valeva molto. E allora non saremmo stati attaccati; nessuno ci avrebbe affrontato, Suez non si sarebbe scosso, l’Indocina non si sarebbe agitata, l’Algeria non si sarebbe mossa, né il Marocco, né la Tunisia. Tutti i paesi sarebbero restati al loro posto. Era sufficiente inviare un battaglione della Legione per regolare tutto. Mentre ora, scusatemi, tutti quei popoli sanno che siamo deboli. Perbacco, nella storia dell’umanità, non si è mai minacciato troppo a lungo i deboli, che lo sia stato dichiarato o no. Era lì che vedevo utile l’esercito tedesco, il soldato tedesco. Era tutto. E’ semplicemente questo. Forse mi sono sbagliato. Non domando di meglio. Non ne discuto più. In quanto a me, sono alla fine della corsa. Ci si potrebbe stupire di un particolare, signor Céline. Ossia, nel momento in cui i fatti sono cambiati, ossia quando le potenze dell’Asse hanno cominciato a non avere più il vento in poppa, lei ha insistito. Ma questo era per lei un fatto d’onestà o di coscienza? Si spieghi un po’. Non ho mai insistito su alcuna questione politica. In nessun modo. Non ho mai collaborato ad alcun giornale, né concesso delle interviste, né rilasciato dichiarazioni alla stampa, né votato, né fatto parte di un partito. Sono assolutamente e rigorosamente indipendente. Mi costruivo solo come scrittore. Nella mia incoscienza credevo di poter influenzare ognuno a favore della pace. Bene. E’ tutto. Assolutamente tutto. Non sono mai stato vicino a nessuno. Mai un soldo da nessuno, né americano, né inglese, né tedesco, né svizzero. Nulla. Per cui non ho vissuto che dei miei diritti d’autore, e anche molto modestamente. Quando altri, invece, hanno persistito nella loro opinione, o non persistito… Dopo Stalingrado, diciamo pure la parola, c’erano delle facce di bronzo. Tutti hanno fatto marcia indietro, sono diventati antitedeschi. Bene. Ma io non avevo alcun motivo di essere antitedesco, né antichiunque. Nel corso della guerra, i tedeschi sono venuti a trovarmi e mi hanno sempre detto: “Vinceremo, abbiamo la vittoria”. Ma io dicevo: “Datemi delle prove, qualcosa, non vedo niente”. E loro non mi hanno mai portato delle prove. La prova è che essi hanno perduto. Non ho mai voluto nient’altro che la pace. Quando i tedeschi sono entrati in Francia, non ero partigiano. Non ho mai detto: “Urrà! Evviva i tedeschi!”. Questo non mi divertiva, al contrario degli altri. I tedeschi sono stati abbastanza stupidi, Hitler in particolare, per non aver fatto la pace al momento opportuno, come noi abbiamo fatto la pace troppo tardi nel ’18. Noi francesi avremmo dovuto farla nel ’15 o nel ’16. Così i tedeschi si sono accaniti, o piuttosto Hitler s’è accanito in alcune operazioni belliche che determinarono la fine della Germania. E’ tutto qui. Sempre questo principio assurdo della guerra. E’ tutto. In quanto a me, non ho da pentirmi di niente. Non sono mai stato sostenitore di questo o di quello. Ero a favore delle armate tedesche, perché esse mantenevano la pace in Europa, in Francia in particolare, e l’aiutavano a conservare le proprie colonie. Ma è tutto. A meno che non mi si provi il contrario. Vorrei chiederle,… perché lei è finito a Sigmaringen? Per il motivo molto semplice che a Parigi non si chiedeva altro che la mia morte. Non avrei voluto neppure la Corte di giustizia. Sarei stato assassinato nell’Istituto dentario, oppure a Villa Said. Tutto era predisposto. Mi sono salvato, me la sono svignata, perché non volevo essere assassinato; né io, né mia moglie. Sono stato beccato. Bene. Siamo intesi. E’ una inezia. Sono stato sbattuto in prigione lassù, in Danimarca. Ho fatto dieci anni di reclusione. Bene. Ma tutto è così banale… Ecco i piccoli risvolti della storia. Ma, in quel momento, ce li spiegano così male, poiché il mondo è materialista e si domanda: “Ma perché? Se ha fatto così, vuol dire che aveva un interesse”. Ma io non avevo alcun tornaconto. Era solo una vocazione al martirio. Mi sacrificavo per i miei simili… Ma… sicuramente non ne vale la pena,… ho pensato di strapparli alla guerra. E’ un particolare che con loro non è il caso di riepilogare. Per loro è meno comprensibile della quadratura del cerchio… Che ci si getti nella mischia senza un giusto motivo. L’ho fatto a scopo gratuito… Come una donna di piacere. E’ tutto. Allora mi hanno insultato, dicendomi: perché? quale vantaggio?... Ma io non ho dei guadagni. Non ho mai detto: “Per di qua. Sono il capo di un partito”. Non sono un uomo politico. Non sono un attore. Ero, credo, uno scrittore e un medico. Sono uscito da questa mia privacy, per entrare in un’orrenda avventura in cui non ho ricevuto che violenze e atrocità. Questo è tutto. Non cambia niente. In questo momento, coloro che mi bersagliano perché sono questo, sono quello, mi seccano. Non debbo essere questo o quello. Non si chiede a una donna se vuole il biondo, il bruno, il nero, il rosso… Lei dice: “Quello mi piace. Oppure, non mi piace più. E via! E’ un alcoolizzato. E’ un pazzo”. Ne ha ogni diritto. Voglio tralasciare queste questioni che, nonostante tutto, sono prive d’importanza… Si tratta veramente di bassezze umane che un po’ di sabbia cancella. Dunque, è un fatto secondario. Ma forse c’è una cosa che può interessarvi… che, mi dispiace, insisto ancora col mio modesto punto di vista. E’ la posizione delle masse umane, dei territori abitati. E’ chiaro che la Francia era la prima nazione del mondo quando contava venticinque milioni d’abitanti, sotto Luigi XIV; il nostro paese dettava legge al mondo. Quando Luigi XIV era indisposto, tutti tremavano per lui. Ai giorni nostri, la Francia non conta più niente per media di nascite, per numero di abitanti. La Francia conta quaranta milioni, di fronte a dei blocchi che contano alcuni miliardi. Oggi, dunque, si parla di miliardi. Già ai tempi di Hitler… il grosso errore di Hitler, è che egli ha parlato in un momento in cui aveva ottanta