Che ringraziamo!
L'opera di Céline in brevi schede bibliografiche, estratti, notizie e interviste.
venerdì 22 novembre 2013
mercoledì 13 novembre 2013
Scrittura e oralità nell'opera di L.-F. Céline, di Giulia Grementieri
Siamo felici di postare questo estratto della tesi di laurea di Giulia Grementieri, intitolata "Scrittura e oralità nell'opera di L.-F- Céline" e la ringraziamo per le belle parole sul nostro blog riportate nel secondo paragrafo postato.
2.2
Tecnica e stile di Céline
Personalità eccentrica e
fortemente contraddittoria Louis-Ferdinand Céline, come abbiamo visto non nasce
con l’intenzione di fare lo scrittore: infatti non ha radici dalla letteratura
ma ha una formazione in ambito medico. Céline è stato il primo scrittore nel
Novecento a introdurre nella lingua scritta il sentimento, l’emozione della
lingua parlata e l’autenticità. Lo stile letterario di Louis-Ferdinand Céline è
spesso definito, e a lui va il merito, per aver rappresentato una «rivoluzione
letteraria»[1].
Egli ha inventato un modo
nuovo di scrivere, un linguaggio riconoscibile e ha spaziato in ogni campo,
dalla letteratura alla musica.
Louis-Ferdinand Céline
appartiene a una serie letteraria che comincia con scrittori come Ernest
Hemingway, con un abbandono totale del racconto psicologico, e si avvicina a
letterati come James Joyce e Samuel Beckett. Spesso, però, il nome di Céline è
accostato ad un altro grandissimo scrittore come Marcel Proust. Proust e Céline,
entrambi bretoni, sono stati, riconosciuti, infatti, come i più grandi
romanzieri francesi del Novecento attraverso l’originalità della loro
scrittura, per il loro stile inconfondibile.
Come fa notare Vitoux, i
loro romanzi sono molto dissimili e i due autori si presentano distanti «à des
années-lumière l’un de l’autre»[2] .
Come nota Jean
Bloch-Michel: «les lecteurs de Céline ne sont pas ceux que cette œuvre touche
parce qu’il s’y trouvent à leur aise, dans un language qui est leur», ma
«plutôt ceux qui sont sensibiles à des qualités esthétiques extrêmement
raffinées qu’ils découvrent dans cette œuvre»: insomma, essi «apparteinnent à
la même famille que les lecteurs de Proust ou de Dostoïevsky: ce sont
simplement des gens qui aiment la littérature, non des gens à qui Céline a
ouvert l’accès a la littérature»[3].
Dal punto di vista
stilistico Céline ha compiuto l’impossibile miracolo di introdurre il “parlato”
nella scrittura e ha creato una forma letteraria e una rivoluzione stilistica
senza precedenti che verrà omaggiata e riprodotta da molti scrittori successivi come Charles
Bukowski ed Henry Miller. Bukowski in confronto a Céline risulta meno
graffiante e più di facile lettura, la sintassi
è meno strutturata e decisamente vicina alla “cattiva scrittura” di cui
Céline faceva uso e di cui lo scrittore americano era grande estimatore
infatti, nei suoi libri cita lo scrittore francese più volte, a partire da Shakespeare non l’ha mai fatto, fino al
suo ultimo romanzo Pulp. Una storia del
XX secolo, verso il quale si dichiara debitore[4].
Ha dichiarato Céline
stesso:
[...] La cosa che mi
interessa più di tutto è scrivere, dire tutto quello che ho da dire, con
passione; non potrei fare altrimenti. Ci ho messo gli anni a mettere giù
Viaggio al termine della notte. Ma ce ne vorranno forse cinque di anni per
scrivere il libro che ho cominciato. Voglio che sia come una cattedrale gotica.
Ci saranno buoni e cattivi, assassini, massoni, come viene in principio, finché
tutto prenderà ordine, se ne avrò la forza, come in una cattedrale. [...] Il
mio stile? Se lo abbasso al livello famigliare e volgare, è perché è così che
lo voglio[5].
Gli idiomi creati da
Céline non esistono, un aspetto importante dello stile celiniano è dato
dall’importanza dei neologismi, parole che l’autore inventa.
Nel tono, nel linguaggio,
nei luoghi descritti e nelle atmosfere sociali si comprende lo squallore
dell’esistenza umana, del suo degrado. La narrazione si fa grido e ritmo,
sostenuto da un linguaggio fatto di un argot
popolare. I personaggi vivono in un’immobilità stagnante, fatale, ineluttabile,
per cui tutto procede senza che si possa intervenire. Il suo stile è
anticonformista, si basa sul linguaggio parlato, e conferisce autenticità alle
emozioni descritte[6].
