Céline pilota
di Jean Dubuffet
Il modo disgustoso in cui è stato trattato Céline dall'intellighentia francese, benché
logico e prevedibile nel clima degli ambienti letterari e giornalistici, resta
comunque uno dei fatti più desolanti ai quali io abbia assistito. Considero Céline
come un inventore geniale, un poeta (ma questo termine così trito di poeta lo
definisce molto fiaccamente) di portata considerevole, non soltanto ai miei
occhi il più importante nel nostro tempo ma addirittura nei molti secoli che
costituiscono i tempi moderni, una delle più grandi chiavi di volta della
storia dello scrivere. Che questo non sia stato compreso di primo acchito dagli
intellettuali contemporanei, o per lo meno non in misura sufficiente per far
tacere i loro risentimenti e i loro ignobili cavilli, che essi abbiano fatto
blocco con una così perfetta solidarietà per denigrare questa creazione
monumentale e trasportarla in un ambito meschino di politica, è cosa solo a
stento credibile. Perché un simile fenomeno abbia potuto prodursi su così vasta
scala bisogna che l'arte di scrivere sia oggi in tutti gli spiriti assai
deviata rispetto al suo statuto originario, che sia stato affatto dimenticato
quello che ci si può, che ci si deve aspettare da essa. Bisogna che la natura
dell'arte e delle sue danze sublimi sia del tutto occultata, e che siano
notevolmente calate le temperature alle quali lo spirito si riscalda; bisogna
che il gusto per il pensiero analitico e discorsivo (eterna
insidia) abbia nettamente preso il sopravvento sulle incandescenze della
creazione poetica, e che alla letteratura altro non si richieda, se non di
raziocinare su argomenti cosi palmari, così oziosi, così piatti come i dibattiti di sociologia e di civismo.
È francamente stupefacente dover constatare che i nostri poeti — perfino quelli
che strombettano da posizioni che si pretendono ormai liberate dai luoghi
comuni dell'etica — fanno un coro così superbo con i motivetti più scalcagnati
e più stupidi della sociologia e del patriottismo. Eccoci ritornati ai bei
tempi delle guerre di religione.
Il bello è che soltanto chi è in
malafede può attaccar briga con Céline in nome della salute pubblica e del
patriottismo. Mai conosciuto un uomo dal cuore più caldo, più patriottico,
più pronto a fraternizzare di lui: esemplare. Ma ci sono due modi di essere
patriota, quello della testa e quello del cuore; il modo astratto, dottrinale,
e il modo attivo e immediato. Inutile dire che Céline rientra nel secondo.
È bene notare che
l'ostilità di cui fu oggetto Céline si dichiarò molto tempo prima che egli
avesse manifestato le sue opinioni su un qualsiasi argomento politico;
l'atteggiamento demistificatorio che appariva fin dai suoi primi libri ne fu
probabilmente la causa. L'intellighentia capì subito che c'era uno che si era
messo a smascherare — così come si smina un campo. Lo statuto
dell'intellighentia riposa tutto su un sistema di vasta impostura con una rete
così complessa di postazioni e di trincee che anche se l'una o l'altra di esse
salta non mette in pericolo l'insieme; ma quando compare un guastatore
risoluto, colui che aggredisce direttamente la centrale, il grande sabotatore,
le campane suonano a martello e gli associati di ogni grado corrono sulle mura
con l'olio bollente. L'intellighentia ha, per consenso unanime, la funzione
sociale di criticare le istituzioni senza danneggiarne le fondamenta, di
assumere il ruolo di difendere il pubblico contro la malversazione (per
impedire che ci sia qualcuno che lo faccia sul serio); essa fa da compare all'imbonitore.
Nella commedia, le spetta la parte del protestatario, ma ben inteso si tratta
di un protestatario fasullo. Supponiamo che venga alla ribalta uno che
non è della combriccola, ecco allora che tutto il teatro è invaso dal panico.
Le mistificazioni, Céline non le amava affatto, non voleva avere
niente da spartire con esse. Rifiutava di valersene. Voleva dimostrare che non
servono alla produzione dell'arte — di quella vera, per lo meno. Mirava a costruire un'opera che
sia efficace anche senza il loro intervento, che anzi sia tanto più efficace per il fatto che esse non vi
intervengono. E fu appunto quest'impresa a sollevare ovunque la collera. Gli
scrittori, gli artisti tengono principalmente a conservare la mistificazione. E
non soltanto essi. Contrariamente a quel che si potrebbe credere,
contrariamente a quel che credono i demistificatori, a torto persuasi che si
sarà loro grati della fatica che si prendono, il pubblico è attaccato alle
mistificazioni; è complice e consenziente; si indigna non appena qualcuno
faccia l'atto di svelarle. Il pubblico è timoroso; il suo parere — abbastanza
assurdo — è che le mistificazioni sono una moneta falsa tutto sommato
preferibili all'assenza completa di ogni moneta. Alla poesia intrinsecamente
considerata esso non crede molto; la considera come un mormorio fugace (o
addirittura illusorio) che comunque non può manifestarsi qualora sia assente
la sua liturgia. E quando la poesia appare a un tratto non più come un mormorio
ma come un tuono, non più su una scena allestita con cura, ma in mezzo alla
folla e per la strada, non più vestita di orpelli e di maschere, ma a viso
scoperto, grintosa e furiosa, esso non vi riconosce più, come è ben
comprensibile, l'immagine che gliene avevano inculcato.