milioni di uomini dietro di sé. Ma avrebbe avuto quattrocento milioni di uomini dietro di sé; quindi, avrebbe vinto. E’ chiaro. E’ solo una questione di numero. Se non avete la maggioranza, tacete. In questo momento parliamo in un’Europa piccola, molto piccola. La Francia è diventata le Due-Sèvres senza accorgersene. E’ diventata non più importante del dipartimento della Drome o dell’Ariège. Sì, ma lei sa anche che la potenza di una nazione non si misura solo dal numero dei suoi abitanti. Ah, si misura dalle risorse materiali, che la Francia non ha più. Allora non le resta che tacere. Napoleone, che non era così idiota come lo si vuol far credere, diceva: “La Cina è un gigante che dorme. Quando muoverà il dito mignolo, farà tremare il mondo intero”. Siamo nell’epoca in cui il gigante agita il dito mignolo, e ho il fondato timore ch’egli non faccia tremare il mondo. Ma allora quale futuro vede per il suo paese? Non vedo un avvenire migliore della Danimarca, dell’Olanda, e secondario anche rispetto alla Svizzera, che conserva una sua tradizione in queste circostanze. La Francia, invece, è un paese che continua a parlare, ritengo, come sotto Luigi XVI, anche ora che è ridotta come il dipartimento delle Deux Sèvres. Ma quel che blatera non ha alcuna importanza. Non ha più un’autorità, il che è grave. La Francia trae il proprio potere ora dalla Russia, ora dall’America. Da sola non può definire più niente. La questione di Suez lo dimostra. La Francia non ha più una sovranità. Le è stato tolto il comando. E’ obbligata a prenderlo là dove glielo danno in prestito. E questo non sarebbe accaduto, come ho già detto, se fosse stata unita con la Germania. E’ quel che tentano di fare in questo momento. La Francia europea, essi la creano sulla carta, la sperimentano. Ma la storia non rivede mai i piatti. Gli altri hanno una forza schiacciante in fatto di dinamismo e noi, noi restiamo a dibatterci nelle nostre piccole questioni. Non più importanti delle Deux-Sèvres. Non vedo altro… Si raccontano delle storie… ma no… no… Per quel che la riguarda, come vede il futuro? Una frase del suo libro mi ha spaventato. E’ chiaro che il suo libro è un “romanzo”. Ma alla fine questa parola “romanzo” non mi frena poi tanto, poiché la vicenda appartiene tanto a Céline… vi è talmente una parte di lei in questo romanzo. Ora, proprio alla pagina 35 di Da un castello all’altro, lei pronostica il suo suicidio, e tende anche a precisare: in uno scantinato e mediante una carabina. Questo potrebbe anche accadere, è una questione che esamino con molta calma. E’ un problema di gas, di corrente elettrica, anche di fagioli. Mangio molto poco. Bevo solo acqua. Non fumo. L’ascetismo è una mia condizione naturale. Pertanto, solo Dio sa come ho vissuto la mia esistenza. Ma sono un “voyeur”, non un esibizionista. In fondo, vi sono due razze d’uomini: i guardoni e gli esibizionisti. Sono un “voyeur” che si accontenta di guardare. Non sciupo le cose. Ma, anche consumando molto poco, la vita costa egualmente cara. E, se il costo della vita aumenta, i guadagni non aumentano. Allora, può capitarmi una grave malattia. Alcuni accettano di convivere con una terribile malattia. Io no. Ho molti amici che sono malati di cancro, o di tubercolosi. In quanto a me, troverei più naturale andarmene all’altro mondo. Non mi costerà poi tanto crepare. Me ne andrò, finalmente. Seguirò quelli che sono morti. E’ tutto. Se suicidarsi presuppone,… mica male, del disprezzo per se stesso, dicono, Céline, che lei disistimi gli uomini. Forse che questo disprezzo per gli uomini, se è autentico, si spinge fino all’irrisione di se stesso? Sono stato apostrofato in modo assai più chiaro come “il nemico del genere umano”. È un nuovo modo di trattarmi. Sono l’avversario del genere umano. Sono un fautore del genocidio platonico, verbale. Non sanno più che cosa inventare. Ma non è molto importante. Sono delle infamie umane che un po’ di sabbia cancella. Imito la sorella di Marat. Quel che importa veramente è il conto del droghiere, che è molto gentile, ma che è là, e poi poter cogliere la morte, se possibile indolore. Non mi preme che questo. Insomma, conosco bene i rimedi per farla finita. Vuol dire, con questo, che medita sulla propria morte, che è rassegnato a questa idea? Con assoluta tranquillità. Con la maggiore calma possibile! Io adopero il frasario, la retorica se si vuole, per guadagnarmi la vita e quella di mia moglie. Ma, mio Dio, il giorno in cui le forze mi abbandoneranno completamente, e mi scoprirò incapace di provvedere ai miei bisogni, non sarò il solo ad andarmene. Non è una novità… Quale parola vorrebbe pronunciare, quale frase vorrebbe scrivere prima di sparire? “Sono degli imbecilli”. Ecco quel che penso. Gli uomini in genere sono spaventosamente imbecilli. Sono imbecilli e volgari, ecco che cosa sono. In più meschini e bestiali… ma soprattutto imbecilli e volgari. Lei, invece, ha cercato di mostrarsi piacevole? Oh, non ho bisogno di fornire le prove. Sono figlio d’una riparatrice di antichi merletti. Mi ritrovo una collezione abbastanza rara, la sola cosa che mi resta, e sono tra i pochi uomini che sappia distinguere la tela di batista da quella di Valenciennes, la tela di Valenciennes da quella di Bruges, la tela di Bruges da quella d’Alençon. Me ne intendo di cose di gusto. Molto bene. Non ho bisogno d’essere dirozzato. Ne so abbastanza. E conosco nello stesso modo la bellezza delle donne, come quella degli animali. Molto bene. Sono pratico anche di questo. Ma per essere competente, occorre intendersene veramente. È nel proprio laboratorio intimo che ci si occupa di queste cose. Lo ripeto, trovo che gli uomini sono soprattutto degli imbecilli. E’ questo che ci trovo prima di tutto: Dio, come sono imbecilli! Ecco tutto l’effetto che mi fanno. Soprattutto quando cercano di fare i furbi… E’ peggio ancora. E’ tutto quel che riesco a vedere.