Lo stile di Céline, scrive
Lanuzza, si compone di una dialettica che erompe nella sua scrittura, si
riversa in un vero e proprio caos: fluido, magmatico e fluttuante. Uno scorrere
che nell’argot tipico-delirante dello
scrittore trova il suo miglior linguaggio espressivo-comunicativo. Una
scrittura e uno stile letteralmente sovversivo e innovativo. Dal taglio
originale, come se fosse un inarrestabile Joyciano flusso di coscienza, che
scompiglia la scrittura simbolica nell’ordine del discorso. Anche la sintassi
viene messa a soqquadro:
Tre puntini di sospensione
e punto esclamativo. Frasi con intonazioni sospensive […] e frasi con
intonazioni esclamative: un po’ in tutte le narrazioni […] Céline, manieristico
imitatore di sé stesso, le adopera per dare alla frase un ritmo sincopato,
attuare una scansione musicale delle proposizioni e inventarsi una logica
enunciativa ellittica e senza subordinate. […] Stile esclamativo”! di Céline:
d’un autore che non interroga ma dà risposte. Sempre perentorie[7].
Un argot come gesto e grido che insiste sul significato risonante,
prosegue Lanuzza:
una specie di instancabile
passo semantico, di orgiastico spasimo metrico ritmante l’insofferenza e, ancor
più, l’esacrazione […] Scrittura non sequenziale, quella di Céline: leggibile
per impressioni ed emozioni liberamente collegate. […] In sovrappiù […] c’è
l’aggiunta del tema dell’odio: odio per la lingua del potere, odio di chi
scrive in nome della volontà di potenza della parola contro la storia della
società[8].
Alberto Albasino, che
incontrò, a Meudon, Céline descrisse la sua esperienza e tratteggiò Céline come
un medico dedito ai suoi pazienti e uno scrittore scrupolosissimo, sempre alla
ricerca del modo di rendere l’emozione nello scritto, tanto da etichettare lo
scrittore con l’ appellativo di “stilista”. Lui in un intervista usa a dare
questa spiegazione: «Perché io sono uno stilista, solo questo. [...] Mi importa
soltanto lo stile [...]. Ma a me interessa solo il punto di vista emotivo: solo
questo appare nel libro»[9].
Nel suo saggio Poétique de Céline Henri Godard sottolinea
che, nonostante la plurivocità dell’autore, la sua voce rimane «unica» e
rappresenta la forza dell’opera:
Essa [la voce] si è
imposta di primo acchito, poi riaffermata di libro in libro: è essa che
ritroviamo, identica a se stessa, interamente presente e impossibile da
confondere, in qualunque pagina dei suoi romanzi. La plurivocità che essa
coltiva non è che uno dei suoi caratteri, i suoi accenti sono dipendenti da
essa. Al di là dei suoi effetti, per quanto ricchi e sottili siano, c’è una
maniera, diversa da tutte le altre e consustanziale all’opera, di scrivere il
francese, ed è prima di tutto a questa maniera che diamo il nome di Céline[10].
Secondo Alexander Styhre
l’uso sperimentale dei puntini di sospensione come dispositivo letterario nella
scrittura di Céline porta alla pura innovazione, sorprendentemente poco curata
dalla letteratura, e alla capacità d’innovare allo stesso modo con i segni grafici del trattino o la virgola[11].
L’eccellenza del
linguaggio celiniano, inarrivabile per qualsiasi altro scrittore e,
contrariamente a quanto immaginabile frutto di un pazientissimo, ed
accuratissimo lavoro, di come una data frase può essere scritta per suscitare
la giusta emozione, come per le pagine dei manoscritti di uno dei libri, da
molti considerati come minori, della Trilogia
del Nord, Céline, scriveva decine e decine di migliaia di pagine. Come
afferma Badellino nella terza parte del suo scritto:
La cosa che più mi
colpisce, aprendo un libro di Céline […] è certamente il linguaggio. Un brano
tipo di Céline è pieno zeppo di “allucinazioni, deliri, controsensi”, il tutto
imbastito nel suo linguaggio funambolesco che ha tanto del soliloquio del
demente. […] Ogni pagina, lontana dall’essere scritta di getto come sembra, è
frutto di molteplici riscritture e di un pazientissimo lavoro di lima[12].
E spiega: «Céline, con la
sua “Petit Musique”, come egli stesso ebbe a chiamarla, creò uno stile che
raggiunge il nucleo incandescente dell’emozione originaria»[13].
