lunedì 28 dicembre 2009

Céline gatto randagio



Riceviamo da Marina e pubblichiamo volentieri questa immagine della premiazione del suo "Céline gatto randagio" (segnalata tra l'altro sul Bulletin Célinien di questo mese)...

Un bel ricordo di Giorgio Celli che, benchè ammalato, ha voluto esserciper parlare della Donazione di Giordano Alberghini alla Biblioteca diFiesole e del mio libro su Céline .Io sono l' ultima a destra, la giaccagialla è l' assessore alla Cultura Becattini. I libri sull' estrema destra. Auguri a tutti
Marina


...e Auguri di Buone Feste anche da parte mia!!!

mercoledì 16 dicembre 2009

L’ultimo Bolaño, innamorato di Céline


L’ultimo Bolaño, innamorato di Céline


| Cultura | Giordano Tedoldi
Pubblicato il giorno: 15/12/09 Libero-news


Dalla morte avvenuta nel 2003, la considerazione critica e l’interesse per la vita e l’opera dello scrittore Roberto Bolaño, nato nel 1953 a Santiago del Cile, continua a intensificarsi. L’autoritratto dello scrittore, che pure detestava il genere autobiografico sopra ogni cosa, si precisa con la recente pubblicazione delle sue ultime interviste, uscite in Inghilterra per i tipi dell’editore Melville House con il titolo Roberto Bolaño: The Last Interview, frutto delle conversazioni con la giornalista Monica Maristain su e giù per l’America latina, mentre Bolaño, consapevole della fine imminente per una grave patologia al fegato, portava a compimento il gigantesco 2666 (da poco pubblicato in Italia in una nuova edizione da Adelphi) il romanzo estremo, riassuntivo di tutta la sua poetica.

Desiderio segreto
Nelle interviste con la Maristain dichiarava: «Avrei preferito fare il detective piuttosto che lo scrittore». Ma nel 2002, con la giornalista Carmen Boullosa per la rivista Bomb, deponeva la maschera surreale e irriverente per rivelare i suoi gusti e le sue idiosincrasie letterarie: «Sono molto interessato alla letteratura americana del 1880, specialmente Twain e Melville. E la poesia di Emily Dickinson e Whitman. Mentre da adolescente ho attraversato una fase in cui leggevo solo Poe». E a gennaio Adelphi pubblicherà Tra parentesi (pp. 320, traduzione di Maria Nicola), antologia di interventi per giornali e riviste, saggi, discorsi, in cui Bolaño scrive: «Tutti gli scrittori americani, inclusi quelli che scrivono in spagnolo, a un certo momento delle loro vite colgono all’orizzonte i bagliori di due libri, che sono due strade, due strutture e due argomenti. A volte: due destini. Uno è Moby Dick di Melville e l’altro Le Avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain». L’ammirazione per Twain è così grande che aggiunge: «Tutto quello che hanno scritto Faulkner e Hemingway, e tutto quello che avrebbero voluto scrivere, può stare in una pagina di Huckleberry Finn». Mentre William Bourroughs «è un santo che ha avvicinato tutta la malvagità del mondo perché aveva la delicatezza e l’imprudenza di non chiudere mai la porta». Ma il detective mancato che era in lui lo spingeva a divorare anche la letteratura hard-boiled di Raymond Chandler e Dashiell Hammett, mentre nella fantascienza di Philip K. Dick vedeva «un profeta all’opera».

In un saggio dal titolo Consigli sull’arte di scrivere racconti Bolaño elabora un manuale in dodici punti. Al numero quattro: «Occorre leggere Juan Rulfo e Augusto Monterroso». Monterroso (1921-2003) era uno scrittore guatemalteco famoso per il racconto Il Dinosauro, il cui testo completo è: «Quando si svegliò, il dinosauro era ancora là». Lo stesso Monterroso ricordò che i critici lo attaccarono, dicendo che Il Dinosauro non era un racconto e lui rispose: «No, infatti, è un romanzo». Ma torniamo al manuale di scrittura di Bolaño. Al numero dieci: «Pensa bene al punto nove. Pensa e riflettici. Hai ancora tempo. Pensa al punto numero nove. Nella misura in cui ti è possibile, fallo in ginocchio».

Grande amore anche per la letteratura francese, da Voltaire ai surrealisti. «Mi piace Pascal, il suo modo di affrontare la morte, la sua lotta contro la melanconia. E l’ingenuità utopistica di Fourier. E tutta la prosa, tipicamente anonima, degli scrittori di corte, anatomisti, manieristi, che conduce alle interminabili caverne del Marchese de Sade». Il Dizionario Filosofico di Voltaire è giudicato «uno dei pochi libri che mi hanno cambiato la vita». Mentre tra i moderni l’opera più importante è Nadja di André Breton, il cui manifesto surrealista ispirò a Bolaño il proprio «manifesto infrarealista».

Radicale il giudizio su Céline: «È l’unico autore di cui penso che sia stato al tempo stesso un grande scrittore e un figlio di puttana. Proprio un essere umano abietto. Si stenta a credere che i suoi momenti più gelidamente ripugnanti sembrino coperti da un’aura di nobiltà, il che si può attribuire solo alla potenza delle parole». Bolaño era anche un vorace lettore di filosofia, specialmente i lapidari aforismi di Wittgenstein (il cui Tractatus giudicava tra i 5 libri più importanti di sempre) e del misconosciuto filosofo tedesco del ’700 Georg Christoph Lichtenberg, le cui massime «giocano con l’umorismo e la curiosità, i due elementi più importanti dell’intelligenza. I suoi aforismi anticipano Kafka e la migliore letteratura del ventesimo secolo». E c’è da credergli, incontrando perle come questa: «Non c’è merce più strana dei libri: stampati da gente che non li capisce, venduti da gente che non li capisce, rilegati e recensiti e letti da gente che non li capisce, e ora persino scritti da gente che non li capisce». Non per caso Bolaño lo definiva l’autore «di un capolavoro di commedia nera».

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Céline come al solito fa sempre discutere: come vorremmo che fossero rispettate le idee del Nostro, rispetteremo ovviamente il parere espresso da Roberto Bolaño del Céline "uomo"... anche se temiamo che il giudizio di Bolaño, come spesso accade, sia riferito più ad una "idea" di Céline, che non alla reale biografia dello scrittore francese.

Andrea

mercoledì 2 dicembre 2009

Céline medico e bohemienne...



...di Romano Guatta Caldini, da "Il Fondo Magazine"

«Si adagia la sera su tetti e lampioni e sui vetri appannati dei bar» cantava Capossela nella sua Modì, la canzone dedicata ad Amedeo Modigliani e ai suoi anni folli a Montparnasse, il rifugio di «pittori ciechi, musicisti sordi, giocatori sfortunati e scrittori monchi», per citare Piero Ciampi, uno che la Parigi dei maudits l’aveva conosciuta bene. Da quelle parti, il cantautore livornese, durante uno dei suoi tanti vagabondaggi alcolici, conobbe uno strano personaggio, un uomo scontroso, come tanti se ne potevano trovare in giro per i bistrots. Solo tempo dopo, Ciampi seppe che quell’uomo era uno dei più grandi scrittori di Francia, forse il più grande; si trattava di Louis-Ferdinand Céline.

Quando avvenne l’incontro, tra l’autore di Adius e quello di Voyage au bout de la nuit, era la seconda metà degli anni ’50 del secolo scorso. Mentre per Ciampi, la vita fra le ambientazioni baudeleriane, rappresentò solo un excursus, per Céline, la vita da bohemienne parigino non era di certo una novità. Nel periodo fra il ‘26 ed il ‘30, infatti, l’esistenza di Céline aveva già iniziato ad assumere i tratti tipici del maledettismo. All’epoca, il futuro romanziere era solo un medico squattrinato, con il vizio della scrittura e perennemente circondato da amici stravaganti. Tra questi, il più caratteristico fu sicuramente il pittore Henri Mahé, una sorta di vagabondo della Senna, che viveva, nottetempo, su di una chiatta semovente. Abitazione mobile, che spostava a seconda dell’umore: «Ho sempre fuggito – dirà Mahé – la bohème alcolizzata degli artisti fossilizzati (…) io preferisco fare un salto da carpa nella Senna, è meglio per i miei gusti da aristoanarchico. » Certo, l’umore aveva il suo peso ma anche le retate della gendarmeria contavano, non poco, sulla dislocazione del barcone. L’artista, infatti, era solito dare ospitalità a prostitute, artisti dalla dubbia moralità e delinquenti di ogni sorta. In questo ambiente, Céline imparò il linguaggio spurio della mala, gergo che, tras-posto su carta, fece la fortuna del gatto randagio della letteratura francese, come lo ha definito Marina Alberghini, nel suo monumentale Louis-Ferdinand Céline – Gatto randagio, edito da Mursia.

Lo slang da strada, usato dal romanziere nelle sue opere, ha portato molti critici a dire che Céline sta alla scrittura, come il jazz sta alla musica. Ed era proprio il jazz a far ballare gli ospiti durante le feste in maschera date da Mahé sul suo barcone. Veri e propri baccanali presieduti da Céline, a suon di rigolade, termine difficilmente traducibile, una specie di risata dissacrante e strafottente, simile al me ne frego di mussoliniana memoria. Durante le feste era facile imbattersi in personaggi come Dréna, vedette del Marigny ed ex amante di Al Capone, la caritatevole Germaine Costant, il clown Baby il Magnifico ma anche personaggi più pittoreschi come il principe Alberto d’Urach. Una tribù folle e gioiosa, che cercava nell’ebbrezza della bohème, il modo per soffocare i ricordi, atroci, del primo conflitto mondiale. In questo periodo, Céline incontrò Joseph Garcin, un ruffiano che gravitava e trovava assistenza, presso artisti e letterati. A quest’ultimo Céline annunciò l’avvenuta composizione del Voyage: «Ho scritto un romanzo, qualche esperienza personale, messa nero su bianco, un po’ di follia anche, lavoro enorme… Su tutta la guerra, da cui nasce tutto».

Nel ’27 il romanziere aveva trovato domicilio a rue Lepic 38, a Montmartre, il quartiere che Utrillo, a suo tempo, fra un bicchiere e l’altro, rappresentò in tutta la sua devastante semplicità. Qui, in una cucina arredata alla bretone, Céline scrisse: «dalla rue Lepic si comincia a incontrare gente che viene a cercare della gaiezza sopra la città. (…) Essi si mettono a guardare in basso la notte che fa il gran vuoto pesante (…) Noi eravamo giunti alla fine del mondo, era sempre più chiaro. Non si poteva andare più lontano, perché dopo di questo non c’erano che i morti».

Certo, Céline non era immune dallo spirito goliardico che aleggiava a Montmartre ma questo non gli impedì, mai, di venir meno al suo dovere di medico, soprattutto nei confronti di chi un medico proprio non poteva permetterselo: operai sfiancati dal lavoro e abbruttiti dall’alcool, donne la cui femminilità era stata rubata dall’usura della quotidianità e un immane schiera di vagabondi che la tisi aveva piegato. Erano questi i clienti non paganti di Céline, ammassi di carne e ossa la cui sorte era in mano a borghesi senza scrupoli, parenti europei di quel fordismo che lui stesso aveva visto all’opera, durante la sua visita negli stabilimenti automobilistici statunitensi. Per porre un freno, agli effetti funesti, dell’alienazione capitalistica, Céline aveva scritto un trattato di medicina sociale che, nel ’28, presentò alla Società delle Nazioni, senza, naturalmente, ottenere risposta. Anticipando di decenni la lotta alle multinazionali farmaceutiche: «questo abuso stravagante – scrive Céline – che regna attualmente nelle prescrizioni (…) vero massiccio avvelenamento vilmente autorizzato sulle nostre classi sociali più deboli fisicamente e intellettualmente (…) Questa tossicomania popolare, per la tolleranza quasi illimitata delle ricette farmaceutiche, fa molte più vittime, ogni anno, della cocaina o della morfina.» La sua rabbia anti-capitalista, lo portò a teorizzare una medicina del proletariato: « perché si sa perfettamente bene che è il proletariato, disoccupato o no, che è incomparabilmente più distrutto dalla malattia di quanto lo siano i ricchi».

Del resto, Céline aveva sempre avuto un occhio di riguardo per le classi meno abbienti, per i diseredati, un’inclinazione ravvisabile fin dai tempi del soggiorno africano, quando, Guevara – ante litteram, a sue spese, allestì un ospedale da campo per gli indigeni. C’è da dire, che questa propensione, per la difesa dei più umili, lo portò a simpatizzare per il sistema sovietico: « l’igiene massificata si accorda solo con una formula socialista o comunista di stato.» Una frase che, forse, si pentì di aver detto, dato che al ritorno dalla sua visita in U.R.S.S., nel ’36, Céline scrisse il Mea Culpa. Un pamphlet d’accusa, quest’ultimo, sui limiti del comunismo e sulla falsa dicotomia fra il socialismo reale e il capitalismo occidentale, due sistemi e la medesima finalità; affamare e, quindi, piegare il popolo. Questo il romanziere lo capì benissimo; come del resto lo comprese perfettamente anche Fabrizio De Andrè che, nella trasposizione musicale de Il Dottor Siegfried Iseman di Edgar Lee Masters, scrisse: «E allora capii fui costretto a capire, che fare il dottore è soltanto un mestiere, che la scienza non puoi regalarla alla gente, se non vuoi ammalarti dell’identico male, se non vuoi che il sistema ti pigli per fame».


Da: http://www.mirorenzaglia.org/?p=10700
Grazie Miro Renzaglia, a Romano Guatta Caldini, e a Harm Wulf per la segnalazione!

mercoledì 18 novembre 2009

La nostra agente a Meudon fa rapporto...


Route des Garde...


La lapide della tomba Destouches, notare il "19..."



La cassetta delle lettere...

... riceviamo dalla nostra lettrice Valentina un reportage fotografico sulla casa di Lucette e Céline a Meudon, che rivede e corregge quanto qui precedentemente indicato.

Ringraziamo la nostra 007!

Andrea

lunedì 9 novembre 2009

Robert Stromberg: Parlando con Louis-Ferdinand Céline, 1961


Robert Stromberg: Parlando con Louis-Ferdinand Céline
Evergreen Review, N. 19, Luglio-Agosto 1961, New York.

Intervista parzialmente riprodotta, tradotta in francese, sull'Herne; quella che segue è la traduzione integrale, a mia cura... e spero vostro piacere.