venerdì 4 settembre 2009

Il doppio Céline di Stenio Solinas


Bentornati dalle vacanze e un benvenuto ai nostri nuovi sostenitori! Iniziamo settembre con...

IL DOPPIO CÉLINE DI STENIO SOLINAS

di Gilberto Tura


Stenio Solinas, inviato de "Il Giornale", appartiene a quella generazione di intellettuali controcorrente che, nei roventi anni '70, aveva animato la "Nuova Destra" italiana sotto l'influsso dell'ideologo francese Alain Benoist e che è cresciuta riunendo nel proprio pantheon culturale e ideologico una schiera di intellettuali e scrittori spesso dimenticati, o meglio, deliberatamente abbandonati all'oblio più totale, perchè considerati non politically correct, o peggio ancora, impresentabili dall' establishment culturale dominante.
In un clima politico e culturale radicalmente mutato, nel 1999 Solinas pubblica "COMPAGNI DI SOLITUDINE - Una educazione intellettuale", edito da Ponte alle grazie di Firenze, in cui descrive le letture e gli scrittori che hanno concorso alla sua formazione intellettuale durante gli anni giovanili. Nella seconda parte del libro (la prima è dedicata alla descrizione del suo percorso politicio-intellettuale) Solinas compone una galleria di ritratti di scrittori e personaggi, in prevalenza francesi, nei confronti dei quali si dichiara apertamente debitore sul piano culturale. Tra questi si va da Drieu la Rochelle a Malraux, da Saint-Exupery a Hemingway, da Morand a Chatwin, da Rimbaud a Debray, da Ehrenburg a Munzenberg, per citarne alcuni, sino a Céline. Di quest'ultimo Solinas dichiara sin dall'inizio una totale ammirazione, sia sul piano artistico (Céline è inarrivabile) sia sul piano umano rimarcandone contraddizioni e astuzie intellettuali, bugie e verità, torti e ragioni, cinismo e dolcezza. Nel ritrarre l'ultimo scorcio di vita, Solinas descrive in maniera commovente l'ultimo, conclusivo ed estremo sforzo di Céline che, pur prigioniero di un fisico seriamente provato e precocemente invecchiato, ostracizzato ed emarginato dalla società letteraria e civile, consisterà nel voler dimostrare di essere ancora indiscutibilmente "in pista", rifiutandosi di congedarsi da sconfitto e che le terribili prove affrontate, se hanno stremato il fisico, non hanno minimamente scalfito l'unicità e la potenza della sua penna.

CÉLINE E IL SUO DOPPIO

di Stenio Solinas


Ci sono debiti intellettuali che a pagarli non ti basta una vita. Céline è uno di questi. Dico intellettuali e non artistici, perchè nell'arte, lì... nel cuore della scrittura, dell'invenzione e della trasposizione... Céline è inarrivabile, ti soverchia talmente che a imitarlo non ci provi nemmeno... perchè se poi fai il paragone, ti viene da piangere... Si, certo, i tre puntini di sospensione... un modo per rendere più veloce lo stile scritto, per adeguarlo a un racconto parlato... ma tutto il resto, l'enorme distruzione e ricostruzione della lingua che c'è dietro, è roba da titani delle lettere, gente che lavora per la propria immortalità, ci crede... mentre noi siam qui che tiriamo la carretta del contingente, del quotidiano, anche bravini a volte... non dico di no e me lo dico da solo... ma vuoi mettere... ma non c'è neanche da entrare in argomento... Il debito, allora, è dal punto di vista delle idee, perchè poi io... al fondo... sono uno da realismo socialista... e per me gli eroi sono tutti giovani e belli... e si muore per la causa... e si vive per gli ideali... Poi lui ti tocca sulla spalla, ti costringe a voltarti e ti fa vedere l'altra faccia della vita, la faccia sporca... ovvero la faccia vera... quel groviglio di interessi e di meschinità, di rancori e di accomodamenti, di miserie magnificate, grandezze rottamate... Non lo fa con cattiveria... non lo fa per deriderti... lo fa per metterti in guardia, perchè tu sappia a cosa vai incontro... in modo che sei preparato, sai cosa ti aspetta... Lo fa da quella figurina di Épinal che fu nella sua giovinezza... l'elmo da corazziere in testa... le cariche di cavalleria... le decorazioni e le mutilazioni... Lo fa come uno che quella faccia sporca... che conosceva... che vedeva tutti i giorni... ha cercato fin quando ha potuto di abbellirla a suon di emozioni... di balletti... di gambe femminili... di sanità fisica... sesso e carattere... paganità e bellezza... razza e purezza...
In ogni famiglia che si rispetti, c'è sempre un parente «pazzo» a rompere l'ordine costituito... Uno zio puttaniere, un nipote giocatore, un figlio megalomane... Dilapidano patrimoni, distruggono reputazioni, provocano rotture e riprovazioni. Di loro non si parla mai in tono normale, la voce è sempre o troppo bassa o troppo alta... se ne teme il contagio, li si isola perchè il germe non si propaghi, perchè il cattivo esempio non faccia proseliti... E però, qualcuno che li frequenti lo si trova comunque, qualcuno che non si fida di ciò che la norma garantisce come corretto, il buon senso comune bolla come insensato... E magari scopri che quello zio è soprattutto un innamorato delle donne, quel nipote disprezza il denaro, quel figlio è un generoso...
Anche le famiglie di pensiero hanno il loro «pazzo». Il «pazzo» della Destra è Céline. Naturalmente Céline non è di destra, la destra tradizionale, intendo, ma si ritrova a destra perchè nel Novecento quella famiglia si allarga, si fanno matrimoni d'interesse e di potere... si intrecciano relazioni adulterine, si regolarizzano unioni di fatto, nascono figli illegittimi... Quando per dissesti politici e ideologici, va tutto a scatafascio, se lo ritrova lo stesso sulle spalle; e é troppo ingombrante, e troppo compromesso, perchè qualcuno se lo pigli così com'è, ma è troppo grande e troppo compromettente per tenerlo così com'è...
E dunque... dai a distinguere... a sezionare... a disossare... e questa è la polpa... e questo è lo scarto... e qui c'è carne da brodo... e qua c'è solo grasso... Lo puoi anche fare, intendiamoci... è legittimo... purchè non perdi di vista la carcassa... purchè non cerchi di far passare il manzo per maiale... Poi, naturalmente, ci sono gli eccessi... il pazzo... si sa... chiama i pazzi... vien fuori un gran casino... A metà degli anni Settanta, da una tipografia di Ciarrapico, stampatore specializzato in libri esplosivi... li aprivi, e ti si sfasciavano tra le mani... volava via un foglio dietro l'altro... una casa editrice farlocca, Aurora, fece una traduzione, farlocca anche questa di Bagatelles... Addirittura, l'avevano attualizzato... ci avevano messo dentro Lyndon Johnson e Jacqueline Kennedy, così il pamphlet era al passo con i tempi, si erano detti, avevano convenuto... roba da vomitare, che se Céline l'avesse avuta fra le mani... lui che sudava sangue su ogni virgola, su ogni punto e virgola, e li avesse avuti di fronte, a Meudon, gli avrebbe aizzato contro i cani... E però era il lato «mangiatore di ebrei» che interessava, piangevano sul perseguitato, ma intanto si davano di gomito: «Hai visto come gliele canta, senti come gliene suona»...
A me dell'antisemitismo, delle brume profonde, del sangue e suolo non è mai fregato niente, e fra nord e sud scelgo il sud, il mare e il sole, le pelli abbronzate e, se la vogliamo dire tutta, i veri ariani, gli indoeuropei col botto... sono i curdi, mica i tedeschi... Così, allora, mi divertivo a dire, a scrivere, che Bagatelles non era tanto o solo un libro razzista, era qualcosa di peggio, dal mio punto di vista, dal punto di vista della scrittura, era un libro noioso, un libro fallito... Così come ora, quando trovo qualche smemorato di Cuneo o di Collegno, qualche esegeta di Brecht passato, senza colpo ferire, all'esegesi di Céline e che se ne esce parlando di «antisemitismo umorale», «paradossale»... mi viene spontaneo ricordargli che no, caro, non è così, è sostanziale, è razziale, fa parte della sua visione del mondo... Ripeto, ti può piacere di più il biancostato della trippa, ma non devi cercare di far passare il manzo per maiale...
Io devo a Céline anche alcune delle risate più piene della mia vita. Quelle pagine di Morte a credito il cui il ragazzo Ferdinand si scazzotta col padre, il mal di mare sulla Manica, l'inventore Courtial e l'altro, Rodiencourt, di Guignol's Band... comicità allo stato puro. Sapeva ridere, e far ridere... C'è un racconto di Marcel Aymé, Avenue Junot, in cui quel Céline lì allegro e beffardo, giganteggia... pieno di trovate, scoppiettante di ironia... E che gran conquistatore anche... Tanti anni fa, quando lessi le sue Lettres à des amies, mi venne la tentazione di scriverci intorno qualcosa, avevo persino trovato il titolo, Lo sai cosa faceva Céline alle donne?... Erano bionde, brune, rosse... c'era la psicologa e c'era la ballerina, la pianista e la studentessa, l'insegnante di ginnastica e la intellettuale, la francese e la straniera... Senza contare quelle in carica, sposate e poi abbandonate, non sposate e poi rimpiante, fino all'ultima, mai più lasciata... Consigli pratici, consigli di vita, consigli sessuali, riflessioni sulla bellezza, considerazioni sull'amore... É un altro Céline... il Céline prima della catastrofe, prima della riapparizione dall'inferno... quando non deve lottare per il suo riscatto, quando ancora crede di poter giocare e vincere la guerra delle idee.
Degli scrittori che ho qui raccolto, è quello che ammiro di più e sento di meno. Non c'è contraddizione: fra i compagni di solitudine non avrei potuto non inserirlo, perchè é poi quello che nel tempo mi ha maggiormente fatto compagnia; e tuttavia è il meno in sintonia con gli altri e con me stesso, così disperato e così esaltato, affascinato dalla morte e però spasmodicamente attaccato alla vita, talmente solo da crearsi un proprio universo di scrittura, autosufficiente e autorappresentativo. Il più amaro eppure il più poetico, in apparenza il più cinico e invece il più indifeso.

