A proposito di Céline, di Arno Breker
Nel 1940, all’Istituto Tedesco di Parigi, feci la conoscenza di Louis-Ferdinand Céline. All’epoca era considerato tra i più importanti scrittori di Francia. Io conoscevo la sua opera letteraria; lui, la mia scultura. Céline era uno di quelli che, nonostante le differenze tra Francia e Germania, amavano e comprendevano la mia patria. “La piena riconciliazione e la cooperazione tra le nostre due nazioni – queste sono le cose più importanti”, mi disse nel corso del nostro primo incontro. Il desiderio di fare il suo ritratto s’impadronì subito di me. I connotati del suo volto, fortemente pronunciati e vivaci, mi affascinavano. Fisicamente, aveva una peculiarità; ossia c’era una discrepanza tra il volume della sua testa e il suo esile collo, che era emaciato. Intendevo compensare tale discrepanza per mezzo di una sciarpa, proprio come quelle che portava sempre nei suoi ultimi anni. Prima della guerra, trovai Céline molto elegante. Solo in seguito assunse lo stile di un Bohemienne del 19° secolo. Come è noto, viveva circondato da un gran numero di gatti e cani, a Meudon, in una grande casa che aveva iniziato un po’ a decadere. Lì, lo visitai un’altra volta, poco prima della sua morte nel 1961. L’atmosfera del suo appartamento era tipicamente francese. I mobili e gli oggetti intorno a lui, nella loro permanente apparenza, sembravano essere torpidi e immobili per decenni. La polvere e la patina del tempo avevano iniziato a coprirli con una strana immobilità. In quel pomeriggio, Céline mi guardò a lungo negli occhi, parlò pochissimo, e sembrò veramente avere detto nei suoi libri tutto quello che aveva da dire. Le poche parole che disse, riguardarono l’esistenza umana, la sua permanenza sulla terra, e l’eternità.
Mentre me ne stavo andando, Céline mi disse: “Questo non è un addio! Noi rimarremo”. Stringendogli la mano, gli risposi, molto emozionato: “E così sia, mio caro, grande amico”.
(traduzione A. Lombardi)
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