È una sensazione stranissima, andare a trovare Céline. Céline il terribile! Céline l’oltraggiato! Céline il capro espiatorio! Céline il Fou!
Céline vive a Meudon, ai margini di Parigi. Vive in una casa del diciannovesimo secolo in legno e malta di tre piani con sua moglie Lucette Almanzor e circa una mezza dozzina di cani, ad occhio e croce. Sua moglie, dice, è la proprietaria della casa.
“Pensavo venisse domani… non l’aspettavo… non ho preparato... pensavo domani… venga, venga” Queste furono le sue prime parole.
Si rivolse a sua moglie dicendole di prendere il mio cappotto, e di darmi una sedia. È un uomo massiccio – ma è piegato. Si mosse lentamente, strisciando i piedi – come se fosse troppo debole per fare altrimenti − verso il lato opposto di una grande stanza, che sembrava combinare cucina, sala da pranzo e studio. Si sedette ad un gran tavolo tondo, spingendo di lato, e a terra, pile di libri, fogli e riviste, e facendo spazio per noi.
“Che volete? A che vi serve? Non voglio scandalo!... Ne ho avuto abbastanza.”
Quando riuscii finalmente a soddisfarlo, si mise a suo agio sulla sua sedia.
“C’è molto interesse su di lei in America”, iniziai.
Scartò la mia affermazione con uno sbuffo e un gesto della mano.
“Quale interesse? Chi è interessato? Alla gente interessa Marlene Dietrich e l’assicurazione – e questo è tutto!”
“Come vi sentite, praticate ancora la medicina?”
“No, non più, ho lasciato sei mesi fa, non sto abbastanza bene”
“I vicini qui vi conoscono come Céline?”
“Mi conoscono quel che basta per non esserne contenti”
E non diede altre spiegazioni.
“Cosa fa per la maggior parte del tempo?”
“Son sempre a casa… i cani… ho cose da fare… mi tengo occupato… non vedo nessuno… non esco… sono occupato”
“Sta scrivendo?”
“Sì, sì, sto scrivendo… Devo vivere, così scrivo… No! Lo Odio! L’ho sempre odiato… è la cosa più terribile da fare, per me… non mi è mai piaciuto, ma sono bravo a farlo… non m’interessa per nulla, quello che scrivo – ma devo farlo. È tortura, è il lavoro più duro al mondo”.
La sua faccia è ossuta, scavata, ed è grigia; e i suoi occhi cose terribili da guardarvi dentro; era rabbioso all’idea di dover ancora lavorare.
“Ho quasi 67… in maggio avrò 67… e questa tortura, il lavoro più duro al mondo…”
Gallimard, il suo editore, ha recentemente pubblicato il suo ultimo libro, Nord.
“È su quanto i tedeschi hanno sofferto durante la guerra”, disse Céline. “Nessuno ha scritto su questo… No! No! non dovresti dirlo, questo, quanto soffrirono… sta buonino… shhh!” Fece il gesto di mettersi il dito sulle labbra. “Non è bello parlare di questo… sta calmo… NO! solo l’altra parte ha sofferto… shhh!”
Tra i libri di Céline tradotti in inglese vi sono Morte a credito, Viaggio al termine della notte e Guignol’s band. Céline è stato accusato da molte persone responsabili di aver scritto degli articoli e pamphlet incendiari e antisemiti durante l’occupazione tedesca della Francia. Questi apparvero in numerosi giornali francesi e fu riferito che furono ristampati dai tedeschi per il pubblico in Germania. I suoi libri, comunque, furono banditi nella Germania nazista. Come risultato di queste accuse, fu costretto a lasciare il paese. Andò in Danimarca, dove visse per sei anni, ma passò due di questi anni in una prigione danese.
“Perché è andato in Danimarca?”
“Là avevo dei soldi. Qua non avevo nulla.”
“È stato costretto a lasciare la Francia… è stato il governo a dirvi di andarvene… o è stata una vostra decisione?”
“Avevano saccheggiato il mio appartamento a Montparnasse…”
“Chi?”
“Dei pazzi, ecco chi… portarono via tutto quello che possedevo, tutto quello che avevo… ero fuori in quel momento, con mia moglie, quando tornammo tutto era distrutto… rovinato… tutto ucciso… andai in Danimarca”

Qualche giorno dopo la mia conversazione con Céline incontrai un ex membro della Resistenza francese, che aveva fatto parte del gruppo di saccheggiatori dei quali aveva parlato Céline. Quest’uomo mi assicurò che se Céline fosse stato in casa quando i razziatori colpirono, quasi certamente sarebbe stato assassinato.
“Perché fu imprigionato in Danimarca?”
“Ero un criminale di guerra”
“Era stato accusato di collaborazionismo?”
“Ho detto criminale di guerra! Non capisce! Criminale di guerra! Non mi si accusava di collaborazionismo… Ero un criminale di guerra! È chiaro questo!”
“Si crede che lei abbia scritto cose contro gli ebrei”
“Non ho scritto nulla contro gli ebrei… tutto quello che ho detto era “che gli ebrei ci stanno spingendo in guerra”, e questo è quanto. Avevano una rogna con Hitler, e non erano affari nostri, non avremmo dovuto impicciarcene. Gli ebrei hanno avuto una guerra di lamentele per due migliaia di anni, e adesso Hitler gli aveva dato causa di altri lamenti. Non ho nulla contro gli ebrei… non è logico dire qualcosa di buono o cattivo su cinque milioni di persone”
Questa fu la fine della discussione su questo tema. Céline tornò in Francia nel 1950, dopo sei tristi anni in Danimarca. Quando ritornò, grida oltraggiate si levarono da numerosi settori della stampa francese e da molti funzionari governativi, che richiedevano altre punizioni. Nulla fu compiuto ufficialmente, ma come accennato da Céline stesso, i vicini esprimevano chiaramente cosa pensavano di lui.
Avevo la sensazione, sedendo nella cucina di Céline, osservandolo e ascoltandolo, che, nonostante tutto quello che diceva, a dispetto della sua naturale rudezza e apparente rifiuto dei contatti personali, fosse felice di aver qualcuno che era venuto a trovarlo, qualcuno che lo ascoltasse e che gli facesse delle domande; di ricordare il passato, che dimostrasse come non fosse dimenticato – che la gente leggesse ancora Morte a credito e Viaggio al termine della notte.
Si discuteva di lui nonostante tutte le difficoltà, e gli odi, e il sapore amaro che lasciava in molti.
Se c’è ancora un qualche spirito in lui, e sembra dubbio, è uno spirito che dice: “Io conosco quale è la musica adatta… io conosco il motivetto giusto… non sentono nulla…”
“Lei disse di non riuscire a leggere dei libri attuali, che erano “nati morti, incompiuti, non scritti…” State leggendo qualcosa, ora?”
“Leggo l’enciclopedia e Punch, e basta. Punch non è divertente, ci provano ma non ci riescono.”
“Non c’è nessuno che lei considera oggi uno scrittore degno di considerazione?” Prima che io potessi suggerirne uno, ribatté: “Chi, Hemingway? È un falso, un dilettante… i realisti francesi del 19° secolo erano un centinaio di volte meglio” E sparò velocemente i nomi di numerosi scrittori francesi, così velocemente che non riuscii a comprenderli.
“Dos Passos ha un bello stile, e basta”
“E Camus?” chiesi innocentemente.
“Camus!” Pensai che mi tirasse un vaso.
“Camus!” mi ripetè, stupito.
“È una nullità… un moralista… sempre a dire agli altri cos’è giusto e cos’è sbagliato… cosa dovrebbero fare e cosa non dovrebbero fare… sposatevi, non sposatevi… questo spetta alla chiesa… è una nullità!”
Céline quindi propose il romanziere inglese Lawrence Durrell.
“Un intero libro su come bacia una ragazza, i diversi modi come può baciare e cosa significano… questo sarebbe scrivere? Questo non è il mio scrivere, è nulla, è uno spreco. I miei libri non sono così, i miei libri sono stile, nient’altro, solo stile. Questa è l’unica cosa per cui scrivere.”
“Chi sa quanti hanno cercato di copiare il mio stile… ma non possono. Non possono riuscirci per quattrocento pagine di seguito, provateci, non ce la possono fare… questo è tutto quello che ho, solo stile, nient’altro. Non ci sono messaggi nei miei libri, quello spetta alla chiesa!”
Sbuffò e fece un gesto noncurante con la mano.
“No, i mei libri saranno presto dimenticati, non significano niente, non cambiano nulla, non serve a nulla…
Sono stato di tutto, un cowboy in America, contrabbandiere a Londra, uno squalo, proprio di tutto. Ho lavorato da quando avevo undici anni. So di cosa si tratta…conosco la lingua francese. Posso scrivere, e basta.”
“Ascoltate la gente parlare in strada… non ha nulla a che fare con i libri… è sempre: “Allora gli ho detto… e lui mi ha detto e allora gli ho detto” – attori, ecco. Tutti vogliono gli applausi. Il vescovo dice: “Ieri ho parlato a duemila persone, domani parlerò davanti a tremila” Questa è la religione! Guardate il papa – quando la gente vede il papa, lo vorrebbero mangiare! È così grasso – mangia troppo, beve troppo…
attori, ecco cosa sono tutti!”
“Alla gente interessano le assicurazioni e il divertimento – tutto qui. Sesso! Ecco dov’è la lotta… ognuno vuole mangiare l’altro… Ecco perchè hanno paura del Negro. È forte! È pieno di energia! Prevarrà. Ecco perchè ne hanno paura… è il suo momento, ce ne sono troppi… mostra i suoi muscoli… l’uomo bianco ha paura… è molle. È stato in cima per troppo tempo… la puzza ha raggiunto il tetto, e il Negro, la sente, la odora, e sta in attesa della vittoria… non ci vorrà ancora molto.”
“È il tempo del colore giallo… il nero e il bianco si mischieranno e il giallo dominerà, ecco. È un dato di fatto biologico, quando bianco e nero si mischiano, il giallo ne esce più forte, questa è l’unica cosa… tra duecento anni qualcuno guarderà la statua di un uomo bianco e chiederà se una cosa così strana fosse esistita realmente… e qualcuno risponderà: “Ma no, deve essere stata ridipinta”.
“Questa è la risposta! L’uomo bianco appartiene al passato… è già finito, estinto! È il turno per qualcosa di nuovo. Qua tutti parlano, ma non sanno nulla… lasciateli andare laggiù, e vedrete che le chiacchiere sono tutt'altra musica là, sono stato in Africa, so com’è, so che è molto forte, sanno dove stanno andando a finire… l’uomo bianco ha seppellito la sua testa troppo a lungo nell’utero… ha lasciato che la chiesa lo corrompesse, tutti si son fatti tirar dentro… non ti è permesso di dire questo… il papa ti guarda, stai attento… non dire nulla! Il cielo lo proibisce… NO! È un peccato… sarai crocifisso… stai a cuccia… sta buono… non abbaiare… non mordere… ecco la tua pappa… zitto!”
“Non c’è niente dentro di loro… sono come dei tori, sbandiera qualcosa per distrarli; tette, patriottismo, la chiesa, qualunque cosa, in effetti, e salteranno. Non ci vuole molto, è facilissimo… vogliono sempre essere distratti… niente importa… la vita è molto facile.”
Per quello che sembrò un lungo periodo, Céline non disse nulla. Infine, dissi di non aver mai conosciuto una donna che non fosse disgustata dai suoi libri, che non riuscivano mai a finirli.
“Certo, ceto, che si aspettava… i miei libri non sono per le donne… hanno i loro trucchi, loro… il letto… soldi…. I loro giochetti… i miei libri non sono i loro trucchi… lo sanno da loro, come cavarsela…”
“No, non vedo più nessuno… sì, mia figlia è viva, sta a Parigi, non la vedo mai. Ha cinque figli. Non li ho mai visti.” Nuovamente un lungo silenzio. E poi “… Non c’è dubbio – Io sono un perseguitato… un lebbroso”. Silenzio.
“Apri la porta, e entra un nemico…” Silenzio. “Devo lasciarvi, ora… devo scrivere”. Mi mise alla porta.

martedì 3 novembre 2009

Abbiamo compiuto 30 sostenitori...



... e per festeggiare tra qualche giorno vi regalerò la traduzione di una intervista del nostro, inedita in italiano (e mi sa anche in francese) apparsa su una rivista letteraria americana nel 1961...

mercoledì 28 ottobre 2009

Criminale o umanista? La Francia litiga su Céline



Céline e l’antisemitismo: il classico terreno minato, in cui ciclicamente qualcuno si avventura suscitando reazioni decise. Il saggista ed editore francese Karl Orend (dirige Alyscamps Press), in un articolo pubblicato quest’estate sul Times Literary Supplement, si è lanciato in una appassionata difesa di Céline, estesa fino alla rivalutazione dei suoi pamphlet antisemiti. Ora, dopo una lettera critica pubblicata dal giornale inglese, arrivano le prime repliche. Il sito letterario dell’edizione internet del settimanale francese Le Nouvel Observateur anticipa un articolo del magazine mensile Books, in uscita domani, che fa a brandelli Orend.
A parere di quest’ultimo, Bagattelle per un massacro (1937), La scuola dei cadaveri (1938) e i Bei drappi (1941) furono scritti «in forma di avvertimento, di appello ad evitare nuovi massacri». Orend, come si suol dire, contestualizza le posizioni dell’autore di Viaggio al termine della notte: la paranoia per un possibile «complotto ebraico» volto a sprofondare l’Europa in una nuova guerra, in fondo, era condivisa da «milioni di persone»; e la società francese era intrisa di antisemitismo. Inoltre, secondo Orend, ci sarebbe da considerare lo stile di Céline: violento, sarcastico e allucinato. Un carattere così accentuato nelle opere «politiche» da farle risultare «un esercizio». La tesi non è nuova. È infatti famoso il giudizio di André Gide su Bagattelle per un massacro, affidato a un articolo della «Nouvelle Revue Française»: «è un gioco letterario». Orend prosegue: la fuga di Céline attraverso la Germania e la Danimarca, nel 1945, in seguito alle accuse di collaborazionismo con i nazisti occupanti la Francia, fu causata dal «linciaggio mediatico» dello scrittore; «linciaggio mediatico» alla base dell’assassinio del suo editore, Robert Denoël, nel dicembre dello stesso anno. Quindi Orend invita a considerare «il lato umano di Céline» troppo a lungo «ignorato». Lo scrittore, «umanista incompreso», «si occupava dei poveri e dei malati e si consacrava a coloro che erano stati leali con lui. La musica e la danza erano le sue passioni». Infine, dopo aver ricordato che sua madre era un’ebrea polacca, Orend conclude: «La ragione per la quale Céline è inviso è semplice. Egli ci ricorda le menzogne che le persone hanno scritto per dissimulare la loro vergogna per aver lasciato correre l’Olocausto, in particolare l’onta dei francesi, colpevoli di collusione». In altre parole: Céline fu il capro espiatorio ideale per una società arrendevole e incapace di ammettere la propria compromissione col nazismo. È più o meno quanto sostenuto da Céline stesso, ad esempio nella violentissima invettiva contro Sartre, il quale lo aveva accusato di essere stato al soldo dei tedeschi. Céline, in A l’agité du bocal (edizione italiana: Tartre, L’obliquo, 2005) risponderà rinfacciando al filosofo di aver accettato di mettere in scena le sue opere teatrali per gli ufficiali della Wehrmacht, e di aver sempre preso posizioni ambigue.
Olivier Postel-Vinay, su Books, rimprovera a Orend di non essersi accontentato di tessere le lodi dello scrittore, ma di averlo voluto riabilitare «dal punto di vista morale». Operazione spericolata, anche perché non tiene conto di una discreta mole di materiale, in particolare Postel-Vinay cita gli articoli pubblicati da Céline sui giornali ai tempi dell’occupazione nazista. (A cui si possono aggiungere documenti emersi dalle ricerche d’archivio, di cui dà parziale conto la biografia di Céline scritta da Philippe Alméras, edita in Italia da Corbaccio). Ci sono attacchi personali (il poeta ebreo Robert Desnos, poi morto in campo di concentramento), inviti ad assumere una linea dura nelle questioni razziali, e l’auspicio di una divisione fra la Francia del Nord, pura, e quella del Sud, meticcia.