«Amica mia, non vi fate metter fretta. Odio la fretta. Non esistono dettagli in grado di annoiarmi. La minima virgola mi appassiona. Odio la faciloneria... Il bravo operaio si riconosce a lavoro finito... Non si stanca mai. Io sono instancabile. Ricordatevi sempre: non fatevi mettere fretta. Otto giorni in più non incidono sulle vendite e possono incidere sul libro. E il libro vien prima delle vendite». Un anno dopo: «Mio caro Doppio, penso a voi e alla fatica che presto vi infliggerò. In campana! Ho dovuto sgobbare per precedere i soviet. E tuttavia mi chiedo se non ce la faranno a sopraffarmi». Ancora un anno: «Mia cara bambina, la forza del libro sta nella sua estrema sgradevolezza per tutti quelli cui ho potuto pensare... Ricordate? Chi mi ha difeso per Morte a credito? I sostenitori dell'alta letteratura? Chi? É stato il più vigliacco, ingiusto, dannato hallalì mai visto... E allora... me ne fotto cosmicamente d'essere imparziale, scrupoloso... Sono in guerra contro tutti. Come tutti furono uniti nel cercare di annientarmi. Sarà un ragionamento meschino, ma è solido e ben meditato, non è aria fritta. I 'siate superiori'... 'siate nobili'... 'non mischiatevi alle bassezze' eccetera, sono discorsi da ebrei. Grazie ai quali, sorridendo, prendiamo calci nel culo e crepiamo in scioltezza. Noi cerchiamo di darci un contegno. Loro del contegno se ne fregano e sono Re del mondo. Voglio schiacciarli nella loro stessa meschinità. Questo libro è all'insegna dell'amarezza. Non è fatto per piacere a nessuno».
Chi scrive, lo si è capito, è Louis-Ferdinand Destouches, in arte Céline. Inconfondibile lo stile, altrettanto il contenuto: la letteratura come altissimo artigianato, la consapevolezza della propria unicità nel panorama culturale del suo tempo, la lingua come eccesso verbale, l'antisemitismo su cui fondare una vera e propria estetica, un senso di disperazione e di disastro incombente. Ma chi è l'«amica», la «bambina», addirittura il suo «Doppio»? Si chiama Marie Canavaggia, ha 40 anni, è figlia di un magistrato, fa la traduttrice per diletto, ama i classici, è d'origine còrsa. Ha una sorella pittrice, Jeanne, un'altra astrofisica, Renée, con cui divide casa a Parigi. «Le sorelle Brontë», le ribattezzerà Céline, ma parlando di loro userà sempre un tono rispettoso (per quanto rispettoso egli potesse essere... ). Dal 1936 Marie è la sua segretaria tuttofare: ne rivede i testi, corregge le bozze, procura e colleziona i ritaglia stampa, s'incarica della corrispondenza pubblica, svolge trattative editoriali in suo nome, si preoccupa persino delle cartelle dove archiviare via via manoscritti e successive stesure.
Non c'è un contratto fra loro, e neppure un rapporto, come dire, gerarchico o sentimentale (anche se Marie di Ferdinand è innamorata, come potrebbe esserlo una romantica donna inglese, e specie negli anni duri dell'esilio Céline si ritroverà a dover fronteggiare qualche scena di gelosia epistolare...) A ogni libro il sodalizio si riforma automaticamente, e ogni volta Marie si cala nell'universo artistico dell'altro come un palombaro va in fondo al mare. Ripesca le frasi, ne chiede conferma, suggerisce modifiche, controlla la punteggiatura, la sintassi, la grammatica. Negli abissi del linguaggio che lo scrittore naviga a suo piacimento, sforzando, distorcendo, inventando, Marie si muove a proprio agio, mai in maniera ottusa o codina, sempre nel nome di quella musicalità che Céline insegue e per la quale stravolge e rimodella le frasi. Un sodalizio perfetto, che dagli anni Trenta durerà fino alla morte dell'autore del Voyage, passando per quelli tremendi dell'esilio danese e della prigionia, durante i quali Marie sarà amica e consolatrice, garante e depositaria della sua opera. L'unica di cui lo scrittore, nel fluviale epistolario che terrà con vecchi amici e nuove conoscenze (quasi) mai si lamenterà, (quasi) sempre si fiderà e elogerà. Un record. Oltre 500 lettere, per un quarto di secolo di corrispondenza.

