mercoledì 3 aprile 2019

“L’umanesimo paradossale di Céline”, di Antoine Jaquier




Louis-Ferdinand Céline – seicento pagine, è troppo breve.

Leggere Viaggio al termine della notte e pensare che Céline aveva ragione. Con questo testo, pubblicato nel 1932, ha ostacolato la letteratura francese per almeno un secolo. O perlomeno, niente sarebbe stato mai più come prima. Ma i rappresentanti del panorama letterario non avevano intenzione di lasciar vacillare le loro certezze. Trecento anni passati a nuotare a rana e a rallegrarsene, ed ecco che un medico dei poveri inventa lo stile libero. Un invalido della Grande Guerra! I lettori applaudono. Peggio, comprano.

Gaston Gallimard, che si era fatto soffiare il manoscritto da Denoel&Steel, piccolissimo editore dell’epoca, è offeso. Il Goncourt sfugge a Céline e i salotti letterari lo aspettano al varco per infangare il suo prossimo libro e cercare di ristabilire lo stile accademico.
Tuttavia, il quadro della nostra umanità, in tutta la sua cupezza, era già lì e vi scoprivamo l’emozione del linguaggio parlato nella scrittura. Il romanzo lirico. Una piccolissima invenzione, diceva Céline. Gli impressionisti avrebbero reinventato la pittura in reazione all’arrivo della fotografia; lui, come per resistere al cinematografo, ha fatto sorgere il romanzo lirico. Il romanzo diventa una sinfonia emotiva. In principio non era il Verbo, affermava, in principio, vi era l’Emozione.
Poi si inizia a leggere Morte a credito. Allora si capisce che non è finita. Anzi. L’infanzia non aveva detto l’ultima parola e nemmeno la letteratura. Stavolta, è attraverso gli occhi del piccolo Ferdinand che scopriamo il mondo degli adulti. La svolta del 19esimo secolo come se ci fossimo. La miseria del popolino. È noir senza essere avvilente. Anzi, esplosioni! Uno humour corrosivo, uno sguardo tagliente. Céline alterna misantropia e tenerezza infinita  verso alcuni personaggi. Sembra che il momento dell’andare a letto sia il momento preferito del piccolo lettore. Alcune righe prima di spegnere la luce. L’umiliazione suprema per un autore: il mio testo sarebbe soporifero?
Per addormentarvi, dimenticate Céline. Leggere una frase rende elettrici. Un capitolo? È come una discussione animata con un vecchio amico. L’arborescenza della rete neuronale si accende, poi brilla. Evidenze! Paradossi! Formule! Rivolte! Meraviglie! Andate a dormire dopo tutto questo. Ad ogni sessione finisco per rialzarmi così digerisco la mitraglia. La luce azzurra degli schermi ci renderebbe insonni?
Illuminiamoci alla luce oscura di Céline.

Terribile ombra nel quadro: il suo antisemitismo. Ci lascia sconcertati per il fatto che avremmo voluto poterlo amare totalmente. I suoi pamphlet pubblicati alla fine degli anni Trenta sono ignobili e gli varranno la condanna al carcere e all’oltraggio nazionale. Tuttavia, dopo la guerra pubblica Da un castello all’altro, seguito da Nord e Rigodon, ed è di nuovo la vertigine. Lanciarsi nella trilogia tedesca, cronache della vita dei collaborazionisti rifugiati in Germania, vi teletrasporta alla fine della seconda guerra mondiale con un realismo unico.

I 1.142 esiliati (cifra sua) del regime di Vichy sui quali francesi e tedeschi sputano di comune accordo poiché nessuno ama i traditori. Un angolo morto che solo Céline ha mostrato. Chi altro avrebbe potuto lasciare la traccia di una storia che vorremmo dimenticare? Sigmaringen. L’erranza. Circolare in una Berlino devastata. Tra le macerie di una Amburgo a brandelli in compagnia di un gruppo di bambini disabili.
E Céline narra la sua esperienza personale. Parla di ciò che conosce! Ogni primo paragrafo scricchiola/scoppietta come la miccia di una dinamite. Non se ne esce illesi. Le nostre convinzioni si sgretolano. L’umanità sporca e la bellezza dello stile. Louis-Ferdinand Céline, è un’opera a frammentazione. E questo affetto dell’autore nei confronti dei bambini – dei più deboli, degli oppressi del sistema in generale. Il suo paradossale umanesimo. Il suo amore per gli animali. Il suo gatto Bébert.

In quanto autore, per me, Céline, è la certezza di non potermi mai credere geniale. Qualsiasi cosa faccia e anche in questi momenti di euforia letteraria dove posso sentirmi, come diceva Arturo Bandini, l’alter ego di John Fante, “il più grande scrittore del mondo”, so che sono lontano mille leghe.
Questo grigiore indotto dai nostri stessi testi, che sembra comune agli autori e che ci consente di avere la presunzione di pubblicare i nostri lavori, viene tenuto a freno per fortuna da Céline, Dostoevskij, Ramuz e tanti altri.

Lungi dall’inibirmi, questi autori mi ispirano. Mi motivano e mi convincono che pubblicare non è vano. Che bisogna accanirsi. Migliorarsi. Scrivere il libro che vorremmo leggere. Lo stile. Lo stile! Solo lo stile conta. La storia è secondaria. Delle storie, ne sono pieni i giornali, le serie TV e i film. Essere se stessi il critico più severo. Evitare di essere lento. Evitare di essere pesanti. Il sorriso interiore. Mettere il proprio fegato sul tavolo, trarre ispirazione dal vissuto, non esitar a scrivere in prima persona, trasporre, sedersi al tavolo e non aver paura di sporcarsi le mani nella morchia della natura umana. Come affermava il dottor Destouches: “La grande ispiratrice, è la morte.”

Articolo apparso su “Le Temps” del 16 febbraio 2019. Traduzione di Valeria Ferretti.

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