Antisemita, anticomunista, antiborghese, antiliberale, antidemocratico: ovvio che Céline divida. Fu un grandissimo scrittore. Per questo, a qualcuno pare intollerabile che le sue idee politiche fossero indifendibili: ed ecco gli Orend impegnati a «riabilitarlo» e a farne quasi un santino. Per lo stesso motivo, a qualcuno pare intollerabile ammettere la grandezza dell’opera. Lo scrittore si può separare dall’uomo? Forse no. Però è sbagliato giudicare il valore di uno scrittore da quello dell’uomo, anche perché bisognerebbe forse strappare troppe pagine dalle antologie.


di Alessandro Gnocchi, da Il Giornale di oggi.


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Non posso che sottoscrivere la conclusione dell'autore dell'articolo: sarebbe assurdo, per esempio, una damnatio memoriae dell'opera (tutta o in parte) e della figura di tutti gli intellettuali che, rimanendo agli anni di Céline, per i più svariati motivi, tesserono le lodi dell'URSS degli anni '30, dei Gulag e delle purghe, per poi ricredersi (e non tutti): Wells, Shaw, Rolland, Brecht, Malraux... chiedere lo stesso per il medico di Meudon non ci pare troppo.


Andrea Lombardi

sabato 24 ottobre 2009

Célinienne Spleen, di Aldo Truglio


Célinienne Spleen - una colonna di luce sfolgorante... nel deserto degli uomini e della storia
(Foto: Copyright Aldo Truglio)

Siamo felici di presentare le opere, ispirate a Céline, dell'amico Aldo Truglio:

La mia "arte" è il risultato di una sorta di audizione su tutte le composizioni eseguite, bene o male, su tutti i pianoforti del globo, la rappresentazione di un "Voyage" - percorso dove la notte occupa il posto del giorno - ispirato, composto e shakerato da "Spleen" Baudelairiano, da "Illuminazioni" Rimbaudiane e orchestrato e diretto con le note inquiete e impetuose della "Petite Musique" Cèliniana. Di quì, umilmente... ma con spirito candidamente cèliniano; il mio "Voyage" volto a "...una riflessione semi-seria, una metafora "arte-fatta!" per uscire dai "codici conoscitivi noti" del linguaggio espressivo della "stridente" contemporaneità e, avventurarsi nelle contraddizioni che solcano l'universo cosmologico del pensiero e quello della rappresentazione visiva, ovvero di quell'immenso palcoscenico del "tanto pianto e tanto riso" che è l'esistenza umana."
Aldo Truglio

mercoledì 14 ottobre 2009

Su di una leggenda, di Marcel Aymé



Secondo Lucette Almansor, questo scritto di Aymé dice tutto quello che c'è da dire su Céline...

Su di una leggenda
di Marcel Aymé

Intorno a Céline si è creata una leggenda nera, della quale è in parte responsabile, non avendo fatto nulla per distruggerla, e anzi, l’ha mantenuta. È quella di un uomo violento, astioso, implacabile nei suoi odi come nelle sue antipatie, avido di denaro, nemico del suo paese, oltre a quella di un demolitore anarchico e di un pessimista contento di esserlo. Benché le apparenze talvolta confermino questa leggenda, essa è quanto di più lontano possa esserci dalla realtà. Certamente, Céline non era persona accomodante, o che dimenticasse facilmente i torti che gli erano stati fatti. Il perdono del male, il perdono delle offese, non aveva per lui alcun senso. Poteva, nel corso della vita, giungere a non tenerne conto, ma non le dimenticava. Il perdono era ai suoi occhi un atto, se non negativo, quantomeno inutile, che non impediva al male di rimanere, né al nemico di restare pericoloso. Di fronte agli esseri e agli avvenimenti, aveva delle reazioni virili, spontanee, nulla sacrificando al catechismo, e considerando il difendersi come uno dei primi doveri dell’uomo. Ai suoi occhi, questo era un obbligo che coinvolgeva non solo la fierezza dell’individuo, ma la sua salute fisica e morale, poiché chi non ha dei buoni riflessi difensivi contro i suoi nemici, come saprà difendersi dalla società, e innanzitutto da se stesso? Nella vita come nella sua opera, ovvero, Céline ha assiduamente denunciato come il nemico più temibile dell’uomo sia “se stesso”. Per ciò che riguarda il suo giudizio, le sue opinioni letterarie, estetiche, politiche etc. (a dire il vero considerava la politica una materia fluttuante, bassamente organica, un assoggettamento della società ai propri stessi rifiuti, ed essa non lo interessava che mediocremente), mostrava egualmente un grande vigore combattivo, e non era l’uomo da arrivare a compromessi per far piacere all’interlocutore, anche se quest’ultimo fosse un amico. Questa spiccata dirittura morale favoriva in lui una generosità di spirito che gli esegeti non hanno ancora messo abbastanza in luce nella sua opera, ma che si è manifestata sempre lungo il corso della sua vita. Amava l’amicizia, e ha sempre dimostrato una rara fedeltà nei suoi affetti. Durante tutto l’esercizio della sua professione di medico, che ha avuto sulla sua opera letteraria una così grande influenza, ha dimostrato una devozione e un disinteresse ammirevole, sino alla fine della sua vita. Nei suoi ultimi anni, aveva, in effetti, aperto nella sua casa di Meudon un gabinetto medico, non tanto per lucro, ma per riprendere con la medicina un contatto che non fu solamente teorico. Si recava da lui qualche cliente povero, che non si decise mai a far pagare, e per i quali comprava di tasca sua le medicine. No, Céline non era un uomo dal cuore duro, al contrario. La grande e spontanea tenerezza che aveva per i bambini e per gli animali basta a testimoniarlo. Si è detto molto, anche da vivo e perfino tra i suoi ammiratori, che era avaro. Questo è un errore che egli denunciò giustamente per tutta la vita. Alla fine dei suoi studi medici, sposò la figlia unica di un medico facoltoso. Normalmente, un tale matrimonio avrebbe dovuto rappresentare l’inizio di una carriera facile e di un’attività redditizia, ma il denaro lo annoiava; il denaro gli sembrava una tara. Divorzierà, per condurre a modo suo un’esistenza bisognosa. Procacciarsi una clientela non gli interessava, poiché quest’uomo, che doveva dimostrarsi tirannico con i suoi editori, era incapace di incassare i soldi dei consulti medici, soprattutto se si trattava di quelli della povera gente. Preferiva di più l’essere il medico di un dispensario di periferia, che pagava i servizi prestati con un salario modesto, del resto sufficiente ai bisogni della sua esistenza disciplinata. Niente cambiò nelle sue abitudini di vita dopo che i suoi libri a grande tiratura gli portarono una fortuna, che alla vigilia della guerra, con una leggerezza che stupisce, affiderà a qualcuno che conosceva pochissimo, e del quale nulla doveva ispirare fiducia, con la missione di trafugare questo capitale in un paese straniero. Più tardi, quando credette di rientrare in possesso dei suoi beni, dovette costatare che questa riserva si era evaporata, e fu amareggiato enormemente di scoprirsi egli stesso in flagrante delitto d’ingenuità. Céline non aveva il senso del denaro, o meglio, non l’aveva che al livello delle necessità quotidiane. Durante i dieci ultimi anni, mentre sentiva declinare la sua salute, e credeva di lasciare sua moglie senza risorse, i suoi familiari lo sentirono spesso lamentarsi del prezzo delle derrate, affermando come i soldi fossero la sua unica preoccupazione, la sola ma quella verso la quale tendevano tutti i suoi sforzi, ed è vero, poiché nelle spese ordinarie ne teneva conto. Ma quando toccava alle somme importanti, allora le dissipava con acquisti costosi e futili, con quella malaccorta impazienza delle persone povere che vincono alla lotteria. In realtà, il denaro superfluo, quello che non serve ai bisogni basilari della vita, gli ha sempre dato fastidio.

Io temo che i suoi biografi e commentatori, almeno nell’immediato, l’immaginino e lo giudichino attraverso l’autoritratto che, attraverso le sue interviste e le conversazioni con degli scrittori durante i cinque o sei anni precedenti la sua morte, ha voluto dare di lui, e che non lo rispecchia giustamente.
A causa dell’ostilità sistematica e delle calunnie che aveva subito da parte di una stampa timorosa e venale, aveva poca stima per i giornalisti francesi. Era il suo divertimento farli smarrire in un labirinto di espressioni eccessive o contraddittorie, dando solo un riflesso deformato e derisorio di se stesso. Sapendo di essere in Francia il solo grande scrittore del suo tempo, era per lui un divertimento vedersi trattato dai giornalisti a volte con una divertita condiscendenza, a volte con un altezzoso disprezzo. Sì, Céline si è prestato a questa scioccante opposizione, ma non così amara da non discernervi già una vendetta postuma, e si è pressoché costantemente sforzato di provvedervi. Credo che sarebbe stato soddisfatto se avesse potuto, dal fondo della sua tomba, essere testimone del gran rumorio meravigliato menato dalla stampa francese intorno al nome di Hemingway, che morì il suo stesso giorno; di questo grande affannarsi di redazioni attorno a uno scrittore americano pregevole certo, ma senza genio − probabilmente più grande come cacciatore che come scrittore − e se avesse potuto leggere, allo stesso tempo, la stessa stampa francese che dava il frettoloso annuncio della morte di Céline.

Il suo crollo psicologico degli ultimi anni, e il suo aspetto trascurato, hanno altresì contribuito ad influenzare il giudizio di chi lo ha incontrato accidentalmente. In seguito ad una trapanazione necessaria dopo una ferita alla testa nel 1914, trapanazione che riferiva come particolarmente mal eseguita, aveva sempre sofferto di violente emicranie [in realtà, poiché non sono ancora stati trovati documenti medici attestanti questa operazione alla testa, le emicranie di Céline possono derivare da altre cause. D’altra parte, non si può escludere a priori una concussione derivante dall’esplosione dello stesso proiettile la cui scheggia offese il suo arto, fermo restando che la trapanazione sia un’iperbole biografica di Céline, NdC], ma dopo la sua scarcerazione dalle prigioni della Danimarca, dove il suo organismo si era indebolito, un dolore acuto e continuo non gli lasciò tregua, né di giorno né di notte. Negli anni a venire, dormì meno di due ore per notte, assopendosi male e a tratti, senza mai cessare completamente di soffrire. Camminava con difficoltà, e gli capitava, in seguito a degli attacchi di vertigine, di cadere, senza potersi alzare da solo. Un’altra ferita, anch’essa dell’altra guerra – le schegge di un proiettile gli avevano reciso i nervi di un braccio, e lasciato una mano pressoché inerte − si era messa a farlo soffrire. Le poche forze che gli restavano, le concentrava per scrivere, preoccupandosi poco del suo aspetto esteriore e dell’impressione che faceva agli intervistatori. Il giorno della sua morte, tremante, e, per una volta, gemente di dolore, la testa in fiamme, ma lucido, andò come tutti i giorni a sedersi al suo tavolo di lavoro, e si mise a scrivere. Resoconti di ogni sorta hanno dato al pubblico un resoconto distorto di questa energia sovrumana, a volte pietosa e tanto ingannevole; ed è questo quadro distorto e menzognero che orienta l’idea che le giovani generazioni si fanno dell’uomo che fu Céline.

