La
mia Germania
«Da un castello all'altro» di Céline
Francesco
Biamonti
Basta
guardare una foto di Celine, ciò che colpisce è un'aria da clochard,
uno sguardo perduto, una collera poetica. È la collera che lo ha portato a scrivere Vo-yage
au bout de la nuit un grido feroce e disperato, incubo visionario imperniato
sull'assurdità
della vita umana. La
letteratura dell'assurdo venuta dopo (La nausea di Sartre, Lo
straniero di Camus) gli deve certamente qualcosa.
Ma ciò
che caratterizza Celine è lo stile parlato e quel ritmo ch'egli chiamava la
petite musique. «I miei libri sono stile, nient'altro, solo stile. È la
sola cosa che bisogna cercare scrivendo. Chissà quanti hanno tentato di
copiare il mio stile... ma non possono. È tutto ciò che ho, lo stile,
nient'altro. Non ci sono messaggi nei miei libri, è un affare di Chiesa. Non
ho messaggi da portare. I
messaggi sono per gli altri. Montaigne,
Schopenhauer. Io non sono che un piccolo raccontatore di storie. Io lavoro.
Sempre. È la mia vita.
Il
foglio di carta bianca una è la mia pietra
tombale: "Qui giace
l'autore". Io non dormo. Ho preso una pallottola nell'orecchio nel
'14-18. Non hanno mai potuto togliermela. Allora, la notte scrivo».
Disperazione
e stile, avvolti dal sarcasmo, su fondo di emozione. «C'è
chi dice: "Al principio era il Verbo!". Fesserie! io dico: "Al
principio era l'emozione". Vedete l'ameba; vedete il bambino appena nato
e che grida. L'emozione è la verità».
Per
questa emozione, che secondo lui porta alla replica, allo scherzo, al fiore
del linguaggio, Celine ha coperto di sarcasmi la Francia in ginocchio. Non ha
collabo-rato con nessuno, ma i tedeschi gli hanno offerto spazio sui giornali
e la maniacalità della contumelia lo ha perduto.
Per paura (aveva ricevuto «tre piccole bare, dieci lettere di condoglianze, almeno
venti lettere di minaccia, due coltelli a serramanico, una piccola granata inglese
e cinquanta grammi di cianuro... si pensa a me nelle tenebre»), per paura e a
malincuore è fuggito a Baden-Baden, dove convergono diplomatici tedeschi e
collaboratori di tutti i Paesi. È sua intenzione raggiungere la Danimarca,
dove, prima della guerra, aveva messo il suo oro ina cassetta di sicurezza. Ma non
potendo lasciare la Germania, raggiunge i collaboratori francesi rifugiati a
Sigmaringen. Con lui è la moglie, e, dentro la tasca di
un lurido giubbotto, il gatto Bébert.
Ora è
riproposto da Einaudi Da un castello all'altro il resoconto del
soggiorno che Celine fece in Germania fra il 1944 e il 1945. La nuova e bella
traduzione è di Giuseppe Guglielmi. E si attiene magistralmente allo stile furioso
e corrosivo del testo originale, ne restituisce le fantasmagorie e i processi
verbali. Il mondo è quello della disfatta dei collaborazionisti, di Lavai, di
tutta la Francia di Vichy. Va da sé che per uno scrittore come Celine disfatta
e catastrofe, freddo, bombardamenti, ignominiosa fuga sono una festa totale, un
recul all'agognato fondo della notte, da cui lanciare imprecazioni,
lamenti, sarcasmi, maledizioni, tutto un vecchio repertorio popolare, memore
di un defunto anarco-nichilismo. Quei giorni sono descritti con veemenza e
ilarità. Descritti? Si fa per dire. Che tutto è visto a lampi, a squarci, a
trasalimenti della memoria. È un grande incubo, una sinfonia percorsa da grida
strozzate, da suoni rauchi
di gola, da musichette che vengono dal fondo dei tempi. L'apocalisse è
in marcia. Siamo sulle rive dell'A-cheronte, dov'egli aspetta amici e nemici
per le sue vendette postume. Non mancano i vagabondaggi nella storia alla
ricerca di una consorteria di sventura, un astuto tentativo, in verità, di
nobilitare il suo destino. Compaiono spartachisti, girondini, templari,
giuseppisti (hidalgos collaborazionisti di Giuseppe Bonaparte) tutti i
massacrati, i vinti, carne da fucilazione. Esorcizza in qualche modo il suo
destino, di cui sembra gioire. La sua è musica da sfacelo: Laval, Pétain menano
la danza: marionette sinistre. Sono tutti nel brago, sotto le bombe, nelle
stazioni sconvolte: generali, ammiragli, funzionar! politici, donne dai
capelli biondo cenere, «dotate per la troiaggine», profughe di ogni Paese,
tedesche, francesi, lituane «gambe all'aria, bianche quasi argento». E
cantano... Per così dire!