Spero che si afferri bene quel che intendo riferendomi alla
mistificazione su cui la letteratura cavalca. La letteratura è in ritardo di cento anni sulla pittura. Essa
si alimenta da molti secoli non ai dati immediati della vita ma alle opere del
passato, come api che si nutrano del miele e non dei fiori; essa è
irresistibilmente magnetizzata e polarizzata dalle opere del passato. Il
prestigio di quelle è così forte che nessuno scrittore, quand'anche vi metta
ogni sforzo, riesce a districarsene e a ritrovare lo stato di innocenza di cui
necessita la creazione. La pittura ha fatto ormai da tempo la sua rivoluzione;
la letteratura — se si eccettui il solo Céline — non ha fatto la sua. Malgrado
certe varianti che restano epidermiche (consistono soltanto nel cambiare un
poco il ripieno del pasticcio, sono di tematica e non di tecnica, di intervento
locale e non di rinnovamento ab imis) la letteratura è bloccata, messa in
gelatina. Chiunque non sia un sottile specialista potrebbe con tutta facilità
attribuire una pagina contemporanea a Voltaire o a Descartes. Fate solo lo
sforzo di paragonare le differenze che separano un dipinto attuale da uno di
Raffaello e una pagina di Sartre da una di Diderot e coglierete subito come
stanno le cose. La forma della pittura è
totalmente cambiata; quella dello scrivere è pressoché rimasta la stessa. Ora
nell'arte è la forma che determina ogni possibile efficacia dell'opera. A una
stessa forma corrisponde uno stesso contenuto. E solo un cambiamento di forma
che provoca un cambiamento di contenuto. La letteratura crede che importi il
suo pensiero, non il suo corpo; si tratta dell'ottica cristiana del corpo e
dello spirito. Essa crede di poter rinnovare il pensiero senza toccare il
corpo, che in tutta la faccenda le sembra essere soltanto recipiente
inefficace, imballaggio. Errore! Così non rinnova un bel nulla. Solo quando la
letteratura si deciderà a inventarsi dei corpi nuovi (come ha fatto la
pittura), potrà conoscere che cosa vuoi dire avere un atteggiamento spirituale
veramente nuovo, e vedrà riaccendersi il suo fuoco.
Non si ripeterà
mai abbastanza che l'arte è una questione di forma e non di contenuto. Lo
sforzo dello scrittore di nutrire la sua opera di informazioni rare e di
analisi fini è del tutto improprio. Il pensiero analitico è una cosa e l'arte
un'altra, completamente diversa. Essa ha dei mezzi più ricchi, più sbrigativi.
Vi sbriga con un gioco di mano, in una mezza riga (pensate a Céline) quel che
il pensiero analitico, con i suoi piedi di piombo, non riesce a enunciarvi in
un intero volume. Anche la pittura ha creduto a lungo che il suo problema fosse
di dare ai cristi e alle vergini delle espressioni ingegnosamente rinnovate. E
solo quando si è decisa a sostituirvi delle mele, dei bicchieri di assenzio e
dei pacchetti di sigarette che ha fatto la sua rivoluzione. Questa consisté
nel portare l'invenzione non più sulla scelta dell'oggetto rappresentato ma
sui mezzi e i materiali messi in opera, sui modi di trascrizione, sulla
sintassi. Che ali le sono spuntate allora! A che voli si è data incessantemente
a partire da quel momento !
Può darsi che la pittura
abbia approfittato dello sviluppo della fotografia; essa le sottraeva una
funzione tale da implicare delle confusioni continue e di cui ha probabilmente
sofferto per molto tempo. Ci sarebbe da augurarsi che anche le funzioni dello
scrivere, che sono del pari assai varie e diverse fra loro, fossero messe in
chiaro allo stesso modo. Cosi come la pittura e il disegno sono ora un mezzo di
creazione e d'arte e ora di informazione, di documentazione (come nei grafici
industriali, geografici o d'altro genere, o come nei ritratti di persone care e
di luoghi piacevoli), allo stesso modo lo scrivere serve indifferentemente al
poeta e all'avvocato, al giornalista, al notaio. Si tratta di due funzioni che non sono
abbastanza distinte. La rassomiglianza, la quasi identità della forma di cui si valgono gli scritti
miranti alla creazione artistica con quella che assumono il rapporto di un
carabiniere, o il discorso di un ministro, o le istruzioni per l'uso di una
macchina, è cosa altamente sorprendente. Credo che non se ne avverta
sufficientemente l'incongruenza. Dopodiché non c'è da meravigliarsi se le
posizioni di pensiero dell'avvocato, del giornalista e del politico si
insinuano sulla scia della forma impiegata e prendono il posto della creazione
d'arte al punto da far dimenticare addirittura quel che essa fu in passato,
quel che deve tornare a essere.