Recentemente, ho letto nella Nouvelle Revue française uno studio di Jean-Pierre Richard intitolato La Nausée de Céline. È un tentativo di psicanalisi dell’uomo attraverso la sua opera e le sue interviste. L’autore è tra chi ha compreso meglio l’opera céliniana, e apprezzato l’ampiezza e la forza del suo genio poetico. Come dire che se egli nutriva un pregiudizio verso Céline, questo sarebbe piuttosto un pregiudizio favorevole. E la sua idea di nausea corrisponde abbastanza bene all’immensa stanchezza che, al di fuori del suo lavoro, Céline, estenuato, incessantemente occupato a superare le sue sofferenze, lascia apparire nei suoi propositi, nel suo atteggiamento, nelle foto dei suoi ultimi anni di vita. Ma, seppur seducente sul piano della comprensione del personaggio, la spiegazione non tiene per chi ha conosciuto Céline prima della guerra. Quest’uomo con il fisico e le spalle da corazziere, dal viso di una bellezza virile, illuminato dalla fiamma gioiosa e frizzante dei suoi occhi chiari, apparteneva ad una razza di scrittori poco concepibile agli intellettuali delle giovani generazioni. Dire che era, fisicamente e moralmente, una forza della natura è poco, poiché la sua forza organizzata era quella di un uomo che si era dato uno stretto autocontrollo, e che viveva in una stretta disciplina, forgiata da lui stesso. Non gli ho conosciuto che una debolezza, la collera, alla quale arrivava ad abbandonarsi. Nulla in quest’uomo, nulla nella sua conversazione, piena di salute, di gaiezza e di brio, brillante come le migliori pagine del Voyage, nulla può veramente richiamare l’idea della nausea. La natura aveva fatto di lui un lottatore, dandogli un’esuberanza di forza, volontà e potenza su se stesso, e la sua opera letteraria è quella di un lottatore. Prendiamo atto che in lui, l’incontro tra il poeta e il medico è stato di importanza capitale, e ha diretto la sua opera. […] La pratica della medicina e la visione delle migliaia di miserie umane in un dispensario di periferia, hanno ravvivato, o quantomeno affinato in Céline un senso, probabilmente innato; il senso del peccato, ma non contro la divinità, ma contro l’uomo. Le sue più grandi collere, le ho viste scatenarsi contro tutto ciò che riteneva conducente all’abbruttirsi dell’uomo, all’abbandono di se stesso: l’alcol, gli stupefacenti, l’abbuffarsi di cibo scadente, la sessualità sfrenata, il lusso, la miseria, le false barriere, la religione (ai suoi occhi, sembrava che i peccati contro la Chiesa, avvallassero i peccati contro l’uomo), le ipocrisie sociali e mondane che, sotto una copertura d’onestà, favorivano lo scatenarsi delle cattive intenzioni. No, non era la nausea che invadeva Céline allo spettacolo di una società accanita a distruggersi in ciascuno dei suoi individui. Era un odio robusto, potente l’odio di un nemico contro il quale non si sentiva totalmente disarmato per nulla, lui che aveva avuto la volontà di disciplinarsi e che pensava di fare un’opera meritoria nello spingere il naso di chiunque nella sua propria lordura. Anche scrivendo il Bagattelles, all’epoca pensava in buona fede di intraprendere un combattimento nello stesso senso. Jean-Pierre Richard, nel suo studio, spiega questa crisi d’antisemitismo avanzando l’ipotesi che Céline, non avendo il coraggio d’andare in fondo al suo personaggio, e per la lassitudine della sua nausea, avesse “preso come obiettivo” i più scontati da colpire al mondo, prendendo la scappatoia di colpire gli ebrei, di farne degli esseri immondi, capaci di aver insozzato e indebolito la Francia. Una tale teoria implica che Céline si identificasse nell’Io dei suoi primi due romanzi, e ciò è l’opposto della realtà. Tra Céline a Bardamu, vi è perlomeno la stessa distanza che separa Flaubert dai Bovary. Osserviamo d’altra parte come nello stesso periodo nel quale Bagattelle era pubblicato, Céline lavorasse a un terzo romanzo, del quale è apparso solo il primo volume, dove si esprimeva in prima persona, e non vedo come tra questo terzo Io e quelli dei romanzi precedenti, ci sia frattura di sorta. Questo semplice fatto dimostra come bisogni cercare altrove le ragioni di questo fiero antisemitismo. Credo che l’antisemitismo non si dichiari all’improvviso come il morbillo, ma sia il frutto dell’educazione. Céline era nato in quell’ambiente di piccoli commercianti parigini, tutti più o meno antisemiti, poiché ai tempi dove erano impiegati di commercio, l’ebreo simboleggiava per loro il padrone, e in seguito, quando avviarono la loro attività, avevano trovato in lui un temibile concorrente, accusato di rovinare i piccoli negozianti con il concorso delle banche ebraiche. Non dimentichiamoci che sino all’Affaire Dreyfus, la classe operaia a Parigi era apertamente antisemita, in teoria in ricordo dei banchieri dell’Impero, in realtà per ragioni più vicine. Una volta che Jaurès ebbe preso posizione nell’Affaire, l’ostilità degli operai cessa di essere aperta, ma non cessa affatto, e se ancora oggi esiste a Parigi un fermento d’antisemitismo, esso esiste non nei quartieri-bene, ma nelle periferie e anche tra i piccoli commercianti della capitale. Si può ben immaginare che nel negozio del Passage Choiseul (già in declino), dove Céline Destouches, la madre del nostro futuro scrittore, vendeva i suoi pizzi, il bambino ha dovuto crescere nella familiarità di questo astio anti ebraico, infamante l’anti-Francia che minacciava il pane del focolare. E non fu una presa di coscienza letteraria, quella che ha risvegliato e fatto divampare tutto d’un tratto un antisemitismo latente nel suo cuore e nel suo spirito, ma una oltraggiosa ingiustizia subita nell’esercizio della sua professione di medico, e perpetrata a beneficio di un suo collega ebreo. Altri avrebbero incassato l’affronto, mordendo il freno, ma come ho detto, non si attacca chi si difende a fondo, con tutte le sue forze. Si giudicheranno come eccessivi gli sviluppi dati a questo affare personale. Ma una ingiustizia è mai unicamente un affare personale? In tutti i casi, una cosa è sicura, ossia che Céline, se non fosse stato provocato, colpito al cuore, non sarebbe mai partito in guerra contro gli ebrei. Non è quindi, secondo la parola di Jean-Pierre Richard, “un delirio di casualità” che lo ha fatto uscire dai gangheri. Qui, è l’ingiustizia che ha generato ingiustizia. E se la risposta è stata sproporzionata con l’ingiustizia iniziale, è che Céline, prono alla collera e al suo genio verbale, aveva precisamente perso questa facoltà di “essere obiettivo” che possedeva pienamente quando si trattava di Bardamu e delle sue altre creazioni. L’errore di identificare Céline con Bardamu conduce naturalmente a pensare che si è rinnegato, renié nel denunciare, a proposito degli ebrei, l’abbassamento della vitalità, del civismo, dell’intelligenza e del patriottismo francese. In realtà, se si rimettono Céline e Bardamu nelle prospettive proprie a ciascuno di loro, non vi è l’ombra di un rinnegamento. Non vi vediamo che una contraddizione, del resto ben anteriore alla crisi d’antisemitismo. Quest’uomo, che più di altri aveva misurato l’onore, la stupidità della guerra, e il pericolo permanente che costituiscono i nazionalismi surriscaldati, custodiva in lui vivace e suscettibile, un patriottismo da immagine di Epinal, inculcatogli dalla scuola comunale e che proseguì a casa con la lettura dei grandi quotidiani. Questa guerra mondiale che giudicava aberrante e odiosa, era fiero di averla combattuta con coraggio e distinzione, e non cessò mai di essere fiero delle gravi ferite ricevute al servizio del suo paese. Ed eccoci lontano da Bardamu! Ai nostri giorni, è difficile comprendere come questi sentimenti abbiano potuto coesistere con quei giudizi lucidi che ne erano la condanna. Io, che fui, come tutte le persone della mia età, impregnato dall’insegnamento sciovinista della scuola laica, e che sono cresciuto in una città dell’est, con il ricordo d’aver assistito, prima dell’altra guerra, a degli scoppi d’isteria popolare a proposito dell’Alsazia-Lorena e del nemico al di là del Reno, non mi stupisco di questa contraddizione. D’altra parte, quello che mi sembra sorprendente, è che si sia potuto accusare Céline di aver collaborato con i tedeschi e anche di essere per loro un amico e un ausiliario. È una favola corrente già al tempo dell’occupazione, e che dura ancor oggi. In realtà, Céline nutriva per i tedeschi una sfiducia e una ostilità che veniva da lontano. I suoi genitori, che ambivano per lui una carriera da grande commerciante, o da grande uomo d’affari, avevano voluto che apprendesse le lingue straniere, per le quali era sin d’allora notevolmente dotato. Verso i suoi dodici anni, lo mandarono a due riprese a passare le vacanze in una piccola città tedesca, in modo da fargli apprendere la lingua del nemico. Il giovane Destouches si scontrerà là allo sciovinismo odioso, irriducibile, dei bambini della sua età che si ostinavano a rendergli la vita insopportabile. Immagino facilmente che si sia difeso con vigore e non avrà tardato a trovare delle risorse nella lingua dei suoi avversari, ma cinquanta anni più tardi, parlava ancora di quei due soggiorni come di un incubo. La disfatta del 1940 fu per lui un’umiliazione e, a prescindere di qualunque cosa avesse detto prima, una sorpresa dolorosa. La sentì come un affronto che gli era stato inflitto personalmente, e non volle mai sentire altra spiegazione che il tradimento, la mancanza di cuore di un Esercito che si era lasciato catturare, diceva, senza combattere. Era un capitolo sul quale rifiutava sempre la discussione, e il suo rancore contro quell’Esercito là si sostenne sino alla fine della sua vita. Là, come anche nel suo antisemitismo, si trovava su un terreno passionale, dove non accettava di rendere obiettivamente il dibattito. Dal suo processo, dal quale era contumace, il commissario del governo si convinse che non vi era nulla nel suo dossier. Agli ammiratori timidi che una leggenda malevola e una critica troppo prudente tiene ancora a distanza, posso dire anch’io: “Non vi è nulla nel dossier di Céline” (1).


(1) Cahiers de l’Herne, 1981. Traduzione Andrea Lombardi.

martedì 22 settembre 2009

FRANÇOIS GIBAULT RACCONTA CÉLINE


François Gibault accanto a Lucette Destouches in una fotografia dei primi anni '90

FRANÇOIS GIBAULT RACCONTA CÉLINE

di Gilberto Tura


Per chi non conoscesse François Gibault è sufficiente ricordare che è l’autore della biografia di riferimento di Céline, un’opera in tre volumi pubblicati a metà degli anni ’80 per le “Mercure de France”. È reputata la biografia più completa e documentata tra le ormai molte in circolazione, anche grazie alla possibilità, concessagli dalla vedova Lucette, di accedere alla consultazione di molti documenti inediti, conservati dai genitori di Céline. Gibault di professione è avvocato e dal 1962, anno in cui (come racconta nella conversazione) ha conosciuto la signora Lucette, difende e cura gli interessi della vedova. Inoltre ha curato, nel 1969, la pubblicazione e la prefazione di Rigodon e, nel 1998 per Gallimard, la pubblicazione di “Lettres de prison à Lucette Destouches et à Maître Mikkelsen. 1945-1947” . È presidente della Société d’études céliniennes.

CHI ERA CÉLINE?

Conversazione con François Gibault

In quali circostanze è arrivato a Céline?
Conobbi sua moglie, Lucette Destouches, attraverso André Damien, nel luglio 1962, un anno dopo la morte dello scrittore, in circostanze un po’ particolari: durante un viaggio, avevo fatto una caduta stupida ed è stata lei che mi ha rimesso la schiena a posto, con esercizi di ginnastica. A poco a poco mi ha affidato la decifrazione del manoscritto di Rigodon, che Cèline aveva lasciato prima di morire. Durante la settimana, patrocinavo come avvocato le grandi cause dell’epoca – attentato del Petit-Clamart, Ben Barka… − e la domenica, armato di una lente d’ingrandimento, decifravo Rigodon, a Meudon, negli stessi luoghi dove lo scrittore aveva lavorato. Ciò mi ha occupato per molti anni. Ero spesso accompagnato dal mio amico Bob Westhoff, ex marito di Françoise Sagan, e questo lavoro si è svolto in un’atmosfera gioiosa. Infine, per la pubblicazione del libro, nel 1969, Lucette Destouches mi ha fatto l’onore di chiedermi la prefazione.

Perché, in seguito, si è dedicato alla biografia di Louis-Ferdinand Céline?
La signora Destouches mi aveva presentato a Marcel Aymé, Gen Paul, Henri Mahé, Jean Dubuffet e numerosi altri amici di Céline. Mi aveva inoltre mostrato delle lettere e delle fotografie inedite. Un giorno, Simone Gallimard, che dirigeva il Mercure de France, mi ha suggerito di scrivere una biografia. Ho accettato, pensando di essere nelle condizioni ottimali per farlo. Ciò mi ha preso quindici anni. Ho seguito le tracce di Céline in Danimarca, in Russia, in Germania, in Inghilterra, in Africa…Ho avuto accesso agli archivi del Quai d’Orsay e della giustizia militare. La signora Pedersen, ministro della giustizia danese, mi ha fatto visitare la cella dove lo scrittore è stato imprigionato a Copenaghen. Il fatto di essere spesso accompagnato dalla signora Destouches e la mia condizione di avvocato rassicuravano i miei interlocutori. Sono grato peraltro alla signora Destouches di non avermi mai chiesto di leggere il testo prima della pubblicazione. È stata una formidabile avventura, poiché Louis-Ferdinand Céline ha partecipato a tutti i drammi del XX° secolo e la sua opera romanzesca è per molto autobiografica.

Da quale ambiente proveniva?
Si può dire da un ambiente piccolo-borghese con pretese aristocratiche e con mezzi da proletari. Il padre − per il quale il piccolo Louis non ha alcuna ammirazione – è un mediocre impiegato di una compagnia d’assicurazione e sua madre vende merletti. Louis, del resto, è stato allevato dalle donne – sua madre e sua nonna materna, Céline Guillou, alla quale renderà omaggio in seguito, prendendo il suo nome come pseudonimo di scrittore. Louis nasce il 27 maggio 1894, rampe du Pont, a Courbevoie – come ricorderà per tutta la vita, inventandosi una leggenda di abitante di periferia. In realtà, all’età di due anni, si trasferisce con i suoi genitori a Parigi, rue de Babylone poi al passage Choiseul, vicino ai Grands Boulevards. Ha spesso paragonato, in seguito, il passage ad una «campana a gas». Sono riuscito a entrare nel loro alloggio: era in effetti molto angusto, con il negozio di merletti in basso, una scala montante al primo piano e, al secondo, al di sotto della vetrata, la camera di Louis da cui si vedeva il cielo.

Ha avuto una infanzia felice?
Non proprio. Era figlio unico e i suoi genitori erano molto opprimenti. Non possedevano l’automobile e non facevano vacanze. I suoi più grandi ricordi saranno uno spettacolo di Buffalo Bill e l’Esposizione universale del 1900. La famiglia non crede granchè all’università e vuole avviare Louis nel commercio. Appena ottenuto il suo certificato di studi, che resterà per molto tempo il suo unico diploma, verrà inviato per dei lunghi soggiorni linguistici a Diepholz e Karlsruhe, in Germania, poi a Broadstair e Rochester in Inghilterra. È un’infanzia molto solitaria e conserverà, per tutta la vita, fino ai suoi ultimi anni a Meudon, l’inclinazione alla solitudine. Sarà, del resto, uno scrittore isolato, appartenente a nessuna scuola, parrocchia o accademia. La sua vita sarà una lunga fuga in avanti per sfuggire alla sua condizione sociale, allo stesso modo cercherà di inventare una scrittura per sfuggire ai modi di espressione tradizionali.