«Ci sono scrittori francesi che se ne stanno a Londra, parlando alla radio e scrivono sulla Francia. Io, invece, scrivo su Londra. Essi parlano di politica, e io, invece, no». Nel marzo del 1944, quando Guignol's Band I va in stampa così Céline riassume in un'intervista le ragioni e il senso del suo nuovo romanzo. Dopo tre pamphlet al vetriolo in cui ha prefigurato il carnaio della Seconda guerra mondiale; deriso e stigmatizzato la sconfitta della Francia; plaudito a una alleanza con la Germania hitleriana; cavalcato l'antisemitismo nel nome di un ritorno all'emozione pura, artistica, esistenziale di una razza, la propria, che sente minacciata; elaborato un programma nazionale di rigenerazione morale e sociale (basta con la scuola dell'obbligo, sì alla musica, allo sport, alle belle arti, nazionalizzazioni e politica per le famiglie...); dopo aver disseminato le redazioni dei giornali collaborazionisti di lettere in cui si polemizza con il regime di Vichy perchè non è all'altezza, si chiede maggiore durezza contro il nemico interno e si grida, ogni due per tre, al tradimento, eccolo uscirsene con un romanzo in cui d'attualità non cé nulla, di riferimenti immediati nemmeno, di ideologia nel senso stretto del termine, neppure. É la storia dell'educazione sentimentale e alla vita di un ragazzo nella Londra del 1916-17: «Mai si era chiavato così tanto!...», sintetizza il suo autore...
Che amici e nemici ne venissero colti in contropiede, è più che comprensibile. Parigi bruciava, le armate si attrezzavano per il gran finale, i regolamenti di conti si annunciavano, le liste di proscrizione si preparavano e lo scrittore più impegnato di Francia (a suo modo, certo, da artista e non da pensatore, individualmente e non in maniera organica, da solitario avversario d'ogni chiesa, partito, gruppo, redazione...) se la filava all'inglese a parlare di macrò e di puttane, del West End e di inventori pazzi, della mafia dei docks e della nebbia, del fascino del mare e della fascinazione del sesso...
Già, perchè la Londra di Céline è il tuffo all'indietro in un periodo magico, quando il ventenne corazziere mutilato ma uscito vivo dalla Grande guerra si ritrova nella capitale britannica a lavorare per il consolato francese. Qui trova il tempo di sposarsi con una entraîneuse e di fare un pò il magnaccia, di frequentare cabaret e music-hall e di imparare i primi rudimenti della medicina... É una sorta di continua festa mobile, al riparo dagli orrori e dove si dispiega tutta la forza della giovinezza. E è una Londra ricreata magistralmente, con i nomi esatti ma geograficamente falsi, scelti per il loro suono e non rispetto alla toponomastica, dove Shakespeare tiene banco nella caratterizzazione dei personaggi, il comico vince sul tragico e la magia di porti, fiumi, navi invita alla fuga. Il trionfo del sogno, perchè «la verità è la morte» e gli uomini «la strage ce l'hanno nel sangue». «L'emozione è tutto nella vita / Bisogna saperne approfittare! / L'emozione è tutto nella vita / E quando siete morti è finita!».
Eppure, la scrittura ha le sue ragioni che la ragione non conosce. La redazione di Guignol's Band I copre gli anni che vanno dal 1940 al 1944, scorre cioè parallela al Céline che interviene, scrive, polemizza, ha un suo ruolo e un'autorità pubblici. La penuria di carta fa sì che sullo stesso foglio un verso sia usato per un rabbioso o ironico intervento ideologico, l'altro per il romanzo in corso. In quell'arco di tempo c'è posto per Les beaux draps, scritto al fulmicotone impregnato dell'umore dell'epoca e per Scandale aux abysses, balletto marino che racconta amori e dolori di uomini e divinità.
C'è di più. Se la redazione materiale è di allora, l'idea è di sempre. «Infanzia. Guerra. Londra», è lo schema che ha davanti mentre scrive il suo secondo romanzo, Morte a credito, e che persegue fino a quando la realtà più impietosa (il carcere, l'esilio, la condanna in contumacia, il distacco dai fondamenti stessi della sua estetica: la sua lingua, la sua terra) rendono definitivamente impossibile la fuga all'indietro nell'immaginazione. Casse-pipe, che avrebbe dovuto dar conto del Ferdinand soldato, resta incompiuto; Guignol's Band II non arriva alla revisione definitiva. Biogarfo infedele e fantasioso di se stesso, Céline capisce che un ciclo narrativo di vita si è chiuso e un altro ne ha preso il posto. Non c'è più spazio, né tempo, per raccontare gli eccessi della giovinezza: più incalzanti e più necessari sono ormai gli anni della maturità.