La sua lingua affronta
diversi periodi raggiunge l’apice sperimentalista negli anni ’50 con Guignol’s band (1944) e La Trilogia del Nord dove la scrittura si
presenta in maniera stranissima: piena di puntini di sospensione e piena di
punti esclamativi come a replicare le pause e l’incisività nel discorso parlato.
Il parlato si presenta molto esasperato, la lingua appare disarticolata, i
personaggi balbettano e bofonchiano. Riguardo al primo, a parere di Celati le
pagine di questo libro sarebbero:
pura musica di parole, che
a me sembrano il più audace tentativo mai fatto per narrare uno stile musicale:
per sfuggire quel genere di divagazione sospesa e senza oggetto che solo la
musica può compiere[14].
In un intervento del 1980,
dopo aver manifestato la propria attrazione per le parole celiniane così
asfissianti e distruttive ma vibranti di un ritmo senza pari, Celati parla di
scrittura jazzisticamente orientata che faccia finta con «le frasi a
braccio-di-morto-che-cade»[15],
poiché «scrivere jazz si potrebbe a svelti passaggi, piccoli silenzi, e
variazioni d’improvviso che portan via»[16],
Gianni Celati invita a leggere a voce alta
Guignol’s Band; che egli stava allora traducendo per Einaudi,
interpretandone l’anima musicale e focalizzando: «I toni bassi. E i piccoli
silenzi, le riprese, le note stridule, le scale con variazioni al momento
giusto. La voce-strumento e la penna-sax»[17].
Convinto che l’emozione possa essere catturata solo attraverso il linguaggio
parlato, Céline impegna la propria scrittura in questo trasferimento dal
parlato allo scritto assumendo la qualità logica e grammaticale del discorso
alle urgenze dell’enunciazione. Il parlato si propone proprio come il parlato
reale che trasmette emozioni, la lingua
è come destrutturata e dà l’impressione che lo scrittore voglia procedere
solamente per suoni come a richiamare un recupero del primordiale che rompa con
il formale. Secondo Julia Kristeva in Guignol’s
Band sarebbe proprio la scrittura céliniana a produrre la strategia
musicale – che utilizza prevalentemente i processi della segmentazione e
dell’ellissi sintattica: «Céline musicista si rivela uno specialista della
lingua parlata, un grammatico che concilia mirabilmente la melodia e la logica»[18].
Céline rifiuta in realtà
di dare un centro a ogni unità del racconto. Introduce differenti novità
lessicali, come vocaboli che non hanno equivalente in italiano e nelle altre
lingue, un ritmo originale. Céline, come nella sua personalità, è uno scrittore
contradditorio; il suo stile mescola il linguaggio orale al linguaggio scritto
ed è facilmente identificabile e riconoscibile. La sua scrittura è chiaramente
dominata dalla violenza, le frasi sono brevi spesso esclamative. La ripetizione
di uno stesso gesto o di una stessa parola genera una particolare ritmicità. Il
suo linguaggio si compone di neologismi, onomatopee e di vocaboli che imitano i
suoni della quotidianità. Céline ha uno stile particolare nei suoi romanzi,
tale ritmo distintivo domanda al suo autore un riguardo del tutto particolare.
2.3
Le comunità céliniane
In Italia c’è sempre stato
un occhio di riguardo verso Louis-Ferdinand Céline, in particolare nell’ultimo
periodo, e anche in occasione del cinquantesimo anniversario della morte
avvenuta nel 1961. Nei decenni successivi alla sua morte e con la rivisitazione
storica e la rivalutazione commerciale sono aumentati i lettori di questo
grande scrittore.
Alcuni di questi, tra i
più “fedeli” hanno contribuito alla diffusione biografica e letteraria di
Céline, tantissimi gli ammiratori e le comunità che si sono create negli anni
nelle quali è vivo non solo il ricordo letterario dell’opera, ma anche il
dibattito e il confronto tra i suoi “seguaci”. Una di queste grandi comunità è
per esempio quella creata da Andrea Lombardi e Gilberto Tura, uno dei primi
blog italiani animato da post e notizie, testimonianze, interviste ed estratti,
anche rari, della vita e dell’opera dello scrittore[19].
