Compie ottantotto anni il Maestro bolognese, un "europeo di provincia" che ha onorato
un'idea di letteratura come teatro dell'esistenza
BRUNO QUARANTA
Evoca una legnaia la biblioteca di Ezio Raimondi,
vasta, esuberante, tropicale. Ogni volume un ciocco via via arso e
riarso, una scintilla di sapere, di libertà, di dignità, perché no?, di
carità. L’autobiografia di una lunga fedeltà, ottantotto anni appena
compiuti, di colloquio in colloquio, una tavola rotonda di color che
sanno, dove Manzoni e Leopardi, Gadda e Renato Serra, Curtius e
Machiavelli si riconoscono a vicenda, facendo rotolare i loro dadi,
tenendo a bada il montaliano verdetto: «Il calcolo dei dadi più non
torna»...Nelle stagioni, Ezio Raimondi, un maggiore dell’Università bolognese (della cultura europea, aggettivo nella sua carta d’identità così cardinale), ha onorato un’idea di letteratura come «teatro dell’esistenza», quindi inattaccabile dalle muffe, dalle «scuole» curve sul loro ombelico, sorde al «sentimento tragico» che pulsa nella case, nelle strade, nei fori interiori.
«Il libro come creatura vivente, quasi un amico»... Una vita ascoltando Le voci dei libri, come Ezio Raimondi ha battezzato il suo ritratto di lettore per Il Mulino. Dalla cucina domestica, la madre donna di servizio in veste di maieuta, ancorata ai Miserabili di Victor Hugo, ai doni per il futuro di Luciano Serra, eroe di El Alamein, nipote di Renato (Gadda, Tesauro, Pasolini), all’Università, allievo di Calcaterra, alla cattedra d’italianistica, esplorando un ventaglio di sentieri, da Dante a Foscolo, da Verga a D’Annunzio, da Bachtin a Bloom.
E’ incastonata nella Bologna a mezza collina la casa di Raimondi. Una città, oggi, in questa tersa ouverture di primavera, immemore di ogni discesa all’inferno: «Qual pare a riguardar la Garisenda / sotto ‘l chinato, quando un nuvol vada / sovr’essa sí, ched ella incontro penda...».
Raimondi, lettore in erba.
«Esordii con L’Avventuroso. Ne ricordo le illustrazioni, straordinarie. Flash Gordon nel mondo astrale fu il primo incontro con la modernità futura. Fantastici i fumetti. Quando Calvino ne tesseva l’elogio: “...io che non sapevo leggere potevo fare benissimo a meno delle parole, perché mi bastavano le figure”».
E «Pinocchio»? E «Cuore»? Non se ne avverte la voce.
«Vero, non li cito, chissà... Vi sarebbe di che meditare. Di sicuro non mi sfugge ciò che significa Pinocchio: l’ingresso, per un ragazzo, nel mondo della letteratura attraverso il quotidiano, il dialogo continuo tra bene e male».
Nitida, invece, la voce del giallo.
«Il giallo Mondadori. Wallace, per esempio, ovvero il romanzo nero trasfigurato nella dimensione gialla. O l’arte per l’arte che accende Philo Vance, la creatura di Van Dine, quasi un’avvisaglia di D’Annunzio».
Dove acquistava i gialli?
«In una vecchia libreria. I più erano malandati. Li dotavo, ad uno ad uno, di una sovraccoperta su cui, a penna, riproducevo un’immagine dell’Avventuroso che mi aveva colpito. Contavo allora dieci, undici anni: a posteriori riconoscerò, nei gialli, un’educazione alla logica».
La sua iniziale «Storia della letteratura» fu quella di Flora, «libro - afferma - forse più dimenticato di quanto non si debba». Al vertice delle «Storie» quale pone?
«Una grande pubblicità corredò l’uscita dell’opera di Flora, inducendo mia madre a farmene dono. E’ il lirismo eloquente la sua impronta. A svettare, invece, è la Storia del De Sanctis. Una storia di tendenza. Ad animarla una dinamica civile. Traduce in maniera geniale le categorie di Hegel in una storia dello spirito italiano, collocandola nella prospettiva europea».
Leopardi e Manzoni, architravi di De Sanctis.
«Leopardi. Il suo classicismo è fondato sull’idea di ciò che si è perduto. Sente, sa, perché è un moderno, che con il passato, con l’universo degli antichi, bisogna misurarsi essendo venuti dopo. Occorre guardare indietro perché non vi si può più tornare. Il poeta, sono solito dire, come l’uomo cacciato dall’Eden».
Manzoni. Lei ci ha insegnato che «I promessi sposi» è un «romanzo senza idillio». Ma la Provvidenza non è idilliaca?