«Sono successe delle cose... molte
cose... vi racconterò...». Questo intercalare di Celine, questa chiusa nel pieno
della tensione fa venire in mente certi conteurs di paese. Quante volte
li ho sentiti!
Si
interrompevano all'improvviso: «Non so pili mettere in piedi la
mia storia... Aspettate! "E partivano per deliri, per fantasie fuori del
seminato. Solo che qui c'è poco da sorridere, la sarabanda copre fatti gravi, gravissimi,
non escluso il crimine. Ma che volete? La mente umana è piena di follia e
spesso si corre con gioia lamentosa alla propria perdizione, all'orgogliosa
cerimonia funebre. Celine immagina di essere fucilato, arrostito,
ghigliottinato (con Mauriac che lima la mannaia con pietà girondina). Ce l'ha
con tutti, in definitiva: con Sartre, con Aragon, con Vailland che aveva
giurato di ucciderlo, con Elsa Triolet, con Claudel, con Montherlant... I suoi
nemici sono dappertutto, dalla Costa Azzurra alla Scandinavia, nelle case editrici,
nel bunker di Berlino. Non c'è infamia, d'altronde, di cui non si accusi e si
carichi: ha venduto al nemico la linea Maginot e il porto militare di Tolone.
Ma c'è
un punto dolens ch'egli copre e di cui forse si vergogna,
l'antisemitismo. Diventa sofista, giunge a dire d'aver lanciato agli ebrei ingiurie
e rampogne per scongiurare la guerra e il loro massacro. Strana, oscura argomentazione. La sua
arte qui non funziona; non riscatta, come si diceva una volta.
*
* *
L'aspetto
di Celine, da mendicante fuori del tempo, il sorriso tra ghiacciato e triste,
l'incapacità di finire una frase senza
inceppare nel balbettio, destano simpatia. È un caso umano oltre che
letterario. Ora in Francia se ne discute molto: sono appena uscite le sue Lettres
à la Nrf, naturalmente piene di insulti a Gallimard e a Pau-lhan, che dopo
la prigionia lo hanno spronato a scrivere e hanno cercato di aiutarlo. Ecco
come ragiona della sua fatica in Da un castello all'altro. «Sono più in
condizione, andiamo!... mi casca la penna!...» "Ma no, Céline... lei è
in gran forma, invece!... l'età più bella! Cervantes!... Le insegno
niente!"... Il trucco di tutti gli editori per spronare i loro vecchi
ronzini... che Cervantes era uno sbarbatello!... 81 calende!».
Odiato
dagli uni, ammirato dagli altri, la curiosità intorno
a lui grande. Sono andati persine a far
parlare il suo pappagallo, Toto. (Si sa che questi uccelli vivono centinaia
d'anni). Attirato dal grano, dopo un lungo silenzio, Toto si decide e grida:
«Gaston du pognon!» e in un grande battito d'ali: «Monsieur est absent». Ride
nasale e dice ancora: «Paulhan, faux pédé». Passano dieci minuti e infine
esclama: «La littérature se meurt!» (Mah! Sarà vero?).
Questa
letteratura céliniana suscita ancora infinite discussioni,
questo stile tutto parlato con frasi a filo spinato, irte di esclamazioni e
puntini di sospensione. Nessuno ne nega l'importanza. È l'acuminato, eterno
lamento; forse viene da Giobbe, certamente dalla letteratura maledetta. «O toi, le plus savant et le plus
beau des An-ges... O Satan, prends pitie de ma longue
misere!».
Per
ciò che riguarda il suo mondo morale, ne ho sentite tante di
opinioni, persino raffinate spiegazioni del suo antisemitismo. «Che volete?»
mi diceva tempo fa Bernard Simeone, scrittore e italianista. «Aveva bisogno di
un grande nemico. E quale più grande nemico del popolo eletto, diretta
emanazione di Dio? Si, era un grande scrittore, ma un uomo dell'alto
medioevo».
“il Giornale”, 12 novembre 1991
Grazie a Raffaello Bisso per la segnalazione!
Grazie a Raffaello Bisso per la segnalazione!
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