È cresciuto in un ambiente antisemita?
Non bisogna mai dimenticare che Louis-Ferdinand Céline nasce nell’anno in cui scoppia l’affare Dreyfus. La sua infanzia è stata segnata da questo dramma. Quando sarà inseguito, dopo il 1945, dai tribunali, si dichiarerà instancabilmente «vittima di un affare Dreyfus a l’inverso». Suo padre, che leggeva “La Libre Parole” di Drumont [pubblicazione antisemita, NDLR] era antidreyfusardo, alla maniera dei piccoli commercianti che erano convinti di vedere le banche e i grandi commerci ebrei regnare dappertutto. Era anche revanscista e ha fatto di Louis un buon piccolo patriota francese.

Céline ha sempre sostenuto di essersi arruolato nella Prima Guerra mondiale. Ciò corrisponde alla realtà?
Non completamente, come spesso succede con lui. In effetti ha anticipato la chiamata di leva, nel 1912, raggiungendo il 12° reggimento dei corazzieri a Rambouillet. Ma non ha mai fatto parte dell’esercito professionale. Detto ciò, fu estremamente coraggioso e rimarrà segnato nella carne e nello spirito dalla guerra, come esprimerà mirabilmente nelle prime pagine del Viaggio al termine della notte. Dall’inizio della guerra, riporterà due ferite. La prima volta, gli esplose vicino una granata, scaraventandolo contro un albero e causando dei disturbi all’orecchio, che lo farà soffrire per tutta la vita di vertigini e di fischi – le famose «valanghe di tromboni» evocate in Morte a credito. Il brigadiere Destouches sarà ferito più gravemente una seconda volta, da una pallottola, nelle Fiandre, vicino a Poelkapelle, il 27 ottobre 1914, mentre si era offerto volontario per consegnare un messaggio attraverso le linee. Riconosciuto invalido al 75% - si pensa anche di amputarlo ! -, si porterà dietro per tutta la vita le conseguenze al braccio destro e scriverà con la mano storta. In compenso, non è mai stato trapanato, come ha talvolta affermato e come molti hanno ripetuto. Grazie al suo atto eroico, ha diritto alla quarta di copertina de L’Illustré national e ottiene la croce di guerra e la medaglia militare. Ma è un eroe traumatizzato, allo stesso tempo militarista e pacifista, che ritorna dal campo di battaglia.

Segue un periodo strano, a Londra, circa il quale si sa poco…
Dopo la sua convalescenza al Val-de-Grâce, è inviato là, nel 1915 come impiegato all’ufficio passaporti del consolato di France. È a Londra che verrà definitivamente riformato. Con il suo amico Georges Geoffroy, se la spassano dopo l’orrore delle trincee. Frequentano i locali loschi di Soho e del porto, senza dubbio anche i bordelli. Ritroveremo questo scenario equivoco in Guignol’s band, scritto trent’anni più tardi. È sempre a Londra, il 19 gennaio 1916, che sposa, per un colpo di testa una certa Suzanne Nebout, che lascerà molto presto. «Sono l’uomo delle partenze veloci», scrive all’epoca a suo zio… Non avendo fatto legalizzare questa unione al consolato di Francia, il matrimonio non avrà alcun valore legale in Francia.

È vero, come si dice, che là ha incontrato Mata Hari?
Mata Hari l’avrebbe invitato a cenare nel suo appartamento al Savoy con il suo amico Geoffroy. Non ci sono prove, ma ciò è del tutto plausibile. La spia era a Londra nella stessa epoca di Céline e frequentava, per le sue attività, i membri dei consolati…

Perché, allora, parte per l’Africa?
Ha 22 anni, è definitivamente smobilitato e gli vengono fatti balenare dei sogni di fortuna. La Francia e l’Inghilterra avendo invaso il Camerun, ex colonia tedesca, devono trovare degli uomini per occupare il terreno. Céline firma un contratto con la Compagnie forestière Sangha-Oubangui e si ritrova a Bikomimbo, un piccolo villaggio a ventisette giorni di marcia da Douala. Fa dei baratti con gli indigeni – sigarette in cambio di zanne d’elefante… All’inizio di settembre 1916, ottiene la gestione di una piantagione di cacao a Dipikar. Sono andato in quelle regioni, sulle sue tracce, e ancora oggi, è un paesaggio di savana totalmente sperduto. Lo immaginiamo, solo, nella notte africana, assalito dai rumori, come ha mirabilmente raccontato nel Viaggio al termine della notte. Céline vive in condizioni climatiche e sanitarie pessime. Colpito da paludismo e dissenteria, passa lunghe settimane nella sua capanna, nel cuore della foresta equatoriale, inondato di sudore, imbottito di laudano. Spossato, senza aver fatto fortuna, finisce per chiedere il rimpatrio nella primavera del 1917.

La sua vita assomiglia a quella di un avventuriero. A quell’epoca, ha già cominciato a scrivere?
Appena. La prima traccia è stata scoperta in circorstante inaspettate. All’epoca del suo passaggio al 12° reggimento di Rambouillet, aveva cominciato a redigere, in un piccolo quaderno di finta pelle, una specie di diario intimo, che cominciava con queste parole: « Non saprei dire cosa mi spinge a scrivere ciò che penso.» Quando fu ferito al fronte, cede il suo zaino a un soldato, Maurice Langlet, che conserva il taccuino. È solo nel 1957, all’uscita Da un castello all’altro, che Langlet si riavvicinò al brigadiere Destouches e al romanziere Céline! Restituisce allora al suo vecchio amico questo testo, che saà pubblicato con il titolo Il taccuino del corazziere Destouches. Ma è in Africa che comincia a scrivere, timidamente: una novella intitolata «Onde» e due poemi – quasi romantici – inviati a una amica.

Al suo ritorno in Francia, fa la conoscenza d’un uomo bizzarro che diventerà uno dei grandi personaggi della sua opera…
Si, l’inventore Raoul Marquis, alias Henri de Graffigny, modello del futuro Courtial des Pereires di Morte a credito. Appassionato di voli in mongolfiera, creatore d’apparecchi elettrici stupefacenti, grafomane impenitente – gli dobbiamo più di centoquaranta opere sugli aquiloni, l’automobile o sulla moda! - , collabora alla rivista Euréka. È lì che Céline lo incontra. Sembra che Céline sia stato il suo uomo tuttofare, segretario, fattorino… Henri de Graffigny è sepolto nel cimitero di Septeuil. Ho fatto trasformare la concessione trentennale di questo personaggio tipicamente céliniano in concessione perpetua.

In quali circostanze Louis Destouches diventa medico?
Dopo avere per un po’ percorso la Bretagna con le missioni Rockefeller contro la tubercolosi, ottiene il diploma di maturità nel 1919. È a quell’epoca che incontra, a Rennes, Edith Follet, che sposa nell’agosto di quello stesso anno. Lei è la figlia di Athanase Follet, decano della facoltà di medicina di Rennes. Louis allora beneficia di disposizioni che permettono agli ex combattenti di sostenere gli esami secondo dei corsi accelerati. Nel 1922, ha già fatto l’equivalente di quattro anni di studi di medicina a Rennes. Completa la formazione a Parigi, moltiplica i tirocinii ospedalieri e sostiene la tesi, consacrata allo scienziato ungherese Filippo Ignazio Semmelweis. Sono convinto che sia stato un eccellente medico, dalla diagnosi sicura, accontentandosi a volte di scrivere sulle ricette: « Niente caffè, niente tabacco, niente alcol.» A quell’epoca, avremmo potuto immaginare che il dottor Destouches, genero di un notabile di Rennes, il decano Follet, padre di una bambina Colette - nata nel 1920 e ancora vivente – si sarebbe imborghesito. Ma come ogni volta, alla prima occasione, fugge, lasciando la sua sposa sconcertata. L’ho incontrata, molto più tardi. Era una donna affascinante, che aveva riallacciato dei rapporti amichevoli con Céline – e Lucette – al termine della sua vita.

Louis Destouches lavora poi per la SDN.
A Rennes si sente soffocare e si fa assumere come «medico della Sezione d’Igiene classe B» alla SDN, a Ginevra. Dovrà accompagnare dei gruppi di medici in Europa, in Africa, negli Stati Uniti; in questa occasione, scopre per la prima volta New-York. Le delegazioni alle quali appartiene sono ricevute dal presidente americano Coolidge e più tardi, a Roma, da Mussolini. Sosterrà di essere stato medico alla Ford. In realtà, vi ha trascorso due giorni e redatto un rapporto, «Nota sull’organizzazione sanitaria delle officine Ford a Detroit». Come sempre con lui, a partire da un fatto vero, costruisce una leggenda… É a quest’epoca, fine 1926 o inizio 1927, che scrive un’opera teatrale, in cui l’azione si svolge alla SDN, L’Eglise. Sarà rifiutata da Gallimard, nonostante il seguente commento, molto pertinente: « Ha del vigore satirico, ma manca di coerenza. Dono della pittura di ambienti molto diversi»…

Di colpo, avvia l’attività medica…
Si, nella periferia parigina, a Clichy. Ma poiché il suo ambulatorio attira pochi clienti, integra il dispensario della città, dove visita tutti i giorni. Parallelamente, redige dei testi pubblicitari per i laboratori Biothérapie – è suo quello del dentifricio Sanogyl – e mette a punto un farmaco contro i disturbi psico-tiroido-ovarici, la Basedowine, che gli procura qualche magra royalties.

É allora che incomincia il Viaggio al termine della notte?
Ha lasciato maturare un certo numero di episodi della sua vita – la guerra, l’Africa, New York… - prima di metterli per iscritto, senza dubbio nel 1929. Vi lavora la sera, la domenica, la notte, nel suo appartamento di rue Lepic. Ha sempre sostenuto di essersi avvicinato alla scrittura per guadagnare dei soldi, «pagare l’affitto» del suo appartamento, come diceva. Niente è meno sicuro. Elisabeth Craig, una ballerina americana incontrata a Ginevra, vhe visse con lui e sarà la dedicataria del romanzo, ha raccontato che mentre scriveva sembrava in trance. Bisogna immaginarlo, lui che non conosceva nessun scrittore, piccolo medico di periferia, dedicare senza sosta diversi anni della sua vita a questo lavoro. Scrisse migliaia di pagine senza mostrarle a nessuno. Poi, nella primavera 1932, consegna il manoscritto a Gallimard e a Denoël. Gallimard tergiversa e suggerisce dei tagli. Robert Denoël, giovane belga intraprendente, divora il romanzo in una notte. Accetta all’istante il manoscritto. Il contratto viene firmato il 30 giugno. Louis Destouches, che desidera mantenere l’anonimato, assume lo pseudonimo di Céline. Già dai primi giorni, questo stilista si mostra intrattabile con il suo editore: «Per favore, soprattutto, non aggiungete una sillaba al testo senza avvertirmi! Gettereste il ritmo per terra come niente.»

Il Voyage costituisce, di punto in bianco, un terremoto negli ambienti letterari?
Si, critici e lettori si rendono conto subito che sono difronte a un torrente verbale radicalmente nuovo. È straordinario constatare oggi che il romanzo non mostra una ruga. Ma Céline resterà molto feriro dalla sua disaventura al Goncourt. Grazie al sostegno di Lucien Descaves, è stato ad un passo dall’ottenerlo fin dalle deliberazioni preparatorie della giuria, il 30 novembre 1932. Era dunque sicuro che sarebbe stato premiato. Il giorno dell’assegnazione, va in place Gaillon, difronte a Drouant, e attende, con sua madre e sua figlia Colette. Porta con sé un piccolo sonaglio d’argento, proveniente dalla culla di sua figlia, che gli serve da talismano. Infine, il Goncourt viene assegnato a Guy Mazeline per Les loups. Appreso il verdetto, dalla rabbia, Céline schiaccia il sonaglio nella mano. Colette lo ha conservato fino ad oggi, come ricordo di quella giornata… Ciò non impedirà al Voyage di vendere 80 000 copie in un anno.

Il successo gli cambierà la vita?
Per niente, visto che il suo secondo romanzo, Morte a credito, che uscirà nel 1936, è accolto meno bene. Numerosi lettori sono scandalizzati da certi passaggi, che devono essere tagliati. Céline continua le sue visite mediche presso il dispensario e si avvicina alla bohème di Montmartre, dove ormai vive. Frequenta i pittori Gen Paul e Henri Mahé, l’attore Robert Levigan, Marcel Aymé… È inoltre affascinato dalle ballerine, la loro grazia, la perfezione dei loro corpi. «Voglio terminare la mia vita nelle scuole di danza», scriverà un giorno… Soprattutto, vivrà molto male il ritorno negli Stati Uniti di Elisabeth Craig, alla quale era molto legato. Andrà in California con la speranza di farle cambiare idea ma, al termine di un incontro drammatico, ritornerà da solo in Francia. Intreccia, allora, una relazione con una ballerina danese, Karen Marie Jensen. Si conoscono alcune relazioni sentimentali con la pianista Lucienne Delforge, una giovane ebrea austriaca, Cillie Pam, o una scrittrice belga, Evelyne Pollet. Aveva preso, a quell’epoca, l’abitudine di assistere a dei corsi di danza. Così, da Blanche d’Alessandri, incontra Lucette Almanzor, una ballerina con la quale va a vivere fino alla fine dei suoi giorni.

Come spiegare che dopo questi due romanzi, Céline si lancia in pamphlets antisemiti?
C’è una immensa ingenuità da parte sua in questa impresa, un atteggiamento disperato alla Don Chisciotte: ha creduto che lui, piccolo scrittore francese, avrebbe potuto impedire la guerra coi suoi libri! Pubblica, dapprima, un breve testo, Mea culpa, che racconta le sue impressioni sul viaggio nell’ URSS comunista. È rimasto sbigottito da ciò che ha visto. Scrivendo Mea culpa, ha preso coscienza di possedere un vero talento come pamphlettista. Ora sente che l’Europa corre verso la guerra e, in quanto veterano del ’14, vuole evitare a tutti i costi una nuova macelleria. Incita a stringere un patto con i tedeschi. Pensa che gli ebrei spingano la Francia alla guerra contro Hitler e che occorra quindi ridurre la loro influenza. Pubblica, dunque, Bagattelle per un massacro nel 1937, poi la Scuola dei cadaveri l’anno successivo. L’eccesso dei suoi propositi, sostenuti da uno stile spesso fiammeggiante, lo costringerà a dare le dimissioni dalle sue funzioni presso il dispensario di Clichy.