«Il Dio che atterra e suscita non è la promessa di alcun idillio. Michele Barbi, filologo principe, osserva che la parola Provvidenza non è mai pronunciata dallo scrittore, bensì dai suoi personaggi. Si riapra l’edizione del 1840, dove anche iconograficamente si distrugge il lieto fine. All’ultima pagina del romanzo, dov’è raffigurata una famiglia felice, segue La storia della colonna infame, che non è propriamente un paradiso terrestre».
Sessant’anni fa moriva Croce. Lei si considera un postcrociano. Che cosa resta di Don Benedetto?
«Piuttosto che il costruttore del sistema, rimane il letterato-filosofo, l’erudizione vivificata dalle idee».
E sessant’anni fa scompariva il Maestro con cui si laureò, Carlo Calcaterra.
«Su Petrarca. In realtà avrei voluto laurearmi in letteratura tedesca con Lorenzo Bianchi. Lo stesso Bianchi - tali i tempi, il suo lettore, ancorché eccelso, era nazista - mi suggerì di rivolgermi a Calcaterra. Né mi sarebbe dispiaciuto coronare gli studi con Roberto Longhi. Francesco Arcangeli, suo allievo, me lo propose. Ma per ragioni temperamentali ed economiche - bisognava dotarsi di mezzi costosi per condurre la tesi - vi rinunciai».
Longhi...
«Lui in cattedra. Io in fondo alla sala di storia dell’arte. Usava magistralmente la sua ironia. Riuscii ad avvicinarlo una sola volta prima dell’esame. Con la tecnica dei libri. Ma incauto, sprovveduto, mi presentai con un testo dell’inviso Berenson. Equilibrai lo scivolone con i Principi fondamentali della storia dell’arte di Heinrich Wölfflin».
Longhi, Arcangeli, Giorgio Morandi. Quale il corrispettivo del Maestro bolognese in letteratura?
«La sua idea di natura pare germinare dalla Ginestra leopardiana, il cui umanesimo - come mi è capitato di riflettere - “è l’epilogo non inatteso di un’esperienza poetica legata sino all’ultimo all’idea di una crisi metafisica dell’uomo e disperatamente rivolta a un’etica del nulla, da vivere, al di sopra di una storia personale, come pietà magnanima e austera”».
Cruciale, nella sua biografia intellettuale, è Renato Serra. In che cosa consiste il fascino incorruttibile di questo critico scomparso nella Grande Guerra?
«Intuii ciò che sarebbe venuto alla luce. A lungo, Serra è stato presentato, penso a De Robertis, come un mito fiorentino. In realtà sarà la voce di una letteratura non umanistica. Sulla scia di Kipling. Ma non unicamente. Attraverso i francesi, da Montaigne a Rabelais, maturerà un’idea di letteratura che fermenta nel quotidiano, lui che correva in bicicletta, che preferiva discorrere con la gente comune, anziché con gli accademici, che era sensibile alle donne».
«Un europeo di provincia: Renato Serra» si intitola un suo saggio. «La genialità prodigiosa della sua solitudine provinciale»: così saluta Leopardi. Che cos’ha di «aureo» la provincia?
«E’ il luogo del concreto e dell’autentico. Che consente di maturare una prospettiva più ampia, europea, ecco, restando fedeli alle rispettive cune».
Tra i libri che ha riconosciuto come essenziali, «Letteratura europea e Medio Evo latino» di Curtius. Un antidoto contro la dissoluzione dell’identità europea. Quale scrittore, meglio di altri, «è» l’identità europea?
«Il Thomas Mann di Giuseppe e i suoi fratelli: spalanca un mondo mitologico e storico, che si rinsalda con una modernità più urgente nella Montagna incantata o magica. Non dimenticando Musil, Broch, Eliot».
Le domeniche trascorse con Giuseppe Guglielmi traducendo Céline. Perché entrare in Céline?
«Pure Céline è un rappresentante del negativo. E’ uno scrittore antideologico. Con accenti che riconducono indietro, nel passato, nel Pascal di là della fede. Perché Port-Royal è un passaggio obbligato nella cultura francese, anche per i non cattolici. Da Pascal può sortire una tradizione nichilistica. Che cos’è l’abisso? Bloom ha dedicato pagine essenziali a Milton e al demonio, spiegando che Satana è il modello del poeta forte moderno. Céline è parte di questa scrittura infernale che sospinge alla miseria e alla pietà».
Se le fosse dato di tenere un ultimo corso, quale l’argomento?
«I corsi li pensavo in autobus. Individuavo un libro, ne affiorava un problema che diventava il racconto del corso. Sull’autobus non salgo più da tempo...».
Ma il tema dell’estrema lezione, per Raimondi, è annidato nei Promessi sposi, quella massima che è stata, che è, la sua divisa, il suo specchio: «La vita è il paragone delle parole».
(fonte: Tuttolibri, in edicola sabato 24 marzo)
Grazie a Valeria per la segnalazione!
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