lunedì 28 dicembre 2009

Céline gatto randagio



Riceviamo da Marina e pubblichiamo volentieri questa immagine della premiazione del suo "Céline gatto randagio" (segnalata tra l'altro sul Bulletin Célinien di questo mese)...

Un bel ricordo di Giorgio Celli che, benchè ammalato, ha voluto esserciper parlare della Donazione di Giordano Alberghini alla Biblioteca diFiesole e del mio libro su Céline .Io sono l' ultima a destra, la giaccagialla è l' assessore alla Cultura Becattini. I libri sull' estrema destra. Auguri a tutti
Marina


...e Auguri di Buone Feste anche da parte mia!!!

mercoledì 16 dicembre 2009

L’ultimo Bolaño, innamorato di Céline


L’ultimo Bolaño, innamorato di Céline


| Cultura | Giordano Tedoldi
Pubblicato il giorno: 15/12/09 Libero-news


Dalla morte avvenuta nel 2003, la considerazione critica e l’interesse per la vita e l’opera dello scrittore Roberto Bolaño, nato nel 1953 a Santiago del Cile, continua a intensificarsi. L’autoritratto dello scrittore, che pure detestava il genere autobiografico sopra ogni cosa, si precisa con la recente pubblicazione delle sue ultime interviste, uscite in Inghilterra per i tipi dell’editore Melville House con il titolo Roberto Bolaño: The Last Interview, frutto delle conversazioni con la giornalista Monica Maristain su e giù per l’America latina, mentre Bolaño, consapevole della fine imminente per una grave patologia al fegato, portava a compimento il gigantesco 2666 (da poco pubblicato in Italia in una nuova edizione da Adelphi) il romanzo estremo, riassuntivo di tutta la sua poetica.

Desiderio segreto
Nelle interviste con la Maristain dichiarava: «Avrei preferito fare il detective piuttosto che lo scrittore». Ma nel 2002, con la giornalista Carmen Boullosa per la rivista Bomb, deponeva la maschera surreale e irriverente per rivelare i suoi gusti e le sue idiosincrasie letterarie: «Sono molto interessato alla letteratura americana del 1880, specialmente Twain e Melville. E la poesia di Emily Dickinson e Whitman. Mentre da adolescente ho attraversato una fase in cui leggevo solo Poe». E a gennaio Adelphi pubblicherà Tra parentesi (pp. 320, traduzione di Maria Nicola), antologia di interventi per giornali e riviste, saggi, discorsi, in cui Bolaño scrive: «Tutti gli scrittori americani, inclusi quelli che scrivono in spagnolo, a un certo momento delle loro vite colgono all’orizzonte i bagliori di due libri, che sono due strade, due strutture e due argomenti. A volte: due destini. Uno è Moby Dick di Melville e l’altro Le Avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain». L’ammirazione per Twain è così grande che aggiunge: «Tutto quello che hanno scritto Faulkner e Hemingway, e tutto quello che avrebbero voluto scrivere, può stare in una pagina di Huckleberry Finn». Mentre William Bourroughs «è un santo che ha avvicinato tutta la malvagità del mondo perché aveva la delicatezza e l’imprudenza di non chiudere mai la porta». Ma il detective mancato che era in lui lo spingeva a divorare anche la letteratura hard-boiled di Raymond Chandler e Dashiell Hammett, mentre nella fantascienza di Philip K. Dick vedeva «un profeta all’opera».

In un saggio dal titolo Consigli sull’arte di scrivere racconti Bolaño elabora un manuale in dodici punti. Al numero quattro: «Occorre leggere Juan Rulfo e Augusto Monterroso». Monterroso (1921-2003) era uno scrittore guatemalteco famoso per il racconto Il Dinosauro, il cui testo completo è: «Quando si svegliò, il dinosauro era ancora là». Lo stesso Monterroso ricordò che i critici lo attaccarono, dicendo che Il Dinosauro non era un racconto e lui rispose: «No, infatti, è un romanzo». Ma torniamo al manuale di scrittura di Bolaño. Al numero dieci: «Pensa bene al punto nove. Pensa e riflettici. Hai ancora tempo. Pensa al punto numero nove. Nella misura in cui ti è possibile, fallo in ginocchio».

Grande amore anche per la letteratura francese, da Voltaire ai surrealisti. «Mi piace Pascal, il suo modo di affrontare la morte, la sua lotta contro la melanconia. E l’ingenuità utopistica di Fourier. E tutta la prosa, tipicamente anonima, degli scrittori di corte, anatomisti, manieristi, che conduce alle interminabili caverne del Marchese de Sade». Il Dizionario Filosofico di Voltaire è giudicato «uno dei pochi libri che mi hanno cambiato la vita». Mentre tra i moderni l’opera più importante è Nadja di André Breton, il cui manifesto surrealista ispirò a Bolaño il proprio «manifesto infrarealista».