É un cambio di prospettiva che nelle lettere scritte a Marie Canavaggia si avverte benissimo. Fino al 1943-44 Céline è un lottatore nonostante tutto. É all'offensiva, combatte per non soccombere. Dopo lo sarà malgrado tutto. É uno sconfitto, combatte per risuscitare.
«I critici dicono sempre fesserie. Giornalisti innanzitutto, lavorano di chiacchiere, piccoli ricatti... Ci vorrebbe qualcuno che si decidesse a coprirmi di sputi... questa loro moderazione è banale... e si dimentica presto. La gente è sadica, vigliacca, invidiosa, distruttrice. Ha bisogno di sentire il saccheggio, lo spappolamento, altrimenti non ci sta...». É una frase del 1936, quando Céline teme e aspetta le reazioni all'uscita di Morte a credito. Tre anni dopo, a guerra ormai dichiarata, il suo disgusto raggiunge il parossismo. «Bisogna vedere gli uomini come cani. Ciò che fanno, abbaiano, ringhiano, squartano, spiritualmente non significa niente, meno che zero... Purtroppo ci toccano le conseguenze materiali... ma moralmente cani, niet'altro che cani. Tutto è permesso, insomma, per evitare i loro morsi e ingannarli e aizzarli in modo che si sbranino fra loro... Meglio dimenticare tutto, mascherare in musica l'orrore del vivere.. Vado a Marsiglia. Sono risoluto a imbarcarmi... Non è più tempo di discussioni... ».
Negli anni di guerra il tono è questo, il tono di chi ha previsto il disastro, ma rimane egualmente colpito da ciò che da esso si sprigiona, il rancore sordo, come fiele; di chi accetterebbe anche «un pò di sano luciferismo» e si imbatte invece nei «rentiers d'horreur»; di chi nel «declino di un'intera razza» vede scomparire le «ragioni del vivere».
Quando l'uragano termina, Céline è un uomo finito. É in fuga, si nasconde, non sa cosa l'attende. «Una civiltà sta morendo in malo modo. Che il diavolo mi fulmini se mi occuperò ancora di lei». «Come rimpiango di non essere comunista. Ho perduto tutto per gli interessi, la difesa di questa borghesia infetta. Cornuto e mazziato che sono! C'è da vomitare!»
Con Marie, che la lontananza ha reso gelosa, che nei primi tempi vede più il romanticismo dell'esiliato che non la realtà del braccato (dopo pochi mesi Céline verrà arrestato), è dolcemente o amaramente sferzante. «La vostra lettera mi carica di complicazioni sentimentali. Sono più semplice, Marie, e più vecchio anche, è passato per me quel tempo. Voi chiedete a un mutilato di giocare a bocce». E ancora: «Siete viziosa, Marie, complicate le cose. Ai tempi di Londra vi avrei fatto ruotare nelle peggiori sardanapalerie e ne sareste uscita semplificata, libera, guarita e non meno affascinante, intelligente e sensibile di come siete». Ma è ancora lei che lentamente riannoda i fili editoriali destinati a lungo a spezzarsi, che tiene i contatti, che invia riviste, libri (denaro mai: «Preferirei crepare che ricevere un centesimo»), cartine geografiche, che corre in soccorso quando allo scrittore, isolato, cominciano a venir meno le parole (come si dice in francese questo termine, le scrive inviandole il disegno del moschettone a cui si aggancia il guinzaglio del cane...).
Nelle lettere vengono fuori anche tutti i grandi temi dell'autodifesa che Céline elabora per gli anni a venire. Negazione assoluta di ogni contatto con l'occupante tedesco e di qualsiasi ruolo nelle file collaborazioniste, gigantesca chiamata di correo nei confronti del Tout Paris intellettuale e mondano che l'«occupazione» accettò e sostenne spesso di buon grado; elevazione di se stesso a capro espiatorio (con l'antisemitismo equiparato all'anticelinismo...); la sua rivoluzione stilistica vista come fonte di disgrazie, molla del risentimento e dell'odio del mondo culturale nei suoi confronti... L'armamentario, insomma, con cui mischiando mezze verità, bugie e reticenze viene messa a punto la leggenda dello scrittore puro, interessato solo alla sua arte, vittima delle circostanze. Ma è anche vero che solo la consapevolezza del proprio genio e un odio assoluto per chi lo vuole vedere a terra, gli permettono in quel «tempo del disprezzo» che si trova a affrontare, di continuare a crescere, di vendicarsi e di riaffermarsi creando. Non c'è spazio per gli altri, non c'è tempo per gli esami di coscienza... La sgradevolezza, l'egoismo, il cinismo sono le armi con cui i grandi difendono se stessi dagli assalti della normalità. «Sono al lavoro, ma questa trasposizione mi fa crepare... So bene dove voglio andare a parare... ma è pieno di liane... bisogna abbattere... e poi riannodare... un sentiero... poi un ponte...è la foresta tropicale... si riforma dietro di noi... É un incubo. Ah, lavoro nell'odio e con odio. Questo stare ai remi, navigando sull'inchiostro per portare agli altri il sogno! Il pubblico... L'affogherei nell'inchiostro». La scrittura come dannazione. Benedetta... maledetta.
Dall'esilio danese del dopoguerra alla morte, il primo luglio del 1961, passano nemmeno quindici anni, quanto basta però per riportare sulla scena letteraria, e non solo, il più odiato, esecrato, ingiuriato, calunniato autore del '900. Un arco di tempo breve, ma sufficiente per la più incredibile rinascita artistica del nostro secolo, una specie di doppio salto mortale, carpiato, con avvitamento, al termine del quale un nome dimenticato risorge a gloria di Francia, degno della Pléiade, opera omnia (o quasi), in carta riso, con tanto di note, notizie e varianti al testo , glossarietti e appendici, legioni di specialisti al lavoro, lettori fedelissimi, maniacali addirittura, esemplari casi clinici nel loro amore privo di qualsiasi pudore, pronti a scusar tutto, anche il non scusabile, a spiegare ogni cosa, anche l'inspiegabile...
Impresa disperata, e disperante, ché l'uomo Céline non era - non è- facile da amare. E del resto lui stesso sarebbe stato il primo a ritrarsi inorridito di fronte a una simile pretesa. Impresa disperata, e disperante, oltretutto, perchè di rado in una sola persona si concentrerà una tale capacità affabulatoria e bugiarda, sempre tesa a distorcere la realtà, a forzare la verità, a riscrivere la vita; la propria, quella altrui.
Un fiume in piena di bugie, così si presenta l'autobiografia celiniana: bugie piccole e grandi, innocue e meschine, puerili e ben costruite, quasi mai frutto di un'invenzione totale, di un falso assoluto, quasi sempre basate su un'operazione di sottrazione o di accumulo dell'esistente, del dato di fatto, dell'accaduto. Di estrazione piccolo-borghese, con tracce pregresse di nobilato locale, fra le quali i Des Touches del cavaliere omonimo celebrato da Barbey d'Aurevilly, eccolo costruirsi un'identità proletaria e/o popolare: scrittore del popolo, figlio del popolo, voce del popolo.
E certo, di povera gente, di emarginati, di sfruttati, di operai e di falliti, di miserabili ha avuto frequentazione: li ha incrociati da ragazzino, li ha avuti come commilitoni da soldato, come compagni di lavoro in Africa, come pazienti nel dispensario di Clichy. Li ha conosciuti, li ha studiati, li ha registrati nel grande libro della memoria; ma non è mai stato uno di loro.
Invalido di guerra, potrebbe orgogliosamente mostrare le mutilazioni, le decorazioni, gli articoli di stampa per raccontare il suo coraggio. Non gli basta: al braccio martoriato deve aggiungere una trapanazione del cranio mai avvenuta; e trasformare, lavorando di colla e di forbici, resoconti giornalistici in copertine a lui dedicate. Medico di base, non sa resistere all'idea di arricchire il proprio curriculum con esperienze presso le officine Ford, negli Stati Uniti, da lui appena visitate. E dietro il cliché del «dottore dei poveri» fatica a scomparire il bell'uomo alto più d'un metro e ottanta, che indossa abiti di buon taglio e stoffa inglese, biondo e con gli occhi azzurri, che conosce il mondo e il bel mondo, uno che a Ginevra come a Vienna, a New York come a Londra, sa dove andare, come muoversi, cosa vedere, a proprio agio con pianiste come Lucienne Delforge, con scultrici come Louise Nevelson, con figlie della buona borghesia di provincia come Edith Follet, la sua prima moglie.
La falsificazione, meglio, la riscrittura di se stesso è sistematica, non riguarda solo pubblico e critica, ma avvolge amici e parenti. Il passaggio dalla Germania in fiamme alla Danimarca dove si troverà intrappolato, dura tre giorni. Ma nel raccontarlo a interlocutori fidati, eccolo trasformarsi in un'epopea di tre settimane... L'arresto nella casa di Karen Jansen, l'amica danese che lo ospiterà a Copenhagen, un modesto episodio di polizia, con Ferdinand che non apre perchè teme che dietro la porta ci siano dei comunisti venuti per assassinarlo, diventa una sorta di Helzapopping sui tetti, lui e Lucette in fuga fra lucernari, proiettili che fischiano, urla minacce... L'amico Robert Poulet chinerà pietoso il suo sguardo su quella povera testa di trapanato di guerra: perchè Ferdinand è riuscito a convincerlo di una cicatrice che non c'è...