Particolarmente visitato è anche lo spazio, all’interno del blog, dedicato alle
iniziative presenti e future quali conferenze, convegni, recensioni dove il
tema centrale è sempre il percorso letterario di Céline. Attualmente in Italia
sono stimati in circa migliaia lettori dell’opera céliniana, e questo fenomeno
risulta ancor più presente, diffuso e amplificato in Francia dove tra i
principali siti dedicati allo scrittore segnalo i più noti: LE PETIT CÉLINIEN sito di attualità
celiniana[20], Société d’études céliniennes[21],
l’ottimo L’ombre de Louis-Ferdinand
Céline, “Réflexions, commentaires et
critiques sur l’écriture, la vie et
l’esprit de Céline” di Pierre Lalanne[22], Céline en phrases, sito diretto da
Michel Molus[23], e la bibliografia degli
scritti dello scrittore di Jean-Pierre Dauphin e Pascal Fouché[24].
È interessante analizzare
come l’influenza letteraria di Céline si sia consolidata dopo la sua morte.
Anche la critica si è esposta sempre di più con giudizi positivi riuscendo a
ridurre al minimo l’influenza negativa avuta dal pensiero politico dello
scrittore e difficilmente accettato soprattutto nel periodo post-bellico. Non
solo la letteratura ma anche il ruolo della censura è stato completamente
rimesso in discussione, scardinato dal coraggio e dalla violenza lirica del
fluire delle pagine celiniane così come Céline pochi altri hanno avuto questo
ruolo di frantumazione con un certo tipo di critica moralistica: tra questi si
può certamente ricordare Henry Miller. Tra gli aspetti meno noti, ci sono poi
alcune curiosità di comunità esterne a quelle letterarie che traggono tuttavia
ispirazione dal pensiero dello scrittore: tra questi l’infinita comunità degli
animalisti di tutto il mondo che riconoscono a Céline di essere stato un
precursore nella lotta alla difesa dei diritti agli animali, la presenza di
questi ultimi non solo è riscontrabile nelle pagine dei suoi scritti ma una
costante della sua vita. In particolare il gatto, animale che Céline adorava e
con il quale aveva un rapporto quasi spirituale, è facile quindi trovare il
volto emaciato di Louis-Ferdinand accanto a uno slogan per i diritti degli
animali.
[1]
Jean–Yves Guérin et Agnès Spiquel, Les
révolutions littéraires aux XIX et XX siècles, Presses Universitaires de
Valenciennes 2006, p. 187.
[2]
Frédéric Vitoux, Céline, Belfond,
Paris 1978, p. 21.
[3]
Jean Bloch-Michel, Le Présent de
l’indicatif, Gallimard, Paris
1963, p. 119.
[4]
Charles Bukowski, Pulp. Una
storia del XX secolo,
Feltrinelli, Milano 2013.
[5] AA.VV., Giancarlo Pontiggia (a cura
di), Céline e l’attualità letteraria,
SE, Milano 2001, p. 24.
[6]
Renee Winegrarten, Céline: the problem,
American Scholar, Vol. 65, Issue 2, Spring 95, p. 286.
[7]
Stefano Lanuzza, Maledetto Céline. Un
manuale del caos, Stampa Alternativa, Roma 2010, p. 200.
[8] Ivi, p. 192.
[9] Alberto Arbasino, Parigi o cara, Adelphi, Milano 1995, p.
42.
[10]
Henri Godard, Poétique de Céline,
Gallimard, Paris 1985, pp. 181-182.
[11]
Alexander Styhre, Céline and the Aesthetics
of Hyperbole: Style, Points, Parataxis and Other Literaty Devices, “Ephemera”,
vol. 11, issue 3, 2011, p. 263.
[12] Paolo Badellino, La follia controversa di Louis-Ferdinand Céline, in «Rivista
sperimentale di Freniatria», vol. 108, 1984, p. 28.
[13] Ivi, p. 29.
[14] Gianni Celati, Céline, jazz a credito, in «Effe», 2, primavera 1996.
[15] Gianni Celati, Scrivere Jazz si Potrebbe, e Charlie Parker Sarebbe Contento, in «Musica
80», 2 marzo 1980, p. 24.
[16]
Ibidem.
[17]
Ibidem.
[18]
Julia Kristeva, Power of Horror: An Essay
on Abjection, Columbia Univerisity Press , New York
1982 (trad. it., Poteri dell’orrore:
saggio sull’abnegazione, Spirali, Milano 1981).