Radicale il giudizio su Céline: «È l’unico autore di cui penso che sia stato al tempo stesso un grande scrittore e un figlio di puttana. Proprio un essere umano abietto. Si stenta a credere che i suoi momenti più gelidamente ripugnanti sembrino coperti da un’aura di nobiltà, il che si può attribuire solo alla potenza delle parole». Bolaño era anche un vorace lettore di filosofia, specialmente i lapidari aforismi di Wittgenstein (il cui Tractatus giudicava tra i 5 libri più importanti di sempre) e del misconosciuto filosofo tedesco del ’700 Georg Christoph Lichtenberg, le cui massime «giocano con l’umorismo e la curiosità, i due elementi più importanti dell’intelligenza. I suoi aforismi anticipano Kafka e la migliore letteratura del ventesimo secolo». E c’è da credergli, incontrando perle come questa: «Non c’è merce più strana dei libri: stampati da gente che non li capisce, venduti da gente che non li capisce, rilegati e recensiti e letti da gente che non li capisce, e ora persino scritti da gente che non li capisce». Non per caso Bolaño lo definiva l’autore «di un capolavoro di commedia nera».

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Céline come al solito fa sempre discutere: come vorremmo che fossero rispettate le idee del Nostro, rispetteremo ovviamente il parere espresso da Roberto Bolaño del Céline "uomo"... anche se temiamo che il giudizio di Bolaño, come spesso accade, sia riferito più ad una "idea" di Céline, che non alla reale biografia dello scrittore francese.

Andrea

mercoledì 2 dicembre 2009

Céline medico e bohemienne...



...di Romano Guatta Caldini, da "Il Fondo Magazine"

«Si adagia la sera su tetti e lampioni e sui vetri appannati dei bar» cantava Capossela nella sua Modì, la canzone dedicata ad Amedeo Modigliani e ai suoi anni folli a Montparnasse, il rifugio di «pittori ciechi, musicisti sordi, giocatori sfortunati e scrittori monchi», per citare Piero Ciampi, uno che la Parigi dei maudits l’aveva conosciuta bene. Da quelle parti, il cantautore livornese, durante uno dei suoi tanti vagabondaggi alcolici, conobbe uno strano personaggio, un uomo scontroso, come tanti se ne potevano trovare in giro per i bistrots. Solo tempo dopo, Ciampi seppe che quell’uomo era uno dei più grandi scrittori di Francia, forse il più grande; si trattava di Louis-Ferdinand Céline.

Quando avvenne l’incontro, tra l’autore di Adius e quello di Voyage au bout de la nuit, era la seconda metà degli anni ’50 del secolo scorso. Mentre per Ciampi, la vita fra le ambientazioni baudeleriane, rappresentò solo un excursus, per Céline, la vita da bohemienne parigino non era di certo una novità. Nel periodo fra il ‘26 ed il ‘30, infatti, l’esistenza di Céline aveva già iniziato ad assumere i tratti tipici del maledettismo. All’epoca, il futuro romanziere era solo un medico squattrinato, con il vizio della scrittura e perennemente circondato da amici stravaganti. Tra questi, il più caratteristico fu sicuramente il pittore Henri Mahé, una sorta di vagabondo della Senna, che viveva, nottetempo, su di una chiatta semovente. Abitazione mobile, che spostava a seconda dell’umore: «Ho sempre fuggito – dirà Mahé – la bohème alcolizzata degli artisti fossilizzati (…) io preferisco fare un salto da carpa nella Senna, è meglio per i miei gusti da aristoanarchico. » Certo, l’umore aveva il suo peso ma anche le retate della gendarmeria contavano, non poco, sulla dislocazione del barcone. L’artista, infatti, era solito dare ospitalità a prostitute, artisti dalla dubbia moralità e delinquenti di ogni sorta. In questo ambiente, Céline imparò il linguaggio spurio della mala, gergo che, tras-posto su carta, fece la fortuna del gatto randagio della letteratura francese, come lo ha definito Marina Alberghini, nel suo monumentale Louis-Ferdinand Céline – Gatto randagio, edito da Mursia.

