Louis-Ferdinand
Céline – seicento pagine, è troppo breve.
Leggere
Viaggio al termine della notte e pensare che Céline aveva ragione. Con
questo testo, pubblicato nel 1932, ha ostacolato la letteratura francese per
almeno un secolo. O perlomeno, niente sarebbe stato mai più come prima. Ma i rappresentanti
del panorama letterario non avevano intenzione di lasciar vacillare le loro
certezze. Trecento anni passati a nuotare a rana e a rallegrarsene, ed ecco che
un medico dei poveri inventa lo stile libero. Un invalido della Grande Guerra!
I lettori applaudono. Peggio, comprano.
Gaston
Gallimard, che si era fatto soffiare il manoscritto da Denoel&Steel,
piccolissimo editore dell’epoca, è offeso. Il Goncourt sfugge a Céline e i
salotti letterari lo aspettano al varco per infangare il suo prossimo libro e
cercare di ristabilire lo stile accademico.
Tuttavia,
il quadro della nostra umanità, in tutta la sua cupezza, era già lì e vi
scoprivamo l’emozione del linguaggio parlato nella scrittura. Il romanzo
lirico. Una piccolissima invenzione, diceva Céline. Gli impressionisti
avrebbero reinventato la pittura in reazione all’arrivo della fotografia; lui,
come per resistere al cinematografo, ha fatto sorgere il romanzo lirico. Il
romanzo diventa una sinfonia emotiva. In principio non era il Verbo, affermava,
in principio, vi era l’Emozione.
Poi
si inizia a leggere Morte a credito. Allora si capisce che non è finita.
Anzi. L’infanzia non aveva detto l’ultima parola e nemmeno la letteratura.
Stavolta, è attraverso gli occhi del piccolo Ferdinand che scopriamo il mondo
degli adulti. La svolta del 19esimo secolo come se ci fossimo. La miseria del
popolino. È noir senza essere avvilente. Anzi, esplosioni! Uno humour corrosivo,
uno sguardo tagliente. Céline alterna misantropia e tenerezza infinita verso alcuni personaggi. Sembra che il
momento dell’andare a letto sia il momento preferito del piccolo lettore.
Alcune righe prima di spegnere la luce. L’umiliazione suprema per un autore: il
mio testo sarebbe soporifero?
Per
addormentarvi, dimenticate Céline. Leggere una frase rende elettrici. Un
capitolo? È come una discussione animata con un vecchio amico. L’arborescenza
della rete neuronale si accende, poi brilla. Evidenze! Paradossi! Formule!
Rivolte! Meraviglie! Andate a dormire dopo tutto questo. Ad ogni sessione
finisco per rialzarmi così digerisco la mitraglia. La luce azzurra degli
schermi ci renderebbe insonni?
Illuminiamoci
alla luce oscura di Céline.
Terribile
ombra nel quadro: il suo antisemitismo. Ci lascia sconcertati per il fatto che
avremmo voluto poterlo amare totalmente. I suoi pamphlet pubblicati alla fine
degli anni Trenta sono ignobili e gli varranno la condanna al carcere e all’oltraggio
nazionale. Tuttavia, dopo la guerra pubblica Da un castello all’altro,
seguito da Nord e Rigodon, ed è di nuovo la vertigine. Lanciarsi
nella trilogia tedesca, cronache della vita dei collaborazionisti rifugiati in
Germania, vi teletrasporta alla fine della seconda guerra mondiale con un
realismo unico.
I
1.142 esiliati (cifra sua) del regime di Vichy sui quali francesi e tedeschi
sputano di comune accordo poiché nessuno ama i traditori. Un angolo morto che
solo Céline ha mostrato. Chi altro avrebbe potuto lasciare la traccia di una
storia che vorremmo dimenticare? Sigmaringen. L’erranza. Circolare in una
Berlino devastata. Tra le macerie di una Amburgo a brandelli in compagnia di un
gruppo di bambini disabili.
E
Céline narra la sua esperienza personale. Parla di ciò che conosce! Ogni primo
paragrafo scricchiola/scoppietta come la miccia di una dinamite. Non se ne esce
illesi. Le nostre convinzioni si sgretolano. L’umanità sporca e la bellezza
dello stile. Louis-Ferdinand Céline, è un’opera a frammentazione. E questo
affetto dell’autore nei confronti dei bambini – dei più deboli, degli oppressi
del sistema in generale. Il suo paradossale umanesimo. Il suo amore per gli
animali. Il suo gatto Bébert.
In
quanto autore, per me, Céline, è la certezza di non potermi mai credere
geniale. Qualsiasi cosa faccia e anche in questi momenti di euforia letteraria
dove posso sentirmi, come diceva Arturo Bandini, l’alter ego di John Fante, “il
più grande scrittore del mondo”, so che sono lontano mille leghe.
Questo
grigiore indotto dai nostri stessi testi, che sembra comune agli autori e che
ci consente di avere la presunzione di pubblicare i nostri lavori, viene tenuto
a freno per fortuna da Céline, Dostoevskij, Ramuz e tanti altri.
Lungi
dall’inibirmi, questi autori mi ispirano. Mi motivano e mi convincono che
pubblicare non è vano. Che bisogna accanirsi. Migliorarsi. Scrivere il libro
che vorremmo leggere. Lo stile. Lo stile! Solo lo stile conta. La storia è
secondaria. Delle storie, ne sono pieni i giornali, le serie TV e i film.
Essere se stessi il critico più severo. Evitare di essere lento. Evitare di
essere pesanti. Il sorriso interiore. Mettere il proprio fegato sul tavolo, trarre
ispirazione dal vissuto, non esitar a scrivere in prima persona, trasporre,
sedersi al tavolo e non aver paura di sporcarsi le mani nella morchia della
natura umana. Come affermava il dottor Destouches: “La grande ispiratrice, è la
morte.”
Articolo
apparso su “Le Temps” del 16 febbraio 2019. Traduzione di Valeria Ferretti.
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