[19]
http://www.lf-celine.blogspot.it/
[20]
http://www.lepetitcelinien.com
[21]
http://www.celine-etudes.org
[22]
http://celinelfombre.blogspot.com
[23]
http://www.celineenphrases.fr
[24]
http://www.biblioceline.com
martedì 12 novembre 2013
Céline pilota, di Jean Dubuffet
Céline pilota
di Jean Dubuffet
Il modo disgustoso in cui è stato trattato Céline dall'intellighentia francese, benché
logico e prevedibile nel clima degli ambienti letterari e giornalistici, resta
comunque uno dei fatti più desolanti ai quali io abbia assistito. Considero Céline
come un inventore geniale, un poeta (ma questo termine così trito di poeta lo
definisce molto fiaccamente) di portata considerevole, non soltanto ai miei
occhi il più importante nel nostro tempo ma addirittura nei molti secoli che
costituiscono i tempi moderni, una delle più grandi chiavi di volta della
storia dello scrivere. Che questo non sia stato compreso di primo acchito dagli
intellettuali contemporanei, o per lo meno non in misura sufficiente per far
tacere i loro risentimenti e i loro ignobili cavilli, che essi abbiano fatto
blocco con una così perfetta solidarietà per denigrare questa creazione
monumentale e trasportarla in un ambito meschino di politica, è cosa solo a
stento credibile. Perché un simile fenomeno abbia potuto prodursi su così vasta
scala bisogna che l'arte di scrivere sia oggi in tutti gli spiriti assai
deviata rispetto al suo statuto originario, che sia stato affatto dimenticato
quello che ci si può, che ci si deve aspettare da essa. Bisogna che la natura
dell'arte e delle sue danze sublimi sia del tutto occultata, e che siano
notevolmente calate le temperature alle quali lo spirito si riscalda; bisogna
che il gusto per il pensiero analitico e discorsivo (eterna
insidia) abbia nettamente preso il sopravvento sulle incandescenze della
creazione poetica, e che alla letteratura altro non si richieda, se non di
raziocinare su argomenti cosi palmari, così oziosi, così piatti come i dibattiti di sociologia e di civismo.
È francamente stupefacente dover constatare che i nostri poeti — perfino quelli
che strombettano da posizioni che si pretendono ormai liberate dai luoghi
comuni dell'etica — fanno un coro così superbo con i motivetti più scalcagnati
e più stupidi della sociologia e del patriottismo. Eccoci ritornati ai bei
tempi delle guerre di religione.
Il bello è che soltanto chi è in
malafede può attaccar briga con Céline in nome della salute pubblica e del
patriottismo. Mai conosciuto un uomo dal cuore più caldo, più patriottico,
più pronto a fraternizzare di lui: esemplare. Ma ci sono due modi di essere
patriota, quello della testa e quello del cuore; il modo astratto, dottrinale,
e il modo attivo e immediato. Inutile dire che Céline rientra nel secondo.
È bene notare che
l'ostilità di cui fu oggetto Céline si dichiarò molto tempo prima che egli
avesse manifestato le sue opinioni su un qualsiasi argomento politico;
l'atteggiamento demistificatorio che appariva fin dai suoi primi libri ne fu
probabilmente la causa. L'intellighentia capì subito che c'era uno che si era
messo a smascherare — così come si smina un campo. Lo statuto
dell'intellighentia riposa tutto su un sistema di vasta impostura con una rete
così complessa di postazioni e di trincee che anche se l'una o l'altra di esse
salta non mette in pericolo l'insieme; ma quando compare un guastatore
risoluto, colui che aggredisce direttamente la centrale, il grande sabotatore,
le campane suonano a martello e gli associati di ogni grado corrono sulle mura
con l'olio bollente. L'intellighentia ha, per consenso unanime, la funzione
sociale di criticare le istituzioni senza danneggiarne le fondamenta, di
assumere il ruolo di difendere il pubblico contro la malversazione (per
impedire che ci sia qualcuno che lo faccia sul serio); essa fa da compare all'imbonitore.
Nella commedia, le spetta la parte del protestatario, ma ben inteso si tratta
di un protestatario fasullo. Supponiamo che venga alla ribalta uno che
non è della combriccola, ecco allora che tutto il teatro è invaso dal panico.