Il gioco del vero-non vero, del verosimile che si trasforma in reale, del reale che diviene inesistente, tiene botta anche di fronte all'accusa che nell'immediato dopoguerra lo bolla a fuoco: collaborazionista. Oggi noi sappiamo, sulla base di documenti, di ricerche d'archivio, di riscontri incrociati, di epistolari rimasti a lungo sepolti, che quella qualifica era pertinente. Céline «collaborò», non si limitò a scrivere qualche lettera ai giornali: rivendicò l'aver capito prima degli altri il disastro che si preparava per il suo Paese; rivendicò l'aver chiesto un'alleanza franco-tedesca; rivendicò la necessità di uno scontro all'ultimo sangue contro bolscevismo e democrazie liberali; rivendicò una linea di condotta recisa contro gli ebrei; auspicò una Francia razzialmente pura, nordica, separata geograficamente dal suo Sud meticcio e mediterraneo... Scelse con attenzione i giornali dove far apparire le sue provocazioni, ne seguì la pubblicazione, se n'ebbe a male quando qualche frase troppo forte gli venne tagliata, polemizzò aspramente. Fra il '41 e il '44 scrisse trentuno lettere (e sei non vennero pubblicate perchè ritenute «eccessive»), rilasciò undici interviste, ripubblicò i suoi pamplet, partecipò a conferenze, tenne contatti con le autorità tedesche. E però aveva qualche fondamento di verità la sua linea di difesa del «non aver collaborato». Perchè non fu nel libro paga di giornali o movimenti, perchè la critica militante nazista trovava troppo nichilista il suo pensiero, perchè in sedute conviviali più o meno pubbliche la sua vena esplodeva sinistra, prefigurando scenari catastrofici e rese dei conti epocali, perchè si adoperò per salvare qualche vita e omise di denunciare qualche gollista poco smaliziato, e perchè alla fine sembrò che con i tedeschi avesse fornicato solo lui.

Il Céline che nell'estate del 1950 rientra in Francia dopo cinque anni di esilio forzato in Danimarca, inaugura l'ultimo, geniale travestimento, l'ultima grande interpretazione di uno scrittore risentito contro tutto e tutti, pieno di rabbia verso il suo Paese eppure troppo francese per potersene separare. Anche qui, il personaggio che dopo una «quarantena» di qualche anno riprenderà a tenere banco fino alla morte, è in parte vero e in parte costruito, frutto di un accorto dosaggio di verità e finzione. Certo, in terra danese Céline ha sofferto, è stato imprigionato, s'è ammalato, il fisico ha ceduto e il vigore e le baldanza di prima della guerra sono un tenue ricordo. Eppure, se si va a fare un conto spassionato, di galera vera ha fatto sei mesi, i restanti sei li ha passati in ospedale... Certo, è un uomo economicamente rovinato, rispetto alle possibilità economiche di prima della guerra: i suoi libri non si ristampano, e quando cominciano a essere ripubblicati non si vendono... Eppure, la casa di Meudon, dove va a vivere, viene a costare due milioni e passa di franchi dell'epoca (pagati vendendo le proprietà della moglie), Gallimard garantisce un anticipo pari a 300 milioni di lire di oggi, l'oro che lo ha preceduto nella fuga e che non è stato requisito dai tedeschi gli ha consentito di sopravvivere e pagarsi più d'un avvocato...
Di nuovo, insomma, il confine fra realtà e finzione è incerto, nebuloso fonte di errori. Chi è portato al compatimento si ritrova spesso e volentieri scavalcato dall'accorgersi che l'oggetto compatito in realtà calcola, sorveglia, non sbaglia una mossa, piange a comando, insulta e si ritrae. Chi vorrebbe smascherare il vecchio gigione, scopre orgogli insospettabili, nobiltà di comportamenti, suprema indifferenza per «valori» allora (come oggi) alla moda: il successo, gli agi, le comodità...
Ciò non toglie che Céline che recita Céline sia uno spettacolo. E non per nulla Gen Paul, l'amico pittore della Butte, il gemello di Ferdinand nella Montmartre degli anni Trenta e Quaranta, trovava in lui una straordinaria rassomiglianza con il grande Louis Jouvet della Comédie française. Chi ha presente, attraverso le fotografie e le descrizioni, l'immagine del Céline circondato da cani e gatti, con il pappagallo Toto sulla scrivania, il foulard al collo, i pantaloni tenuti su da una corda, troppo larghi e troppo corti, i maglioni infilati l'uno sull'altro, la fronte solcata dalle rughe, la barba lunga e legge qualcuna delle interviste da lui rilasciate nel dopoguerra può farsene un'idea. Quei suoi n'est-ce pas cadenzati, quei suoi alors, bon, bah bah, non non non non, quel suo monologare apparentemente senza un filo conduttore, quel suo mischiare generi, quei suoi paragoni bizzarri, quei suoi sotterfugi ideologici. E tuttavia, chi non ha mai visto una ripresa televisiva con Céline nelle vesti di attore-protagonista non sa che cosa si è perduto. Le braccia e le mani tenute composte, immobili, come fossero di cera, un filo di voce iniziale, la testa piegata di lato, una specie di morto che parla. Poi, a poco a poco, il miracolo: il morto si rianima, gli arti si dimenticano d'essere come paralizzati, l'eloquio si fa più sicuro, i rari sorrisi lasciano il posto a un riso più disteso, il racconto s'impenna, fra sottolineature, imitazioni, libere interpretazioni. Riappare l'ombra del «Diavolo» che fu, quello che teneva banco fra atelier di pittori e bistrot di avenue Jounot e place du Tertre, quello che incantava e spaventava le signore, faceva ridere gli amici oppure scatenava interminabili risse verbali...
L'ultimo Céline ha un solo scopo, dichiarato anche se nel contempo negato e/o minimizzato. Riottenere quella dignità di scrittore liquidata come indegna alla luce del periodo collaborazionista. Della propria grandezza era stato consapevole fin dall'inizio, allorché, lasciando il dattiloscritto del Voyage da Gallimard, nel biglietto di presentazione aveva fatto notareche lì c'era «pane per un secolo intero di letteratura. E il premio Goncourt 1932 comodo comodo per il Felice Editore che saprà accettare questa opera senza pari, questo monumento capitale della natura umana»... Adesso, però, la partita appare difficile: sono tutti lì col fucile puntato, a aspettare il passo falso, il vagito, o grugnito, ideologico, per ricacciarlo nel girone dei dannati della scrittura. E perfino gli altri «dannati» come lui, lo aspettano al varco: vogliono vedere se rinnegherà, se farà pubblica abiura. Sanno benissimo che è di una pasta diversa, che il suo individualismo esasperato lo ha di fatto collocato altrove rispetto a loro, ma, volente o nolente, è dalla parte dei vinti che alla fine si è trovato e è anche dai vinti che dovrà essere giudicato.
Rivendicando a sé l'invenzione di una «petite musique», una piccola musica dello stile, Céline riesce a sfuggire sia ai primi, sia ai secondi, a ridursi per meglio ingigantirsi. Non ci si lasci ingannare da chi dando alla lingua di Céline, alla modernità del suo linguaggio un valore di pura sperimentazione, separa lo stile dal contenuto. Al contrario, Céline scrive in quel modo perchè dietro quella scrittura si cela una Weltanschauung dove l'emozione, l'irrazionale, il fantastico, il primordiale sono gli elementi fondanti. É il rimpianto e l'esaltazione di un mondo non dominato dalla ragione né dal progresso, dove l'istinto vince sul costruito, dove la bellezza fisica rimanda a uno stato di grazia premoderno quando la spontaneità, il naturale erano i cardini dell'esistenza. Per ricostruire questo stato dell'essere e del sentire, l'unico modo è sventrare una lingua francese cartesiana, illuminista e illuminata, fiera della sua chiarezza quale negli ultimi tre secoli almeno è andata formandosi. Céline usa l'ariete dello stile non per andare avanti, ma per tornare indietro. «Il fondo dell'Uomo malgrado tutto è Poesia. Il ragionamento si apprende, così come si impara a parlare. Il bebè canta, il cavallo galoppa, il trotto è di scuola... Tutto il mio lavoro è consistito nel cercare di rendere la prosa francese più sensibile, tesa, precisa, sferzante e cattiva, iniettandole un linguaggio parlato, il suo ritmo, il suo tipo di poesia e di tenerezza malgrado tutto».
Una volta innalzato il proprio monumento stilistico, alle possibili trappole ideologiche Céline risponde glissando, deviando, attaccando: «Sono un patriota sfrenato in un Paese di degenerati, lacchè e bastardi. Si tratta di ben altra cosa che tradimento, è precisamente il contrario. Sono gli altri, tutti gli altri, che galoppano urlando dietro la bandiera, gareggiando per farsi inculare dal miglior offerente. Per essi il mio caso è inespiabile». «Ci si accanisce a volermi considerare un massacratore di ebrei. Io sono un preservatore accanito di francesi e ariani e contemporaneamente, del resto, di ebrei...Ho peccato credendo al pacifismo degli hitleriani, ma lì finisce il mio crimine». Trasformato l'antisemitismo in pacifismo, scolorato piuttosto che negato, orientato in maniera diversa, ecco allora che l'unico vero ebreo, umiliato, offeso e perseguitato in fondo è propro lui. Ennesima trasformazione dove verità e menzogna si fondono al servizio di un genio fulminato.