La leggenda sostiene che incontri a quell’epoca Jean Moulin…
Probabilmente è vero. L’incontro avrebbe avuto luogo presso un amico di Céline, il dottor Tuset, che abitava a Quimper. È sempre da lui che Céline ha incrociato lo scrittore Max Jacob.

Che fine fa alla dichiarazione di guerra?
Gli succede un episodio buffonesco, molto celiniano: un naufragio in mediterraneo. Nel settembre 1939 diventa medico marittimo per la compagnia Paquet. Si imbarca quindi sulla Chella che effettua la linea verso il Marocco. Ma nella notte tra il 5 e il 6 gennaio 1940, davanti Gibilterra, la nave sperona per sbaglio un avviso (nave a vapore da guerra, NdT) inglese. Ci sono ventisette morti dalla parte inglese e il dottor Destouches soccorre le vittime. La Chella raggiunge bene o male Marsilia. In seguito, Céline vive l’esodo. Era a quel tempo medico al dispensario di Satrouville e partecipa all’evacuazione della città. È quindi in un’ambulanza, accompagnato da Lucette, da due lattanti e da un’anziana signora, che prende la direzione del sud. Il viaggio fu epico e Lucette mi ha raccontato che una notte, hanno dormito in una stalla con un cavallo, cosa che ho potuto verificare per miracolo! Andranno così fino a Saint-Jean-d’Angély, in Charente. Poi, in luglio, Céline risale a Parigi e diventa medico del dispensario di Bezons.

Domanda cruciale: Céline ha collaborato con la Germania durante la guerra?
No, ma ha avuto delle relazioni amichevoli con dei tedeschi, che, in maggioranza, conosceva già prima della guerra. Ho incontrato alcuni di questi per la mia biografia: il dotto Karl Epting, direttore dell’Istituto tedesco a Parigi, il tenente Gerard Heller, che Céline chiamava il «zazou» (giovane appassionato di jazz, NdT), o il colonnello SS Hermann Bickler. Incontrare quest’ultimo fu una caccia al tesoro. L’ho finalmente trovato nella sua proprietà italiana sul lago di Lugano (lago Maggiore, NdT). Céline era stato invitato al famoso viaggio degli scrittori francesi in Germania e rifiutò. Certo, si era recato a Berlino nel 1942 ma era per consegnare alla sua amica Karen Marie Jensen la chiave della sua cassetta di sicurezza presso la banca di Copenaghen, dove aveva depositato dell’oro. Se non ha collaborato, parlando propriamente, possiamo tuttavia rimproverargli la pubblicazione d’un terzo pamphlet antisemita nel 1941, La bella rogna, e soprattutto, la riedizione dei primi due nel 1942, quando tutti erano a conoscenza delle retate e delle deportazioni. Ha anche inviato numerose lettere molto violente alla stampa collaborazionista, in particolare a Je suis partout, sapendo per certo che sarebbero state pubblicate. Lui che non era per nulla incline all’autocritica non manifesterà dopo la guerra che un solo rimorso, terribile: aver forse spinto dei giovani ad arruolarsi nella LVF [Legione dei volontari francesi] al prezzo, per alcuni, della vita.

Poi, alla Liberazione, fugge dalla Francia…
Trascorre la guerra nel suo appartamento in Rue Girardon, dove scrive Guignol’s band, pubblicato nel 1944, e va e viene in Bretagna, in particolare a Saint-Malo dove ha dei legami. Ma prima dello sbarco degli alleati aveva cominciato a ricevere delle piccole bare al suo domicilio. Non c’è dubbio che se fosse rimasto a Parigi sarebbe stato assassinato dai partigiani o condannato a morte dai tribunali. Dai nove mesi di erranza in Germania che seguiranno, ricaverà la materia di tre lunghi e magnifici romanzi pubblicati molto più tardi: Da un castello all’altro, Nord e Rigodon.

Dove va?
Céline ha un’idea fissa, che non lo abbandonerà mai: raggiungere la Danimarca, paese neutrale, dove ha nascosto il suo oro. L’otto giugno ottiene dalle autorità tedesche, per sé e Lucette, un fremdenpass per la Germania. Si fanno inoltre fare dei documenti falsi a nome di Louis-François Deletang et Lucile Alcante. Svuota la sua cassetta di sicurezza del Credit Lyonnais di tutte le monete d’oro, che Lucette cuce all’interno di un gilet speciale, dal quale non si separerà mai. Il 17 giugno, accompagnati dal loro gatto Bebert, dentro un tascapane, prendono il treno per Baden-Baden, « Bains-Bains », come diceva Céline. Resteranno per qualche settimana in questo scenario da operetta. È lì, in agosto, che li raggiunge l’attore Le Vigan, che non li lascerà più fino al marzo del 1945. Per questo motivo sarà uno dei grandi personaggi della Trilogia tedesca. Alla fine dell’estate salgono a Berlino, dove rincontrano il dottor Hauboldt, uno degli alti responsabili della Camera dei medici del Reich. Questi li sistema presso degli amici, i Scherz, a Kraenzlin, un paese vicino a Berlino. Resteranno solo poche settimane in questa porta chiusa del Brandeburgo, ma Céline ne ricaverà un allucinanre romanzo-fiume di 400 pagine, Nord.

Perché, in seguito, vanno a Sigmaringen, enclave francese in Germania, dove s’erano rifugiati il maresciallo Pétain e i principali collaborazionisti?
Non hanno avuto scelta. Vivranno quattro mesi all’ombra dell’immenso castello degli Hohenzollern, dove Lucette fa i suoi esercizi di danza nella sala da ballo. Alloggiano a l’Hotel Löwen. Contrariamente a ciò che si dice, Céline non è stato il medico personale di Pétain – che non stimava e che soprannominava «Philippe le Dernier» - ma la colonia francese. Intrattengono rapporti soprattutto con Abel Bonnard, ministro dell’Educazione nazionale, Jean Bichelonne, ministro della Produzione industriale, e Paul Marion, ex segretario di Stato dell’Informazione. In Da un castello all’altro ha realizzato un quadro penetrante e satirico di questa piccola colonia collaborazionista.

Precisamente, qual è la componente di realtà e quella di fantasia nella trilogia tedesca?
Céline parte sempre da fatti veri, che traspone poi alla sua maniera. Così racconta lungamente come è andato, in treno, a partecipare alle esequie di Bichelonne a Hohenlychen. È un passo epico e prodigiosamente comico. Ora, sappiamo che non ha partecipato a quel viaggio… Ugualmente i mostruosi assassinii della fine di Nord non ci sono evidentemente mai stati. E poi, si ha sempre l’impressione che viva sulle bombe, quando, di fatto, non è mai stato a meno di 200 chilometri dal fronte… [in effetti però Céline in numerosi passaggi dei libri della Trilogia si riferisce ai bombardamenti aerei, che come noto colpivano la Germania praticamente ogni giorno, NdAndrea]

Raggiungeranno finalmente la Danimarca?
Si. Con Lucette lasciano Sigmaringen e, a caso, i treni che prendono, risalgono fino ad Amburgo, poi a Flensburg. Lì la coppia sale su un treno della Croce Rossa svedese per Copenaghen.

Non immaginano che vi resteranno sei anni…
Giunto a Copenaghen, è rinfrancato. Si sistema con Lucette in un appartamento che presta loro la ballerina Karen Marie Jensen, si lascia crescere la barba e aspetta che gli avvenimenti si calmino. Ma, i mesi passano, Céline diventa imprudente. Poco prima del Natale 1945, su richiesta di estradizione da parte della Francia, è arrestato e imprigionato nella Vaestre Fengsel. Ho visitato le celle e non è per niente un luogo allegro, soprattutto per un uomo come lui, assetato di libertà. Malato, dimagrito, invecchia di dieci anni durante i diciotto mesi che trascorre lì. Prima della guerra Céline era un bell’uomo, seducente, alto, gli occhi azzurri; quando tornerà in Francia ha l’aspetto di un vecchio, vestito come un clochard. È liberato sulla parola e va a vivere a un centinaio di chilometri dalla capitale in una piccola capanna.

Sarà giudicato in Francia?
C’è dapprima un lungo giocare al gatto e al topo tra le autorità danesi e quelle francesi. Grazie al suo avvocato, molto influente, Céline beneficia della benevolenza di molti personaggi importanti della Danimarca. I danesi, infine, rifiutano la sua estradizione. In Francia lo scrittore è difeso da Albert Naud poi da Jean-Louis Tixier-Vignancour. È quest’ultimo, vero genio della difesa, che ottiene l’amnistia per Céline grazie a un espediente. Dopo la condanna a un anno di prigione della Corte di Giustizia, Tixier domanda al Tribunale militare l’amnistia per uno dei suoi clienti, Louis Destouches, veterano, senza precisare che si tratta di Louis-Ferdinand Céline. I giudici non si accorgono di nulla e, il 20 aprile 1951, lo amnistiano.

Che fa allora Céline?
Prende in considerazione varie soluzioni. Raggiungere Le Vigan in Argentina, il suo amico Zuloaga in Spagna o stabilirsi in Marocco! Alla fine, poiché la lingua francese gli manca terribilmente, decide di ritornare in Francia. A cinquantasette anni prende l’aereo per la prima volta. Dopo qualche settimana presso la famiglia di Lucette a Menton e presso degli amici a Neuilly, la coppia acquista un villino, in route des Gardes, a Meudon grazie alla vendita di beni che la famiglia di sua moglie possedeva in Normandia. Lì, durante dieci anni, porta a compimento il suo personaggio di cane rognoso delle lettere francesi. È una specie di esilio volontario. Si reca molto raramente a Parigi, vede pochi amici come Marcel Aymé o Roger Nimier.

Che ne è della sua opera d’anteguerra?
In seguito all’assassinio del suo editore, Robert Denoël, nel 1945, si oppone molto violentemente alla sua erede, Jeanne Loviton. Vieta tutte le riedizioni dei pamphlets e recupera finalmente i diritti del Viaggio al termine della notte e di Morte a credito. Un giovane giornalista, Pierre Monnier, li aveva coraggiosamente pubblicati, in poche copie, mentre era esiliato in Danimarca. Ma Céline è infuriato di non poter più, praticamente, ricevere alcun diritto d’autore. « Il Voyage vale una fattoria, una fattoria che va avanti da sola, una fattoria magica! », scrive al suo avvocato danese nel 1946. Perciò, appena arrivato in Francia, il 18 luglio 1951, uno dei suoi primi atti sarà di firmare un contratto con Gaston Gallimard, che non voleva «perdere» Céline una seconda volta. L’editore accetta tutte le richieste dello scrittore, pure molto alte: la riedizione dei suoi vecchi romanzi, un anticipo di cinque milioni di vecchi franchi, delle mensilità e il 18% dei diritti d’autore sui libri futuri. Ciò che non impedirà a Céline, di cui la riconoscenza non è la principale qualità, d’insultare il suo editore in alcuni testi divenuti famosi, in cui lo tratta da «droghiere disastroso» o da «vecchio nasello libidinoso»…

Céline ritrova il suo status di «star» delle lettere?
Gli inizi sono difficili. I tempi sono cambiati, Sartre e Camus appartengono all’alta società, e viene guardato come un sopravissuto d’anteguerra. Pantomima per un’altra volta (1952) e Normanne (1954), seppure bei libri, sono dei fiaschi, di cui vengono venduti alcune migliaia di copie. Bisognerà attendere Da un castello all’altro, nel 1957, lanciato da una famosa intervista all’ Express, perché sia nuovamente riconosciuto. La consacrazione quando gli viene annunciato che presto verrà pubblicato nella Pléiade. Da allora moltiplica le interviste alla stampa e fa delle apparizioni memorabili alla televisione. Di fronte alle telecamere recita sopra le righe il suo personaggio di misantropo. Ma la sua personalità era molto più complessa di così. Era un uomo al tempo stesso avaro e generoso, anarchico e amante dell’ordine, pacifista e militarista, ricco d’umanità eppure capace di scrivere i pamphlets…

Questo vecchio avventuriero termina la sua vita in letteratura?
Si. Ha esposto la sua targa di medico e si è iscritto all’ordine dei medici per poter, un giorno, percepire la pensione, ma i clienti sono pochi, scoraggiati dalle sue apparenze. Lavorerà fino al suo ultimo respiro, quando la malattia l’avrà logorato e la sua calligrafia si sarà fatta sempre più tremolante. Scrive migliaia di pagine che tiene unite con delle mollette da bucato. Il 30 giugno 1961 termina Rigodon e informa Gaston Gallimard per posta. Ha terminato la sua opera, può morire. L’indomani, il primo luglio, si spegne in silenzio. Lucette non annuncia subito la notizia. Solo una manciata di persone, le più vicine, tra le quali Arletty e Marvel Aymé, assistono alle esequie nel vecchio cimitero di Meudon. Sulla sua tomba, Lucette ha fatto incidere un veliero trialbero – omaggio al Brettone amante del mare e dei porti – e questo semplice epitaffio:
« Louis-Ferdinand Céline/Docteur L.-F. Destouches/
1894-1961 ».
Intervista realizzata da Jérôme Dupuis

(Traduzione di Gilberto Tura)

Tratto da “LIRE, HORSE SERIE” N° 7 - 2008


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Ringrazio tantissimo Gilberto per aver tradotto questa lunga e interessante intervista!


Andrea

mercoledì 16 settembre 2009

Pier Paolo Pasolini e Céline



Ringraziamo l'amico Daniz per la seguente segnalazione:



DALLE COLONNE DEL 'TEMPO' ANCHE PASOLINI SI ERA COSTRUITO IL SUO CELINE...

Dal 26 novembre 1972 al 24 gennaio 1975, Pier Paolo Pasolini, in arte P.P.P., tenne una rubrica letteraria a cadenza quasi mensile, sul giornale settimale ''Tempo''; il 22 luglio 1973 recensirà così il libro di Céline "Da un castello all'altro".