Le mistificazioni, Céline non le amava affatto, non voleva avere
niente da spartire con esse. Rifiutava di valersene. Voleva dimostrare che non
servono alla produzione dell'arte — di quella vera, per lo meno. Mirava a costruire un'opera che
sia efficace anche senza il loro intervento, che anzi sia tanto più efficace per il fatto che esse non vi
intervengono. E fu appunto quest'impresa a sollevare ovunque la collera. Gli
scrittori, gli artisti tengono principalmente a conservare la mistificazione. E
non soltanto essi. Contrariamente a quel che si potrebbe credere,
contrariamente a quel che credono i demistificatori, a torto persuasi che si
sarà loro grati della fatica che si prendono, il pubblico è attaccato alle
mistificazioni; è complice e consenziente; si indigna non appena qualcuno
faccia l'atto di svelarle. Il pubblico è timoroso; il suo parere — abbastanza
assurdo — è che le mistificazioni sono una moneta falsa tutto sommato
preferibili all'assenza completa di ogni moneta. Alla poesia intrinsecamente
considerata esso non crede molto; la considera come un mormorio fugace (o
addirittura illusorio) che comunque non può manifestarsi qualora sia assente
la sua liturgia. E quando la poesia appare a un tratto non più come un mormorio
ma come un tuono, non più su una scena allestita con cura, ma in mezzo alla
folla e per la strada, non più vestita di orpelli e di maschere, ma a viso
scoperto, grintosa e furiosa, esso non vi riconosce più, come è ben
comprensibile, l'immagine che gliene avevano inculcato.
Spero che si afferri bene quel che intendo riferendomi alla
mistificazione su cui la letteratura cavalca. La letteratura è in ritardo di cento anni sulla pittura. Essa
si alimenta da molti secoli non ai dati immediati della vita ma alle opere del
passato, come api che si nutrano del miele e non dei fiori; essa è
irresistibilmente magnetizzata e polarizzata dalle opere del passato. Il
prestigio di quelle è così forte che nessuno scrittore, quand'anche vi metta
ogni sforzo, riesce a districarsene e a ritrovare lo stato di innocenza di cui
necessita la creazione. La pittura ha fatto ormai da tempo la sua rivoluzione;
la letteratura — se si eccettui il solo Céline — non ha fatto la sua. Malgrado
certe varianti che restano epidermiche (consistono soltanto nel cambiare un
poco il ripieno del pasticcio, sono di tematica e non di tecnica, di intervento
locale e non di rinnovamento ab imis) la letteratura è bloccata, messa in
gelatina. Chiunque non sia un sottile specialista potrebbe con tutta facilità
attribuire una pagina contemporanea a Voltaire o a Descartes. Fate solo lo
sforzo di paragonare le differenze che separano un dipinto attuale da uno di
Raffaello e una pagina di Sartre da una di Diderot e coglierete subito come
stanno le cose. La forma della pittura è
totalmente cambiata; quella dello scrivere è pressoché rimasta la stessa. Ora
nell'arte è la forma che determina ogni possibile efficacia dell'opera. A una
stessa forma corrisponde uno stesso contenuto. E solo un cambiamento di forma
che provoca un cambiamento di contenuto. La letteratura crede che importi il
suo pensiero, non il suo corpo; si tratta dell'ottica cristiana del corpo e
dello spirito. Essa crede di poter rinnovare il pensiero senza toccare il
corpo, che in tutta la faccenda le sembra essere soltanto recipiente
inefficace, imballaggio. Errore! Così non rinnova un bel nulla. Solo quando la
letteratura si deciderà a inventarsi dei corpi nuovi (come ha fatto la
pittura), potrà conoscere che cosa vuoi dire avere un atteggiamento spirituale
veramente nuovo, e vedrà riaccendersi il suo fuoco.
Non si ripeterà
mai abbastanza che l'arte è una questione di forma e non di contenuto. Lo
sforzo dello scrittore di nutrire la sua opera di informazioni rare e di
analisi fini è del tutto improprio. Il pensiero analitico è una cosa e l'arte
un'altra, completamente diversa. Essa ha dei mezzi più ricchi, più sbrigativi.
Vi sbriga con un gioco di mano, in una mezza riga (pensate a Céline) quel che
il pensiero analitico, con i suoi piedi di piombo, non riesce a enunciarvi in
un intero volume. Anche la pittura ha creduto a lungo che il suo problema fosse
di dare ai cristi e alle vergini delle espressioni ingegnosamente rinnovate. E
solo quando si è decisa a sostituirvi delle mele, dei bicchieri di assenzio e
dei pacchetti di sigarette che ha fatto la sua rivoluzione. Questa consisté
nel portare l'invenzione non più sulla scelta dell'oggetto rappresentato ma
sui mezzi e i materiali messi in opera, sui modi di trascrizione, sulla
sintassi. Che ali le sono spuntate allora! A che voli si è data incessantemente
a partire da quel momento !