Il fatto è che bisogna leggere o rileggere Céline, il biologo Céline, il razzista Céline, l'estremista Céline, l'irrazionalista Céline, il nicciano Cèline (nel suo Cèline écrivain Anne Henry ne dà una icostruzione esemplare e sfata una volta per tutte la leggenda di uno scrittore esagerato, senza basi filosofiche) se si vuol sapere qualcosa di più, e di più vero, sulla natura umana, sui suoi abissi di mostruosità, sui suoi deliri di grandezza, sui suoi istanti di dolcezza, sulla miseria del vivere e sulla certezza spaventosa del morire. Lì dove tacciono tutte le anime belle del pacifismo, dell'eguaglianza, della solidarietà, annichilite dall'orrore, incapaci di andare al di là dell'esecrazione e della condanna, ecco levarsi la sua voce per dirci che anche questo, è la vita.
Chi voglia capire che cosa da qualche anno ormai stia succedendo nei Balcani, nelle ex provincie dell'ex impero sovietico, in Medio Oriente, si vada a prendere i romanzi che Céline scrisse fra il 1957 e il 1961: Da un castello all'altro, Nord, Rigodon... Lì c'è tutto: la guerra come migrazione di popoli, il passato riscritto a seconda di chi vince, i bombardamenti come scienza, l'arrangiarsi fra le rovine, la canaglia che trionfa, la selezione naturale, i tradimenti, le delazioni, le menzogne, il disfrenarsi dei sensi, la voglia disperata di sopravvivenza e l'impulso irresisitibile alla distruzione, la tragedia annodata alla buffoneria, l'esplosione totale di un mondo - monumenti, leggi, vincoli, decreti, usi e costumi, tic e tabù - e la sua rimessa in forma, pezzo per pezzo, frantume per frantume con il Senso della Storia che si incarica poi di spiegare, di razionalizzare, di raccontare il perchè e il percome la Civiltà d'improvviso diventi Barbarie...
Nella Trilogia del Nord, una volta cambiate le date e gli scenari geografici, tutto il resto è di straordinaria attualità. «Pulizie etniche», la maledizione dei cecchini, il susseguirsi di ordini e contrordini, l'assurdità di avanzate e di ritirate, la paranoia delle gerarchie, la convivenza con il sangue, l'anormalità assunta come norma di comportamento, il sesso che diventa arma e commercio, premio e punizione, oasi e delirio, l'esistenza quotidiana che continua nonostante tutto, come le oche a cui tagli la testa ma che per impulso animale seguitano a camminare.
Cantore, di parte, di un continente messo a ferro e fuoco in un epocale regolamento di conti, sotto le mentite spoglie del cronista Céline racconta la fine di un'idea di Europa cui ha creduto e per la quale si è battuto: razziale, antidemocratica, panica e pagana, antimoderna e mitica. C'è del metodo in questo scrittore fintamente istintivo: c'è la consapevolezza e la volontà di opporre a un sistema di valori che detesta una visione del mondo in cui bellezza, purezza, perfezione fisica, emozione diano un senso al non senso della vita.
E ha ragione Henri Godard, il maggior specialista letterario di Céline a notare che il nichilismo celiniano va rovesciato, perchè in lui «è proprio l'idea della morte a fondare un valore principale che consiste, precisamente, nel lottare contro la morte, in un combattimento che si sa perdente ma che basta a dare un senso alla vita. Non potendo trionfare su di lei, è possibile tentare di ritardarla, e anche di opporle qualcosa su cui non abbia presa».
Scrittore antimaterialista, Céline cercò di combattere il materialismo usando uno strumento, la razza, altrettanto materiale e, come tale, incapace di cogliere differenze di valori e di sensibilità. Le Lettres des années noires che Philippe Alméras ha pubblicato in Francia fra mille polemiche, sono da questo punto di vista esemplari. L'ideale ariano, che Céline propugna fino a voler dividere la Francia in due, una suralgerina, l'altra nordica, e che altri si incaricheranno di mettere bestialmente in pratica, si trasformerà in beffa allorchè, dopo essere stato imprigionato in Danimarca, si troverà a scrivere: «Merda agli ariani. Durante 17 mesi di cella non un solo dannato fottuto dei 500 milioni di ariani d'Europa ha emesso un gridolino in mia difesa. Tutti i miei guardiani erano ariani!» Quando si predica la purezza c'è sempre qualcuno che si crede più puro di te.