"E' un luogo comune ammirare incondizionatamente Céline. l'obbligo morale che impone questo luogo comune è una specie di spregiudicata presa di posizione antideterministica, per cui risulterebbe, appunto, <> giudicare uno scrottore dalla sua ideologia e dai fatti della sua vita: mentre sarebbe <> dissociare, da tale ideologia e da tali fatti, la sua opera.Nel caso di Céline questa dissociazione è codificata con particolare rigidità. E' punto d'onore dell'intellettuale di sinistra non discuterla. si tratta di un un esempio di letteratura avanzata in uno scrittore reazionario: e serve a salvare la coscienza dell'intellettuale di sinistra dal dogmatismo dello scandalo.Invece questa comoda dissociazione va discussa. L'ultimo romanzo di Céline, ''Il castello dei rifugiati'' è di carattere particolarmente autobiografico: parla dei fatti della sua vita e allude continuamente all'ideologia che li ha determinati. anche per il più ostinato anticonformista sarebbe difficile in questo caso sfuggire al conformistico dovere di confrontare il risultato estetico con la volontà noetica , il tipo di conoscenza, che vi presiede. tale confronto è disastroso per Céline e il suo valore letterario. il romanzo è concepito come un lungo, interminabile monologo interiore: lo scrittore si immerge nello spirito-nella fattispecie, nello spirito linguistico- del protagonista vive il suo rapporto discorsivo con la realtà e sulla realtà. generalmente il protagonista di cui lo scrittore rivive il discorso è molto diverso, psicologicamente e socialmente dallo scrottore (per esempio Padron 'Ntoni è molto diverso dal Verga che lo rivive nella sua scrittura): invece, nel caso del ''Castello dei rifugiati'', il protagonista e lo scrittore sono la stessa persona! Céline vive il discorso di Céline-appena appena distanziato da sé- in una forma piccolo-borghese e media. Questo monolo interiore, che è tipico della scrittura naturalistica, è però da Céline stilizzato: ma con una trovata priva di ispirazione, che non diviene una vera e propria ''idea formale''. egli ha interrotto il flusso interminabile del discorso di chi pensa ai casi suoi come a voce alta, e l'ha tutto spezzettato in una serie di lacerti sintattici minimi, divisi tra loro da punti di sospensione e da una serie infinita di punti esclamativi. sicché anziché una rimeditazione, com'è in genere il monologo interiore, questo è un concitato referto tutto esclamativo. è uno sfogo, un'arringa. ma poiché l'autore non può e non vuole affrontare direttamente i fatti di cui parla, instaura col suo ipotetico ascoltatore un rapporto tutto allusivo e ammiccante. ed è appunto qui, in questo rapporto, che si manifesta l'ideologia e il carattere psicologico-polito dell'autore. e poiché questo rapporto è in sostanza lo stile del libro, ecco che la famosa dissociazione non può essere operata.''Il castello dei rifugiati'' è un brutto libro perché è odioso ciò che Céline pensa ed è. il destinatario del suo monologo finto è un uomo come lui, che la pensa come lui, o quasi. o che è comunque in grado di comprenderlo quando egli allude ai suoi trascorsi di collaborazionista e di criminale di guerra; o, quantomeno, di fare la sua disillusione che ne è seguita, con la conseguente spregiudicatezza critica nei confronti dei suoi ex idoli nazisti rimescolati in una generale indegnità del mondo. sicché il lettore è costretto a sentirsi identificare con un destinatario complice. ma ciò che l'autore gli comunica e gli confida- ammiccandogli come a un suo pari- come, appunto, a un orrendo complice- è così meschino e volgare, che il rifiuto da parte del lettore non può essere che assoluto. non è possibile perdonare a Céline il suo fascismo in nome del buonsenso borghese, e non è possibile dissociare da questo il suo stile, se il suo stile altro non è appunto che la mimesi del buonsenso di un borghese, sia pure disperato e scardinato dalla vita normale''




Il meno che possiamo dire è che, per una volta, il geniale anticonformista Pasolini è scivolato nel pieno conformismo intellettuale. Nessuno è perfetto.


martedì 8 settembre 2009

E' morto Louis-Albert Zbinden...


Notre ancien collègue, l'écrivain et journaliste neuchâtelois Louis-Albert Zbinden, s'est éteint à Paris à l'âge de 86 ans. Forum diffuse un extrait de l'un de ses entretiens, réalisé avec l'écrivain Louis-Ferdinand Céline.

Après des études à Genève, Louis-Albert Zbinden a travaillé à la Radio suisse romande dès 1947. Il a réalisé pour la RSR maintes émissions littéraires, en particulier avec l'écrivain Louis-Ferdinand Céline. Ses auditeurs se souviennent de ses chroniques « Le regard et la parole», diffusées de 1977 et 1986, le samedi matin. Il y commentait avec verve des faits d'actualité.

Dramaturge et poète, Louis-Albert Zbinden a signé plusieurs romans ainsi que des nouvelles. Il laisse une vingtaine d'ouvrages. Parmi eux un recueil de poésie, «Les yeux ouverts» paru en 1956, les romans «L'emposieu» (1981), «L'orgue de Barbarie» (1988) et «Le Pollen de Satan» (1992), ainsi que des nouvelles réunies sous le titre «Marie Casamance, suite jurassienne» en 1995.

Louis-Albert Zbinden sera enterré à Paris.

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... sua una notevole intervista a LFC:

intervista a Céline di Louis-Albert Zbinden
a cura di Sergio Falcone

Questa intervista radiofonica con Céline, condotta da Louis-Albert Zbinden, è stata trasmessa da Radio-Télé Suisse Romande (Losanna), il 25 giugno 1957.