Può darsi che la pittura
abbia approfittato dello sviluppo della fotografia; essa le sottraeva una
funzione tale da implicare delle confusioni continue e di cui ha probabilmente
sofferto per molto tempo. Ci sarebbe da augurarsi che anche le funzioni dello
scrivere, che sono del pari assai varie e diverse fra loro, fossero messe in
chiaro allo stesso modo. Cosi come la pittura e il disegno sono ora un mezzo di
creazione e d'arte e ora di informazione, di documentazione (come nei grafici
industriali, geografici o d'altro genere, o come nei ritratti di persone care e
di luoghi piacevoli), allo stesso modo lo scrivere serve indifferentemente al
poeta e all'avvocato, al giornalista, al notaio. Si tratta di due funzioni che non sono
abbastanza distinte. La rassomiglianza, la quasi identità della forma di cui si valgono gli scritti
miranti alla creazione artistica con quella che assumono il rapporto di un
carabiniere, o il discorso di un ministro, o le istruzioni per l'uso di una
macchina, è cosa altamente sorprendente. Credo che non se ne avverta
sufficientemente l'incongruenza. Dopodiché non c'è da meravigliarsi se le
posizioni di pensiero dell'avvocato, del giornalista e del politico si
insinuano sulla scia della forma impiegata e prendono il posto della creazione
d'arte al punto da far dimenticare addirittura quel che essa fu in passato,
quel che deve tornare a essere.
Il fatto è che lo scrivere
creativo comincia solo quando le parole siano utilizzate non più in ragione del
loro stretto significato (esse formano sotto questo aspetto un povero registro
di schemi adatti a enunciare soltanto dei pensieri del tutto semplicisti), ma con
arte come fanno i giocolieri con i cappelli, le uova, i fazzoletti — in
un'ottica completamente diversa da quella di indossarli, di berli o di
soffiarsene il naso. Soltanto a patto di usare le parole in questa maniera si
può fare della loro tastiera uno strumento atto a trasmettere un pensiero
caldo e pungente. In ciò sta l'innovazione di Céline, che va nello stesso senso
della pittura attuale che utilizza allo stesso modo i segni, i tracciati, le
tinte, non più soltanto in ragione delle figurazioni cui sono attribuiti (e in
guisa tale che sia possibile "prenderli alla lettera") ma al contrario
procurando di spezzare il loro legame troppo immediato alle rappresentazioni
dirette d'oggetti. In questo modo il pittore provoca uno sfasamento, una cesura
tra i segni di trascrizione e gli oggetti da trascrivere, introduce un margine
tra i primi e i secondi ed è appunto questo margine che, aprendo il passaggio a
tutto un flusso di echi e di trasalimenti, diviene un vero e proprio
meccanismo generatore.
Può sembrare paradossale
che certi caratteri ritenuti privativi come l'improprietà, l'inadeguazione,
possano, se abilmente sfruttati, accrescere notevolmente il valore delle trascrizioni.
Ma il fatto è che il pittore (o lo scrittore quando si tratta di Céline) che
assegna in partenza come regola al suo gioco una simile articolazione aperta
tra i fatti descritti e la descrizione che ne restituisce, obbliga con ciò
stesso il fruitore dell'opera a un processo continuo di sostituzioni e lo costringe
ben presto a leggere non le righe, ma tra le righe. L'opera si trova con ciò
dotata di una nuova dimensione comparabile a un rilievo, a una
risonanza, al timbro di una voce. Così come appunto il timbro di una voce è prodotto dalla simultaneità
di due vibrazioni che non coincidono esattamente.
Nell'impiego magistrale che Céline fa dei vocaboli questi
funzionano non già per apportare il loro
senso proprio e tradizionale ma come dei limiti ingegnosi fra i quali
egli eccelle nel far apparire, senza enunciarlo (in negativo, in rientranza)
ciò che intende veicolare. È per questo che il modo di scrivere che egli ha
così meravigliosamente messo a punto (non solo inventato, ma portato subito a
una perfezione che sembra impossibile poter eguagliare) rassomiglia al più saporito
"parlato." Anche nel parlare infatti — mi riferisco evidentemente al
parlare veramente comunicativo, al parlare affatto diretto e spontaneo — non è
la scelta delle parole pronunciate quella che trasporta e restituisce il
pensiero ma piuttosto il tono, l'intonazione, la mimica, dimodoché l'essenziale
— il frutto — si trova a esser manifestato senza venir formulato, con una
istantaneità, una totalità, una forza che non potrebbe esser raggiunta da
alcuna formulazione esplicita — fosse anche prolungata a ore e ore di conversazione.
Il ricorso all'implicito è forse ciò che caratterizza l'arte. Nessuno, credo,
ha mai usato l'implicito al punto in cui l'ha portato Céline. Egli ne fa tutta la
molla continua dell'opera.
