martedì 25 dicembre 2007

Raboni sul Bagatelle di Céline, 2000




Dal "Corriere della sera" del 31 ottobre 2000



Novecento. Pound e Céline come Drieu e Jünger: le opere degli scrittori «politicamente scorretti» sono da sempre oggetto di valutazioni imbarazzate, anche se si tratta di capolavori


di Giovanni Raboni


Due episodi variamente remoti ma tuttora carichi, temo, di senso o insensatezza. Nel 1953 l’editore Guanda, benemerito diffusore in Italia, a quei tempi, della migliore poesia straniera contemporanea, pubblicò la traduzione integrale dei Canti pisani di Ezra Pound. La storia di questo capolavoro è fin troppo nota: Pound lo scrisse, appunto, a Pisa, in un campo di concentramento dove era stato rinchiuso subito dopo l’arrivo delle truppe alleate sotto accusa di alto tradimento per aver collaborato durante la guerra, lui americano, alla propaganda antiamericana del regime fascista; e Pound, nei Canti , non si smentisce né si discolpa. Non importa come la dolorosa vicenda sia finita; importa, ai fini di ciò che ho in animo di dire, che l’edizione italiana del poema uscì con una fascetta che diceva pressappoco così (cito a memoria e, dunque, con qualche rischio di inesattezza, ma sono sicuro sia del significato complessivo che dei termini essenziali): «Questo libro dimostra che anche con delle idee sbagliate si può fare della grande poesia». Secondo episodio. Nel 1981 lo stesso editore Guanda, passato nel frattempo in altre mani, pubblicò la traduzione italiana di Bagatelle per un massacro , il più famoso e famigerato dei famigeratissimi pamphlets anticomunisti, anticapitalisti, antisemiti, antitutto, scritti da Louis-Ferdinand Céline fra il 1936 e il 1941. Per essi, oltre che per una qualche (mai del tutto dimostrata) connivenza con gli occupanti tedeschi, Céline aveva subìto in Francia, finita la guerra, una dura condanna penale successivamente condonata. La comparsa del volume suscitò sulla nostra stampa reazioni molto violente. Fra le tante voci scandalizzate o addirittura orripilate (ma ce ne furono anche di intelligentemente pacate: per esempio, Piergiorgio Bellocchio su Panorama e Cesare Cases su L’Espresso ), una mi colpì in modo particolare: quella di Alberto Moravia, che in un elzeviro apparso su questo giornale si sforzò diligentemente di dimostrare che Bagatelle , oltre ad essere infame, era anche noioso e mal scritto. Se ho rievocato queste vecchie storie è perché mi sembra che esse riflettano tuttora i due modi più tipici con i quali la cultura «politicamente corretta» tende a risolvere e, se così si può dire, a sublimare il proprio imbarazzo di fronte ai Grandi Reprobi della letteratura. Sappiamo tutti, credo, di chi stiamo parlando. Due - forse i maggiori - li ho già nominati; ma Pound e Céline non sono certo i soli a trovarsi in questa scomoda e, più ancora, incomodante situazione. Basti pensare agli altri collaborazionisti effettivi o presunti, dal norvegese Knut Hamsun ai francesi Pierre Drieu La Rochelle, Robert Brasillach, Henri Montherlant, Paul Morand; o ai tedeschi indiziati di un’adesione un po’ troppo convinta (anche se ritirata, per loro e nostra fortuna, prima che fosse davvero troppo tardi) come il grande Ernst Jünger e il grandissimo Gottfried Benn. Tutti, come si vede, ufficialmente «di destra»; e della più raccapricciante sin qui esistita. Ma chi si sente di escludere che un analogo imbarazzo possano suscitare un giorno o l’altro, se già un po’ non lo stanno suscitando, Sartre o Aragon, Eluard o Neruda? Il comune senso della correttezza politica è più mutevole (o, per adattare un termine alla moda, «revisionabile») di quello del pudore. Ma torniamo ai due espedienti con i quali, negli scorsi decenni, si è generalmente cercato di liquidare il problema. Il primo consiste nel negare qualsiasi nesso tra il valore dell’opera e le idee dell’autore: in parole povere, Pound è stato un grande poeta, ma in fatto di politica, di economia, di storia ecc. non capiva nulla, era un irresponsabile, forse un folle; non bisogna badare a quel che dice, ma solo a come lo dice. Il secondo è, in un certo senso, ancora più sbrigativo: se uno scrittore pensa male deve essere per forza - almeno lì dove, o da quando, pensa male - un cattivo scrittore. Ergo: Céline, dopo aver scritto due capolavori come Viaggio al termine della notte e Morte a credito , è improvvisamente finito, e tutti i suoi libri successivi sono, oltre che da non leggere, illeggibili. Diverse, anzi opposte, le due posizioni hanno tuttavia qualcosa in comune: sono entrambe di matrice idealistica e sono entrambe, secondo me, radicalmente sbagliate. Una grande poesia, un grande romanzo, un grande dramma, insomma un grande testo letterario che non contenga, oltre e dentro la bellezza della scrittura, anche un nucleo di grandezza etica, un principio attivo di verità, è - a mio avviso - una contraddizione in termini; semplicemente, «non si dà». Ma bisogna, quella grandezza etica, quella verità, saperle trovare; e niente è più improprio che cercarle soltanto in quella che San Paolo chiamava la lettera (avvertendo, come nessuno dovrebbe ignorare, che «littera occidit, spiritus autem vivificat») e Roland Barthes il «grado zero» della scrittura. Le idee di uno scrittore contano, e come; solo che si nascondono - e, insieme, si rivelano - nelle sue metafore, nelle sue iperboli, nelle sue immagini, nello spessore materiale della sua voce. E allora? Allora rileggiamoli, i Grandi Reprobi di oggi e di domani; rileggiamoli badando non solo a ciò che dicono, né solo a come lo dicono, ma al continuo riversarsi e convertirsi dell’una cosa nell’altra, alla dialettica che essenzialmente e inesauribilmente si instaura tra forma e contenuto o, meglio, tra forma del contenuto e contenuto della forma, insomma all’infinita circolazione del senso in ogni fibra visibile e invisibile dell’indivisibile realtà testuale. E a quel punto, solo a quel punto, scopriremo forse che se il muro di Berlino, per la letteratura, non è ancora caduto è perché per la letteratura, forse, non è mai esistito.

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