Marcel Aymé. Realista clinico e insieme fantastico, perfido dissimulatore, Marcel Aymé ha dato il suo meglio nei racconti, ora edito da L'Orma, dove la vecchia Montmartre si fa spaccato di vita "impolitico"
Chi risalga la collina di Montmartre dalla rue Lepic, appena lasciato alle spalle il Moulin de la Galette che fu immortalato da Pierre-Auguste Renoir nel più celebre dei suoi fermo-immagine, di colpo si ritrova in uno spiazzo panoramico proprio all’ingresso della avenue Junot ed è lì che può imbattersi nella statua in bronzo di un uomo che, letteralmente, fuoriesce dal muro. Nella stessa Parigi oggi non molti rammentano che si tratta di un omaggio al Passamura, titolo eponimo di Marcel Aymé (1902-1967), scrittore poligrafo e sommamente prolifico, dio minore della piccola comunità della Butte, i cui vicini di casa, amici suoi di tutta la vita (perché l’uomo fu un esempio di totale fedeltà ai luoghi e alle persone), si chiamavano Gen Paul e nientemeno Louis-Ferdinand Céline: negli anni imminenti sulla guerra, pochi metri dividevano infatti casa sua dallo studio del maestro delle tinte nere (Gen Paul virava sempre, persino i pastelli, verso spessori di tenebra) e dall’appartamento al 4 della rue Girardon, domicilio di quel dottor Destouches che poteva vedere ogni mattina infilare gli occhialoni e inforcare la moto per dirigersi al dispensario di Bezons, il presunto covo di ebrei e comunisti di cui avrebbe straparlato ogni sera ritrovando gli amici in una delle bettole nei paraggi.
Magro, olivastro di carnagione, ossuto, gli occhiali scuri e a specchio che tanto affascinavano il fotografo Izis, un volto quasi impedito al sorriso, Aymé era come si dice uno scrittore-scrittore, un occhio clinico paradossalmente vocato all’invenzione dal vero. Benché abbia lasciato una quantità esorbitante di pagine a stampa e di testimonianze private, benché in vita sua sia stato costantemente uno scrittore di prima fila, se non proprio alla moda, in realtà sembra non avere avuto una biografia e tanto meno una ideologia. Non che fosse ambiguamente schierato, questo no, ma il fatto è che ai suoi occhi il complesso di sensazioni/sentimenti/idee che caratterizza gli esseri umani o si rifletteva sulla pagina in una precisa dinamica di fatti e di azioni o restava invece nel non-essere di una letteratura astratta o in sostanza mancata e, pertanto, da lui sdegnata come irrilevante. Anzi, mistificatoria. Egli era insomma tutto quanto nella pagina che stava scrivendo e dunque realizzava l’antipode dell’autore engagé: perché Aymé era un uomo della scuderia di Gaston Gallimard ma non mancava di concedere racconti a «Je suis partout», era un intimo di molti resistenti (su tutti di Jean Paulhan) e tuttavia il firmatario della istanza di grazia al generale De Gaulle in favore del collaborazionista Robert Brasillach, era infine il libertario che senza mai ostentare i valori repubblicani aveva scritto nel ’52 una pièce dal titolo eloquente, La tete des autres, che rimane uno sferzante atto di accusa contro il filisteismo della magistratura e l’esistenza in vita della ghigliottina.
Pure se da molto tempo pleiadé (vale a dire immortalato in ben tre volumi della «Bibliothèque de la Pléiade» cui va aggiunto il ricchissimo Album Aymé, iconographie choisie et commenté par Michel Lécureur, Gallimard 2001) nel suo paese resta un autore più rispettato di nome che non commentato e studiato di fatto, insomma estraneo al cosiddetto Canone, mentre in Italia della sua vasta produzione (racconti, romanzi, bozzetti, memorie autobiografiche, partiture teatrali e cinematografiche) residuano soltanto alcuni titoli isolati: Le storie del gatto sornione, saettante saga per bambini proposta da Donzelli nel 2005 con un omaggio di Jacqueline Risset; Il passamura, che forse è il libro più suo, intramato di lievissime magie e pubblicato dal Vascello nel ’94, poi senz’altro La giumenta verde, un romanzo eroicomico del ’33 (riproposto da Fazi nel 2006) che, ambientato in provincia al tempo della Terza Repubblica e portato al cinema da Claude Autant-Lara, veicola una satira impudente, leggera e sboccata, dei tabù nazionali e di ogni credo patriottico.
