martedì 7 marzo 2017

Arletty, Sartre e Céline, di di Marco Fagioli e Stefano Lanuzza su "il Giornale" e "Libero"

IL GIORNALE

Arletty, la diva ribelle che girò capolavori e si condannò all'oblio

Cinque anni fa era stata la volta di un romanzo poliziesco con lei per protagonista (Occupe-toi d'Arletty, di Jean-Pierre de Lucovich, Plon), adesso è la volta di una nuova biografia (Arletty, di David Alliot, Tallandier, pagg.304, euro 19,90) che ha per sottotitolo la celebre replica data dall'attrice a chi in tribunale le imputava d'essere stata l'amante di un ufficiale tedesco durante l'Occupazione: «Si mon coeur est français, mon cul, lui, est international». Arletty è morta all'inizio degli anni Novanta: era divenuta cieca, da un trentennio aveva smesso di apparire sulle scene, aveva raggiunto relativamente tardi il successo, a quarant'anni, e a quarantacinque si era ritrovata con la carriera stroncata, appunto per collaborazionismo, e appena un pugno di film all'attivo. Però erano tutti capolavori e per essere stati girati in quell'arco di tempo che andava dalla caduta del Fronte popolare alla drôle de guerre, all'occupazione e poi alla liberazione, avevano incarnato gli anni più appassionati e più torbidi della storia nazionale, un passato che non è mai passato e che continua ad affascinare fra pentimenti, revisioni e rivendicazioni.


Era la Francia, Arletty, ed era Parigi: troppo affascinante per essere dimenticata, troppo ingombrante per essere semplicemente epurata. Quando Les enfants du Paradis (Amanti perduti è il titolo in italiano) uscì nei cinema il 2 marzo del 1945, lei era agli arresti domiciliari: «Arletty ha dato il suo addio al pubblico con la migliore interpretazione della sua carriera», scrive allora Georges Sadoul, il migliore critico cinematografico comunista dell'epoca, e più che una recensione è una pietra tombale. «Dopo essere stata la donna più invitata di Parigi, adesso sono la più evitata», è il suo commento.

Rispetto ad altre attrici più belle, Arletty aveva dalla sua un'allure tutta particolare, una voce inimitabile, uno spirito aristocratico nel suo essere di popolo. Di estrazione semplice, famiglia operaia («non sono stata allevata, mi sono elevata»), nata a Courbevoie, a due passi dalla casa dove pochi anni prima era nato Céline, il suo vero nome era Léonie Marie Julia Bathiat: il nome d'arte le venne dato dall'anglicizzazione di Arlette, un personaggio di Mont-Oriol di Maupassant, e dopo aver scartato quello che lei ironicamente si era scelto: Victoire de la Marne. Aveva cominciato con l'operetta e le riviste di varietà e a lungo sosterrà che il teatro era il suo lusso e il cinema gli spiccioli da spendere quotidianamente. Senza avere mai girato un film muto, Fric-Frac, con Michel Simon, e Hotel du Nord, con Louis Jouvet, la imposero subito all'attenzione. Poi verranno Alba tragica, Madame Sans Gêne, L'amore e il diavolo, Amanti perduti.

Vestiva Schiaparelli, posava per van Dongen e Kisling, era amica di Colette, di Marcel Aymé, di Drieu la Rochelle («un nome da romanzo. Bel tipo anglosassone. Vien voglia di chiamarlo Sir Drieu...»), del già citato Céline. Senza essere una bellezza moderna, era allo stesso tempo straordinariamente umana eppure distante, gli occhi color della Senna, il fisico solido dalle lunghe gambe, un volto purissimo. Poche come lei ebbero il senso della battuta, la replica fulminante, il gusto della libertà assoluta: «Chiudere le case chiuse, più che un delitto è un pleonasmo» sarà il suo commento alla legge sulla prostituzione che segna la fine dei bordelli. Bisessuale, ai tempi del suo processo per collaborazionismo, interrogata su conquiste e frequentazioni femminili replica: «Sono un gentiluomo» e quando le chiedono come si senta in carcere risponde: «Non troppo resistente». Anni prima, a un indiscreto che le aveva chiesto se fosse gollista aveva detto: «No, gauloise».

Non cattolica («con Dio ci siamo frequentati, ma non ha funzionato»), e però appassionata dell'Irlanda, «un popolo che non si batte per del petrolio, ma per una messa», più pagana che atea, appassionata della Roma dei Cesari, pigra per natura, nella canzone di Garance, l'eroina di Les enfants du Paradis, è racchiuso il suo modo d'essere: «Sono come sono, / sono fatta così. / Quando ho voglia di ridere, rido a crepapelle! / Amo chi mi ama: / ed è colpa mia / se non è sempre lo stesso / quello che ogni volta ama me».


Lo «scénario» che Céline scrisse per lei, Arletty, jeune fille dauphinoise, appare ora tradotto in Arletty, Sartre e Louis-Ferdinand Céline, di Marco Fagioli e Stefano Lanuzza (Aiòn, pagg. 111, euro 14), un volumetto che mette insieme più testi céliniani intorno a un saggio critico dove si alternano curiosamente citazioni tradotte e altre lasciate in francese, l'indicazione di un incontro fra Arletty e Trotsky nel 1941, cioè un anno dopo la morte di quest'ultimo, e alcune foto, fra cui il nudo censurato dell'attrice in Alba tragica, una spugna a guisa di foglia di vite a coprire il pube. Il libretto attribuisce a François Gibault, biografo principe di Céline, la narrazione «intensamente descritta» delle esequie di quest'ultimo, che è invece puro succo delle memorie di Arletty: «Alla sepoltura definitiva, un gatto rossiccio si installa vicino alla bara durante la cerimonia; un bambino innaffia i fiori di una tomba vicina; un agrifoglio cresceva a fianco. Quello che avrebbe desiderato. Il bambino, l'animale, l'arbusto. Getto sulla sua tomba un po' di terra di Courbevoie».




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