Lo slang da strada, usato dal romanziere nelle sue opere, ha portato molti critici a dire che Céline sta alla scrittura, come il jazz sta alla musica. Ed era proprio il jazz a far ballare gli ospiti durante le feste in maschera date da Mahé sul suo barcone. Veri e propri baccanali presieduti da Céline, a suon di rigolade, termine difficilmente traducibile, una specie di risata dissacrante e strafottente, simile al me ne frego di mussoliniana memoria. Durante le feste era facile imbattersi in personaggi come Dréna, vedette del Marigny ed ex amante di Al Capone, la caritatevole Germaine Costant, il clown Baby il Magnifico ma anche personaggi più pittoreschi come il principe Alberto d’Urach. Una tribù folle e gioiosa, che cercava nell’ebbrezza della bohème, il modo per soffocare i ricordi, atroci, del primo conflitto mondiale. In questo periodo, Céline incontrò Joseph Garcin, un ruffiano che gravitava e trovava assistenza, presso artisti e letterati. A quest’ultimo Céline annunciò l’avvenuta composizione del Voyage: «Ho scritto un romanzo, qualche esperienza personale, messa nero su bianco, un po’ di follia anche, lavoro enorme… Su tutta la guerra, da cui nasce tutto».

Nel ’27 il romanziere aveva trovato domicilio a rue Lepic 38, a Montmartre, il quartiere che Utrillo, a suo tempo, fra un bicchiere e l’altro, rappresentò in tutta la sua devastante semplicità. Qui, in una cucina arredata alla bretone, Céline scrisse: «dalla rue Lepic si comincia a incontrare gente che viene a cercare della gaiezza sopra la città. (…) Essi si mettono a guardare in basso la notte che fa il gran vuoto pesante (…) Noi eravamo giunti alla fine del mondo, era sempre più chiaro. Non si poteva andare più lontano, perché dopo di questo non c’erano che i morti».

Certo, Céline non era immune dallo spirito goliardico che aleggiava a Montmartre ma questo non gli impedì, mai, di venir meno al suo dovere di medico, soprattutto nei confronti di chi un medico proprio non poteva permetterselo: operai sfiancati dal lavoro e abbruttiti dall’alcool, donne la cui femminilità era stata rubata dall’usura della quotidianità e un immane schiera di vagabondi che la tisi aveva piegato. Erano questi i clienti non paganti di Céline, ammassi di carne e ossa la cui sorte era in mano a borghesi senza scrupoli, parenti europei di quel fordismo che lui stesso aveva visto all’opera, durante la sua visita negli stabilimenti automobilistici statunitensi. Per porre un freno, agli effetti funesti, dell’alienazione capitalistica, Céline aveva scritto un trattato di medicina sociale che, nel ’28, presentò alla Società delle Nazioni, senza, naturalmente, ottenere risposta. Anticipando di decenni la lotta alle multinazionali farmaceutiche: «questo abuso stravagante – scrive Céline – che regna attualmente nelle prescrizioni (…) vero massiccio avvelenamento vilmente autorizzato sulle nostre classi sociali più deboli fisicamente e intellettualmente (…) Questa tossicomania popolare, per la tolleranza quasi illimitata delle ricette farmaceutiche, fa molte più vittime, ogni anno, della cocaina o della morfina.» La sua rabbia anti-capitalista, lo portò a teorizzare una medicina del proletariato: « perché si sa perfettamente bene che è il proletariato, disoccupato o no, che è incomparabilmente più distrutto dalla malattia di quanto lo siano i ricchi».

Del resto, Céline aveva sempre avuto un occhio di riguardo per le classi meno abbienti, per i diseredati, un’inclinazione ravvisabile fin dai tempi del soggiorno africano, quando, Guevara – ante litteram, a sue spese, allestì un ospedale da campo per gli indigeni. C’è da dire, che questa propensione, per la difesa dei più umili, lo portò a simpatizzare per il sistema sovietico: « l’igiene massificata si accorda solo con una formula socialista o comunista di stato.» Una frase che, forse, si pentì di aver detto, dato che al ritorno dalla sua visita in U.R.S.S., nel ’36, Céline scrisse il Mea Culpa. Un pamphlet d’accusa, quest’ultimo, sui limiti del comunismo e sulla falsa dicotomia fra il socialismo reale e il capitalismo occidentale, due sistemi e la medesima finalità; affamare e, quindi, piegare il popolo. Questo il romanziere lo capì benissimo; come del resto lo comprese perfettamente anche Fabrizio De Andrè che, nella trasposizione musicale de Il Dottor Siegfried Iseman di Edgar Lee Masters, scrisse: «E allora capii fui costretto a capire, che fare il dottore è soltanto un mestiere, che la scienza non puoi regalarla alla gente, se non vuoi ammalarti dell’identico male, se non vuoi che il sistema ti pigli per fame».


Da: http://www.mirorenzaglia.org/?p=10700
Grazie Miro Renzaglia, a Romano Guatta Caldini, e a Harm Wulf per la segnalazione!