Ma se per i romanzi Aymé ricorre sempre al mestiere, specie negli snodi narrativi perfettamente calibrati o nelle torniture un po’ troppo modellate e talora risapute o stereotipe (e in proposito l’amico Céline gli rinfacciava un certo fignolage, cioè l’astuzia della rifinitura), la sua arte eccelle viceversa nella forma-racconto e nelle più veloci imbastiture: lì c’è il suo tocco inimitabile, l’inventiva sbrigliata, la leggerezza mai cedevole, il brillìo improvviso della parola e lo scatto del giro di frase, insomma il suo sguardo spiazzante e umanissimo che nemmeno i surrealisti, tanto più attrezzati e à la page, hanno mai saputo attingere con una simile naturalezza. Ne dà conto pienamente l’antologia intitolata Martin il romanziere e altre storie fantastiche (L’Orma, pp. 205, euro 16.00) per la cura di Carlo Mazza Galanti che ne firma quella che potrebbe anche definirsi, per adesione filologica e consonanza linguistico-stilistica, una vera e propria versione d’autore.
L’antologia comprende sei racconti databili fra il ’38 e il ’50 e perciò riferibili agli anni buoni di Aymé che furono (vistoso paradosso per un autore tanto impolitico) gli stessi della guerra e della Occupazione. Ne fa fede l’incipitario La carta del tempo, un pastiche dove il razionamento delle vettovaglie è duplicato dal razionamento del tempo di vita circa le categorie di cittadini ritenuti improduttivi, vale a dire pensionati, disoccupati, marginali ma anche scrittori e artisti in generale; qui lo sdoppiamento fra la realtà in terza dimensione, il tran-tran quotidiano, e l’altrove di una non-vita o di una simil-vita si libera in fantasmagorie buffe e libertine con effetti di candido grottesco o di mite, sempre carezzevole, bouffonnerie: «15 aprile. Declinato per stasera un invito dai Carteret, che mi pregavano di assistere alla loro agonia. È una nuova moda delle persone swing quella di riunire amici in occasione della propria morte provvisoria. A volte, mi è stato detto, queste riunioni sfociano in promiscuità orgiastiche. È rivoltante». In proposito, scrisse Baudelaire nei suoi diari che lo spirito della bouffonnerie di rado sa legarsi allo spirito di carità ed è come se avesse antiveduto certe pagine volanti e struggenti di Aymé, il cui estro splende a costante temperatura anche nel racconto terminale, Le Sabine, la vicenda di una donna (una piccolo-borghese all’apparenza spenta e castigata) che ha il dono della ubiquità in quanto è capace di sdoppiarsi all’infinito e di vivere in contemporanea il qui e l’altrove dentro una trafila di incarnazioni le quali si moltiplicano a cadenza logaritmica: come nel più classico appeal narrativo, vi si scatena l’ingordigia del sesso e dei soldi per il semplice fatto che Aymé, con tutta la sua aria svagata e lunare, con tutto il suo girare a vuoto e la testa campata in aria, ha in effetti i piedi ben piantati sul terreno della clinica naturalista.
Egli è un dissimulato ma severo osservatore della piccola borghesia e dei suoi microcosmi domestici (ora opachi e ordinari, ora invece sordidi e scurrili) ma per concedersi un’ottica spiazzante (la levità, il bluff, la fantasmagoria) egli deve anche fingere di dimenticarsene. Deve perciò simulare quel candore e quella tenerezza che infatti per lui non sono dei semplici tratti elettivi ma sono appunto i risultati di una acuta e certe volte perfida dissimulazione. Nella sua mite gesticolazione scritta Aymé è molto più vicino a un Jacques Tati che non a un umorista predeterminato, e infatti è lontanissimo dalla parodia, non va a caccia di trovate ma di azioni fortuite, semmai, e di occasioni impensate. Osserva nella prefazione Mazza Galanti: «Lo scrittore riesce insomma a far coincidere con esattezza (…) l’invenzione fantastica della struttura narrativa con il materiale quotidiano, realistico e sociologico à la Zola, delle sue ambientazioni predilette. In tal senso si potrebbe forse definire quello di Aymé come un realismo fantastico (…) ma la deformazione fantastica non si limita ad assolvere la funzione di semplice cornice e lo straniamento che ne deriva è ottimo carburante per le più spericolate interpretazioni del lettore contemporaneo». Un lettore che, in Italia come nella stessa Francia, il passamura Marcel Aymé a conti fatti non ha mai avuto.
Massimo Raffaeli
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