Vorrei farle una domanda forse un po’ ingenua. Per quali ragioni ha pubblicato questo nuovo libro, Da un castello all’altro? Perbacco! Debbo confessarlo ancora una volta: è chiaro che lo faccio soprattutto per delle ragioni economiche,… per parlare con una certa finezza. Da un certo numero di anni sono oggetto d’una sorta d’interdizione; ma faccio uscire un libro che, malgrado tutto, è abbastanza pubblico, poiché parla di fatti ben noti, e che riguardano nello stesso modo i francesi. E’ una piccola parte, del tutto piccola, ma pur sempre una piccola parte della storia di Francia: alludo a Pétain, a Laval, mi riferisco a Sigmaringen (Città della Germania, già capoluogo dell’Hohenzollern, alla destra del Danubio. Fu l’ultimo rifugio del governo collaborazionista francese di Vichy; settembre 1944 – maggio 1945. s.f.). Lo si voglia o no, è un episodio della storia francese; può essere doloroso, ce se ne può rammaricare, ma è comunque un momento della storia di Francia. Tutto questo è accaduto e, un giorno, se ne parlerà nelle scuole. D’altra parte torneremo sull’argomento fra poco, se lei è d’accordo. Ma preferirei toccare le questioni letterarie. Quelli che non hanno letto il suo libro, si chiedono se assomiglia, nello stile, per esempio, ai suoi libri passati, al Viaggio al termine della notte… E’ difficile cambiare lo stile; anzi, è impossibile. Pare che i pittori riescono a cambiare lo stile, ma infine anche gli scrittori; in quanto a me, non credo che questo mi sia accaduto. La faccenda dello stile, se così posso dire, m’interessa assai da vicino, anche se non mi ritengo uno stilista, ossia uno scrittore che ha gran cura dello stile. Ho questa debolezza, e credo che sia una scelta non molto frequente, dal momento che quel che c’è di più difficile è lo stile. Per inviare dei messaggi o dei pensieri profondi, non ho che da aprire un’opera specialistica, ne sono pregno; non ho che da sfogliare tra i testi di medicina, così posso facilmente eccellere, brillare, ma non è questo… No. Sono un colorista di certi fatti. Per caso mi sono trovato in circostanze tali per cui la materia da descrivere era interessante. Proust si occupava di tipi del bel mondo, io invece mi sono interessato ai personaggi che mi capitava d’incontrare e di osservare. Ho narrato le loro piccole storie, con uno stile che mi sembrava essere il mio. La letteratura, dunque, è per lei anzitutto una questione di stile, e quando parla di stile, lo distingue dalla storia propriamente detta? La vicenda, la adatto senz’altro allo stile; del resto come fanno i pittori, che non si occupano esclusivamente del frutto. La mela di Cézanne, lo specchio di Renoir, o la bella femmina di Picasso, o la capanna di Vlaminck, sono piuttosto lo stile che essi gli donano. Gli oggetti non prendono molto spazio,… sparivano più o meno… Saprà che, quando la si legge, si ha l’impressione che lei scriva i suoi libri in un modo diretto, molto fluido, e che il famoso stile parlato, che è la sua caratteristica, nasca da una sorta d’improvvisazione costante. È esatto? Oh no, non è proprio così. Scrivo invece con molta fatica, oserei dire. La capacità di esprimersi è un fatto naturale. E’ così, con ogni probabilità, e questa è già una base. Ma, alla fine, il foglio di carta non trattiene l’eloquenza naturale. Conosciamo bene la povertà che offrono i discorsi alla Camera, o le cause in tribunale, quando sono trascritti in stenografia. No,… è tra la gente che hai l’avvio di una chiusa, oppure di una piccola frase faceta… Ma, conservare uno sforzo di composizione secondo lo stile di 400-500 pagine, richiede molto lavoro; bisogna saper vedere e rivedere. In realtà 400 pagine stampate fanno 80000 pagine manoscritte. Ma il lettore non è obbligato a saperlo. Anzi, non deve saperlo. E’ un problema dell’autore quello di correggere il proprio lavoro. Si fa entrare il lettore in un piroscafo. Tutto deve essere gradevole. Quel che accade nelle stive non lo riguarda. Egli deve gradire il paesaggio, il mare, il cocktail, il ballo, la freschezza dei venti. Tutto ciò che è meccanico, o relativo ai lavori servili, non lo riguarda affatto. E la nave ha un cattivo vapore, un cattivo capitano, un cattivo cuoco, una cattiva compagnia, se il passeggero non è messo a suo agio da chi mette in moto le macchine, da chi arrostisce il pollastro, e da chi conduce la barca fuori degli scogli. Dal momento che lei dà un’importanza così grande allo stile, la si potrebbe credere anzitutto un esteta… Ma lei non è un mandarino della letteratura, poiché è al centro della sua stessa opera. Qui tocchiamo una questione molto delicata. Credo che, in un modo inconscio, ho avuto una gran cura nell’evitare di essere un mandarino della letteratura; eppure l’ho quasi cercato. E, per dire proprio tutto, mi sono rese ostili tante persone; mi sono attirato l’odio di tutti; né ritengo che questo sia un fatto volontario. L’ho fatto per non essere popolare, per non essere lusingato, e per non acquistare importanza, il che mi pareva una cosa orribile, non è così? Ho preferito piuttosto la modestia, ed anche la condanna generale. Non posso dire che l’ho cercata per intero ma, infine, questo m’è capitato. Se avessi voluto evitarlo, era molto semplice sottrarmi, non avevo che da tacere. Non ho taciuto nel ’37 o nel ’38. Non avevo che da impormi il silenzio, mi si lasciava tranquillo. Invece mi sono cacciato in una storia orrenda, e questo m’è valso un isolamento e un’ostilità totale, mio Dio, nella quale sono diventato un “mandarino” dell’orrore, se preferite, poiché ora vedo degli individui che erano considerati dei collaborazionisti, i quali mi svergognano, e riprendono le stesse calunnie dei partigiani di De Gaulle, o del signor..., o di qualunque mediocre partigiano. Sono un isolato, se così si può dire, solo; per essere più a contatto con le cose. Amo molto gli oggetti. Questo non è molto apprezzato nell’epoca in cui viviamo. Ci si preoccupa molto più della personalità anziché dell’oggetto. Si è individualisti, così come si è legati ai processi verbali. Non è questo il mio caso. Semmai sono un artigiano delle cose. Questo è misconosciuto ai nostri giorni, e lo sarà sempre, a meno che non si provochi una rivoluzione antimaterialista, un istante nei secoli e secoli. Ma ora noi siamo con ogni evidenza nell’epoca della pubblicità e della meccanica. Allora… il robot di genio… l’autore ha successo… Quando lei dice che l’oggetto è il suo interesse principale, questo è in contrasto, penso, con le idee generali. Mi pare che su questa questione, alla vigilia della guerra, esattamente negli anni attorno al 1937, a cui lei ora fa riferimento, allo stesso modo ha assunto un atteggiamento a favore di problemi di ordine generale. E questo forse è l’origine di tutti i suoi guai. … per forza ero contro la guerra. Lo ero in una forma esplicita, totale, come ho il diritto di esserlo… Lei è un pacifista… Sono un pacifista integrale. Tanto più che sono medaglia militare dal mese d’ottobre 1914, cioè non da ieri; sono mutilato di guerra all’80%,… e di conseguenza ho tutto il diritto d’essere un pacifista. Mi sono arruolato nella seconda guerra ancora come medico di bordo; sono andato a picco al largo di Gibilterra; conosco bene i piccoli retroscena della guerra. Per questo non l’amo. La trovo stupida e del tutto negativa per qualsiasi società. Allora ho trovato, mi sono immaginato, le cause della guerra, che ho attribuito ad alcune fazioni… Filippo il Bello doveva tutte le sue disgrazie ai Templari;… i Giansenisti sono stati perseguitati attraverso quattro o cinque secoli. La storia di Port-Royal non è del tutto terminata, se ne parla ancora. I Gesuiti sono stati perseguitati, etc. … Forse ho isolato una setta che non era poi così biasimevole come ho detto; forse la riprova è ancora da darsi, forse la testimonianza verrà con la storia. Diciamo il termine esatto: lei è stato un antisemita. Appunto. Nella misura in cui pensavo che i Semiti ci spingevano alla guerra. Senza questo motivo non ho proprio nulla contro di loro; non trovo alcun motivo di conflitto con i Semiti: non sussistono delle ragioni plausibili. Ma finché essi costituivano una setta, come i Templari, o i Giansenisti, era chiaro come Luigi XIV (il quale aveva delle buone ragioni per revocare l’editto di Nantes) e Luigi XV, nel cacciare i Gesuiti, fossero nel giusto… Allora, ecco, la questione è tutta qui: mi sono appassionato a Luigi XV o a Luigi XVI, ma questo, evidentemente, è un grosso errore. Dal momento che dovevo restare quel che sono, e più semplicemente impormi il silenzio. In questo ho peccato d’orgoglio, lo confesso, per leggerezza, per bestialità. Non avevo che da tacere… Sono dei problemi più grandi di me. Sono nato nell’epoca in cui si parlava ancora dell’affare Dreyfus. Tutto questo è un vero errore di cui faccio le spese. Ed è in questo preciso momento che sono tormentato da ogni specie di uomini che mi scoprono transfuga, recidivo, venduto… Che cosa pensa di queste infamie? Proprio nulla. Dico solo che presto avrò sessantacinque anni, avrò la pensione di medico, con una rendita di 200000 franchi all’anno, e che grazie a Dio resterò un po’ tranquillo… Comunque sono passato attraverso la più grossa caccia alla volpe che sia mai stata organizzata nel corso della Storia… e già questo non è male!... Non rinnego proprio niente… non cambio facilmente d’opinione… Insinuo solo un piccolo dubbio, ma si dovrebbe provare che mi sono sbagliato, e non che ho ragione. Ascolti. Lei ha detto che è un pacifista e che lo è ancora. Certo. Ma come conciliare questo col fatto che lei, per esempio, ha lodato l’armata tedesca? L’armata tedesca la magnificavo prima ancora che penetrasse in Francia, e che scatenasse la guerra. Trovavo che era un buon modo d’essere una potenza… La Svizzera ha un esercito. Il Principato di Monaco ha un esercito. Il ferro evidentemente è la forza, è l’ordine. E allora, quando il potere domina, non c’è più altra forza altrove… Dal momento che parliamo dei francesi, potrei ricordare loro che se ci fosse sempre un’armata tedesca, se non fosse stata dichiarata la guerra, e se la Germania fosse quella che era un tempo, ebbene essi avrebbero conservato l’Algeria senza molti problemi, non avrebbero perduto il Canale di Suez, né l’Indocina. I francesi hanno introdotto il disordine, demolendo una struttura portante, proprio com’erano stati abbattuti gli Asburgo, che non sono stati sostituiti da niente. Ma non crede che l’imperialismo tedesco potesse anche essere una causa di distruzione per certe strutture, ivi compresa la fine del primato francese in Europa? Sono convinto che si potesse trattare coi tedeschi in modo molto vantaggioso. Vale a dire che noi esercitavamo ancora su di loro del prestigio. I tedeschi si ricordavano del carico di legnate del ’18, e ci guardavano con molto rispetto. Sappiate che dagli inizi della storia del mondo niente è valso più del prestigio della guerra che si sta per vincere, o del prestigio di quella che si va a vincere… Di conseguenza, noi conservavamo il prestigio della vittoria nella guerra ’14-’18. Occorreva difendere questo prestigio comunque, non importa come, ma non in modo da metterlo in pericolo, o in discussione… Si custodiva il piccolo trincerista… il ’18… Verdun… questo contava enormemente, questo valeva molto. E allora non saremmo stati attaccati; nessuno ci avrebbe affrontato, Suez non si sarebbe scosso, l’Indocina non si sarebbe agitata, l’Algeria non si sarebbe mossa, né il Marocco, né la Tunisia. Tutti i paesi sarebbero restati al loro posto. Era sufficiente inviare un battaglione della Legione per regolare tutto. Mentre ora, scusatemi, tutti quei popoli sanno che siamo deboli. Perbacco, nella storia dell’umanità, non si è mai minacciato troppo a lungo i deboli, che lo sia stato dichiarato o no. Era lì che vedevo utile l’esercito tedesco, il soldato tedesco. Era tutto. E’ semplicemente questo. Forse mi sono sbagliato. Non domando di meglio. Non ne discuto più. In quanto a me, sono alla fine della corsa. Ci si potrebbe stupire di un particolare, signor Céline. Ossia, nel momento in cui i fatti sono cambiati, ossia quando le potenze dell’Asse hanno cominciato a non avere più il vento in poppa, lei ha insistito. Ma questo era per lei un fatto d’onestà o di coscienza? Si spieghi un po’. Non ho mai insistito su alcuna questione politica. In nessun modo. Non ho mai collaborato ad alcun giornale, né concesso delle interviste, né rilasciato dichiarazioni alla stampa, né votato, né fatto parte di un partito. Sono assolutamente e rigorosamente indipendente. Mi costruivo solo come scrittore. Nella mia incoscienza credevo di poter influenzare ognuno a favore della pace. Bene. E’ tutto. Assolutamente tutto. Non sono mai stato vicino a nessuno. Mai un soldo da nessuno, né americano, né inglese, né tedesco, né svizzero. Nulla. Per cui non ho vissuto che dei miei diritti d’autore, e anche molto modestamente. Quando altri, invece, hanno persistito nella loro opinione, o non persistito… Dopo Stalingrado, diciamo pure la parola, c’erano delle facce di bronzo. Tutti hanno fatto marcia indietro, sono diventati antitedeschi. Bene. Ma io non avevo alcun motivo di essere antitedesco, né antichiunque. Nel corso della guerra, i tedeschi sono venuti a trovarmi e mi hanno sempre detto: “Vinceremo, abbiamo la vittoria”. Ma io dicevo: “Datemi delle prove, qualcosa, non vedo niente”. E loro non mi hanno mai portato delle prove. La prova è che essi hanno perduto. Non ho mai voluto nient’altro che la pace. Quando i tedeschi sono entrati in Francia, non ero partigiano. Non ho mai detto: “Urrà! Evviva i tedeschi!”. Questo non mi divertiva, al contrario degli altri. I tedeschi sono stati abbastanza stupidi, Hitler in particolare, per non aver fatto la pace al momento opportuno, come noi abbiamo fatto la pace troppo tardi nel ’18. Noi francesi avremmo dovuto farla nel ’15 o nel ’16. Così i tedeschi si sono accaniti, o piuttosto Hitler s’è accanito in alcune operazioni belliche che determinarono la fine della Germania. E’ tutto qui. Sempre questo principio assurdo della guerra. E’ tutto. In quanto a me, non ho da pentirmi di niente. Non sono mai stato sostenitore di questo o di quello. Ero a favore delle armate tedesche, perché esse mantenevano la pace in Europa, in Francia in particolare, e l’aiutavano a conservare le proprie colonie. Ma è tutto. A meno che non mi si provi il contrario. Vorrei chiederle,… perché lei è finito a Sigmaringen? Per il motivo molto semplice che a Parigi non si chiedeva altro che la mia morte. Non avrei voluto neppure la Corte di giustizia. Sarei stato assassinato nell’Istituto dentario, oppure a Villa Said. Tutto era predisposto. Mi sono salvato, me la sono svignata, perché non volevo essere assassinato; né io, né mia moglie. Sono stato beccato. Bene. Siamo intesi. E’ una inezia. Sono stato sbattuto in prigione lassù, in Danimarca. Ho fatto dieci anni di reclusione. Bene. Ma tutto è così banale… Ecco i piccoli risvolti della storia. Ma, in quel momento, ce li spiegano così male, poiché il mondo è materialista e si domanda: “Ma perché? Se ha fatto così, vuol dire che aveva un interesse”. Ma io non avevo alcun tornaconto. Era solo una vocazione al martirio. Mi sacrificavo per i miei simili… Ma… sicuramente non ne vale la pena,… ho pensato di strapparli alla guerra. E’ un particolare che con loro non è il caso di riepilogare. Per loro è meno comprensibile della quadratura del cerchio… Che ci si getti nella mischia senza un giusto motivo. L’ho fatto a scopo gratuito… Come una donna di piacere. E’ tutto. Allora mi hanno insultato, dicendomi: perché? quale vantaggio?... Ma io non ho dei guadagni. Non ho mai detto: “Per di qua. Sono il capo di un partito”. Non sono un uomo politico. Non sono un attore. Ero, credo, uno scrittore e un medico. Sono uscito da questa mia privacy, per entrare in un’orrenda avventura in cui non ho ricevuto che violenze e atrocità. Questo è tutto. Non cambia niente. In questo momento, coloro che mi bersagliano perché sono questo, sono quello, mi seccano. Non debbo essere questo o quello. Non si chiede a una donna se vuole il biondo, il bruno, il nero, il rosso… Lei dice: “Quello mi piace. Oppure, non mi piace più. E via! E’ un alcoolizzato. E’ un pazzo”. Ne ha ogni diritto. Voglio tralasciare queste questioni che, nonostante tutto, sono prive d’importanza… Si tratta veramente di bassezze umane che un po’ di sabbia cancella. Dunque, è un fatto secondario. Ma forse c’è una cosa che può interessarvi… che, mi dispiace, insisto ancora col mio modesto punto di vista. E’ la posizione delle masse umane, dei territori abitati. E’ chiaro che la Francia era la prima nazione del mondo quando contava venticinque milioni d’abitanti, sotto Luigi XIV; il nostro paese dettava legge al mondo. Quando Luigi XIV era indisposto, tutti tremavano per lui. Ai giorni nostri, la Francia non conta più niente per media di nascite, per numero di abitanti. La Francia conta quaranta milioni, di fronte a dei blocchi che contano alcuni miliardi. Oggi, dunque, si parla di miliardi. Già ai tempi di Hitler… il grosso errore di Hitler, è che egli ha parlato in un momento in cui aveva ottanta milioni di uomini dietro di sé. Ma avrebbe avuto quattrocento milioni di uomini dietro di sé; quindi, avrebbe vinto. E’ chiaro. E’ solo una questione di numero. Se non avete la maggioranza, tacete. In questo momento parliamo in un’Europa piccola, molto piccola. La Francia è diventata le Due-Sèvres senza accorgersene. E’ diventata non più importante del dipartimento della Drome o dell’Ariège. Sì, ma lei sa anche che la potenza di una nazione non si misura solo dal numero dei suoi abitanti. Ah, si misura dalle risorse materiali, che la Francia non ha più. Allora non le resta che tacere. Napoleone, che non era così idiota come lo si vuol far credere, diceva: “La Cina è un gigante che dorme. Quando muoverà il dito mignolo, farà tremare il mondo intero”. Siamo nell’epoca in cui il gigante agita il dito mignolo, e ho il fondato timore ch’egli non faccia tremare il mondo. Ma allora quale futuro vede per il suo paese? Non vedo un avvenire migliore della Danimarca, dell’Olanda, e secondario anche rispetto alla Svizzera, che conserva una sua tradizione in queste circostanze. La Francia, invece, è un paese che continua a parlare, ritengo, come sotto Luigi XVI, anche ora che è ridotta come il dipartimento delle Deux Sèvres. Ma quel che blatera non ha alcuna importanza. Non ha più un’autorità, il che è grave. La Francia trae il proprio potere ora dalla Russia, ora dall’America. Da sola non può definire più niente. La questione di Suez lo dimostra. La Francia non ha più una sovranità. Le è stato tolto il comando. E’ obbligata a prenderlo là dove glielo danno in prestito. E questo non sarebbe accaduto, come ho già detto, se fosse stata unita con la Germania. E’ quel che tentano di fare in questo momento. La Francia europea, essi la creano sulla carta, la sperimentano. Ma la storia non rivede mai i piatti. Gli altri hanno una forza schiacciante in fatto di dinamismo e noi, noi restiamo a dibatterci nelle nostre piccole questioni. Non più importanti delle Deux-Sèvres. Non vedo altro… Si raccontano delle storie… ma no… no… Per quel che la riguarda, come vede il futuro? Una frase del suo libro mi ha spaventato. E’ chiaro che il suo libro è un “romanzo”. Ma alla fine questa parola “romanzo” non mi frena poi tanto, poiché la vicenda appartiene tanto a Céline… vi è talmente una parte di lei in questo romanzo. Ora, proprio alla pagina 35 di Da un castello all’altro, lei pronostica il suo suicidio, e tende anche a precisare: in uno scantinato e mediante una carabina. Questo potrebbe anche accadere, è una questione che esamino con molta calma. E’ un problema di gas, di corrente elettrica, anche di fagioli. Mangio molto poco. Bevo solo acqua. Non fumo. L’ascetismo è una mia condizione naturale. Pertanto, solo Dio sa come ho vissuto la mia esistenza. Ma sono un “voyeur”, non un esibizionista. In fondo, vi sono due razze d’uomini: i guardoni e gli esibizionisti. Sono un “voyeur” che si accontenta di guardare. Non sciupo le cose. Ma, anche consumando molto poco, la vita costa egualmente cara. E, se il costo della vita aumenta, i guadagni non aumentano. Allora, può capitarmi una grave malattia. Alcuni accettano di convivere con una terribile malattia. Io no. Ho molti amici che sono malati di cancro, o di tubercolosi. In quanto a me, troverei più naturale andarmene all’altro mondo. Non mi costerà poi tanto crepare. Me ne andrò, finalmente. Seguirò quelli che sono morti. E’ tutto. Se suicidarsi presuppone,… mica male, del disprezzo per se stesso, dicono, Céline, che lei disistimi gli uomini. Forse che questo disprezzo per gli uomini, se è autentico, si spinge fino all’irrisione di se stesso? Sono stato apostrofato in modo assai più chiaro come “il nemico del genere umano”. È un nuovo modo di trattarmi. Sono l’avversario del genere umano. Sono un fautore del genocidio platonico, verbale. Non sanno più che cosa inventare. Ma non è molto importante. Sono delle infamie umane che un po’ di sabbia cancella. Imito la sorella di Marat. Quel che importa veramente è il conto del droghiere, che è molto gentile, ma che è là, e poi poter cogliere la morte, se possibile indolore. Non mi preme che questo. Insomma, conosco bene i rimedi per farla finita. Vuol dire, con questo, che medita sulla propria morte, che è rassegnato a questa idea? Con assoluta tranquillità. Con la maggiore calma possibile! Io adopero il frasario, la retorica se si vuole, per guadagnarmi la vita e quella di mia moglie. Ma, mio Dio, il giorno in cui le forze mi abbandoneranno completamente, e mi scoprirò incapace di provvedere ai miei bisogni, non sarò il solo ad andarmene. Non è una novità… Quale parola vorrebbe pronunciare, quale frase vorrebbe scrivere prima di sparire? “Sono degli imbecilli”. Ecco quel che penso. Gli uomini in genere sono spaventosamente imbecilli. Sono imbecilli e volgari, ecco che cosa sono. In più meschini e bestiali… ma soprattutto imbecilli e volgari. Lei, invece, ha cercato di mostrarsi piacevole? Oh, non ho bisogno di fornire le prove. Sono figlio d’una riparatrice di antichi merletti. Mi ritrovo una collezione abbastanza rara, la sola cosa che mi resta, e sono tra i pochi uomini che sappia distinguere la tela di batista da quella di Valenciennes, la tela di Valenciennes da quella di Bruges, la tela di Bruges da quella d’Alençon. Me ne intendo di cose di gusto. Molto bene. Non ho bisogno d’essere dirozzato. Ne so abbastanza. E conosco nello stesso modo la bellezza delle donne, come quella degli animali. Molto bene. Sono pratico anche di questo. Ma per essere competente, occorre intendersene veramente. È nel proprio laboratorio intimo che ci si occupa di queste cose. Lo ripeto, trovo che gli uomini sono soprattutto degli imbecilli. E’ questo che ci trovo prima di tutto: Dio, come sono imbecilli! Ecco tutto l’effetto che mi fanno. Soprattutto quando cercano di fare i furbi… E’ peggio ancora. E’ tutto quel che riesco a vedere.