Il caso di Céline, la sua carriera, il suo destino sono sotto
tutti gli aspetti fuori di ogni regola e sconcertanti. I suoi primi due libri,
il Voyage au bout de la nuit e Mori a crédit hanno avuto presso il pubblico un clamoroso successo, dovuto
senza dubbio per buona parte a un equivoco. Sono sicuramente due opere
ammirevoli, ma restano, mi sembra, in confronto con quelle venute dopo, un po'
nel giro solito e rendono ancora in parte omaggio al rituale del romanzo classico.
Senza dubbio è proprio per questo che sono piaciute. Si è creduto di esser
davanti a Zola e al verismo, al documentario e alla presa "dal
vero." Il nostro tempo è affascinato dal verismo, che gli fa da
succedaneo dell'arte. Céline è molto lontano dal verismo. È un artista, un
artista molto grande; commuove, trasmuta. Si vale del primo istante di vita
giornaliera che gli viene per le mani e, alchimizzando i fatti più
insignificanti, i pensieri e gli umori più banali, elabora quei sublimi sabba
dello spirito, quelle manipolazioni vertiginose, quelle danze di derviscio che
sono i grandiosi affreschi di Féerie pour une autre fois e dei
libri successivi.
Per una sorprendente singolarità questi libri, che sono quelli di una piena maestria, sono a
tutt'oggi ancora praticamente sconosciuti. Non hanno avuto pressoché alcuna
diffusione; ben poche persone li hanno letti; vengono citati raramente. Forse
che Céline ha "teso le sue reti troppo in alto"? Potrebbe darsi. Il
pubblico finora conosce a malapena i suoi due primi libri e la assai speciosa
figura di polemista preteso razzista e filo-nazista che su di lui è stata
impiantata, a forza di forzature delle sue opinioni e di affermazioni
menzognere, da una stampa tutta rivolta a sconfiggere il razzismo e il nazismo
e che senza batter ciglio getta nel crogiuolo di questa causa il probo,
l'irreprensibile Céline e le sue epopee demiurgiche.
Ma questo accanimento contro l'opera di Céline ha veramente per
solo motivo le sue opinioni politiche? Sembra assai poco plausibile. Ho
parlato della mistificazione su cui riposano la letteratura, l'accademia, il
mito culturale; ma non sono i soli a fondarsi su di essa. Nel nostro paese di estetocrazia
— non so cosa succede
altrove, la stessa cosa senza dubbio, ma, credo, non allo stesso punto — tutto
ciò che si vanta di appartenere alla casta dominante si rifà prima di tutto al
buon gusto, al discernimento estetico, al bel parlare, al bello scrivere. Il
partito delle belle arti, delle belle maniere e delle belle lettere è il
partito che ha il coltello per il manico. La casta al potere si autoproclama
museo della cultura e ripone su di ciò la propria legittimità. È il suo
argomento di riserva, il suo salvacondotto. La Signora — la signora Bocca
Delicata, la signora Alta Moda, la signora Grandi Arie — sa che coniugando i
suoi congiuntivi non mancherà di travolgere in un terrore reverente il
fontaniere che ripara il rubinetto. Anche quando la signora non ha soldi per
pagare la riparazione. Non è la ricchezza ad assegnare i galloni, è l'uso del
congiuntivo. Si è ben considerato tutto ciò? E si son prese le debite
precauzioni? Credo di no. Il mito del bello scrivere è una pezza capitale della
difesa borghese. Se volete colpire al cuore la casta dominante colpitela nei
suoi congiuntivi, nel suo cerimoniale di un bel linguaggio vuoto, nelle sue
leziosaggini di esteta. Chi riuscirà a disinnescare una buona volta le sante
reliquie che essa brandisce come gli stregoni negri i loro feticci — i suoi
grandi autori, la sua Gioconda, le sue sedie Luigi XV, la sua bella grammatica,
la sua lingua morta sterilizzata, tutto quel cumulo di ossari che fa passare
per arte e cultura — chi riuscirà a far entrare nella testa
dell'ultimo fanalino di coda che la vera arte vivente, la sola, e la vera
creazione inventiva sono dalla sua parte e non da quella della mascherata che
si svolge sotto il patrocinio dei ministeri, costui suonerà la fine della casta dominante. Ma potete star
tranquilli che la casta dominante si difenderà. Il suo mito essa lo difende
secondo il suo stile: tutti i mezzi sono buoni, tutti i colpi permessi. Non
credo però che lo difenderà a lungo dalla confutazione portata da Céline.
[Traduzione
di Renato Barilli, grazie a Gilberto Tura per la segnalazione!]
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