Il fatto è che lo scrivere
creativo comincia solo quando le parole siano utilizzate non più in ragione del
loro stretto significato (esse formano sotto questo aspetto un povero registro
di schemi adatti a enunciare soltanto dei pensieri del tutto semplicisti), ma con
arte come fanno i giocolieri con i cappelli, le uova, i fazzoletti — in
un'ottica completamente diversa da quella di indossarli, di berli o di
soffiarsene il naso. Soltanto a patto di usare le parole in questa maniera si
può fare della loro tastiera uno strumento atto a trasmettere un pensiero
caldo e pungente. In ciò sta l'innovazione di Céline, che va nello stesso senso
della pittura attuale che utilizza allo stesso modo i segni, i tracciati, le
tinte, non più soltanto in ragione delle figurazioni cui sono attribuiti (e in
guisa tale che sia possibile "prenderli alla lettera") ma al contrario
procurando di spezzare il loro legame troppo immediato alle rappresentazioni
dirette d'oggetti. In questo modo il pittore provoca uno sfasamento, una cesura
tra i segni di trascrizione e gli oggetti da trascrivere, introduce un margine
tra i primi e i secondi ed è appunto questo margine che, aprendo il passaggio a
tutto un flusso di echi e di trasalimenti, diviene un vero e proprio
meccanismo generatore.
Può sembrare paradossale
che certi caratteri ritenuti privativi come l'improprietà, l'inadeguazione,
possano, se abilmente sfruttati, accrescere notevolmente il valore delle trascrizioni.
Ma il fatto è che il pittore (o lo scrittore quando si tratta di Céline) che
assegna in partenza come regola al suo gioco una simile articolazione aperta
tra i fatti descritti e la descrizione che ne restituisce, obbliga con ciò
stesso il fruitore dell'opera a un processo continuo di sostituzioni e lo costringe
ben presto a leggere non le righe, ma tra le righe. L'opera si trova con ciò
dotata di una nuova dimensione comparabile a un rilievo, a una
risonanza, al timbro di una voce. Così come appunto il timbro di una voce è prodotto dalla simultaneità
di due vibrazioni che non coincidono esattamente.
Nell'impiego magistrale che Céline fa dei vocaboli questi
funzionano non già per apportare il loro
senso proprio e tradizionale ma come dei limiti ingegnosi fra i quali
egli eccelle nel far apparire, senza enunciarlo (in negativo, in rientranza)
ciò che intende veicolare. È per questo che il modo di scrivere che egli ha
così meravigliosamente messo a punto (non solo inventato, ma portato subito a
una perfezione che sembra impossibile poter eguagliare) rassomiglia al più saporito
"parlato." Anche nel parlare infatti — mi riferisco evidentemente al
parlare veramente comunicativo, al parlare affatto diretto e spontaneo — non è
la scelta delle parole pronunciate quella che trasporta e restituisce il
pensiero ma piuttosto il tono, l'intonazione, la mimica, dimodoché l'essenziale
— il frutto — si trova a esser manifestato senza venir formulato, con una
istantaneità, una totalità, una forza che non potrebbe esser raggiunta da
alcuna formulazione esplicita — fosse anche prolungata a ore e ore di conversazione.
Il ricorso all'implicito è forse ciò che caratterizza l'arte. Nessuno, credo,
ha mai usato l'implicito al punto in cui l'ha portato Céline. Egli ne fa tutta la
molla continua dell'opera.
Il caso di Céline, la sua carriera, il suo destino sono sotto
tutti gli aspetti fuori di ogni regola e sconcertanti. I suoi primi due libri,
il Voyage au bout de la nuit e Mori a crédit hanno avuto presso il pubblico un clamoroso successo, dovuto
senza dubbio per buona parte a un equivoco. Sono sicuramente due opere
ammirevoli, ma restano, mi sembra, in confronto con quelle venute dopo, un po'
nel giro solito e rendono ancora in parte omaggio al rituale del romanzo classico.
Senza dubbio è proprio per questo che sono piaciute. Si è creduto di esser
davanti a Zola e al verismo, al documentario e alla presa "dal
vero." Il nostro tempo è affascinato dal verismo, che gli fa da
succedaneo dell'arte. Céline è molto lontano dal verismo. È un artista, un
artista molto grande; commuove, trasmuta. Si vale del primo istante di vita
giornaliera che gli viene per le mani e, alchimizzando i fatti più
insignificanti, i pensieri e gli umori più banali, elabora quei sublimi sabba
dello spirito, quelle manipolazioni vertiginose, quelle danze di derviscio che
sono i grandiosi affreschi di Féerie pour une autre fois e dei
libri successivi.
Per una sorprendente singolarità questi libri, che sono quelli di una piena maestria, sono a
tutt'oggi ancora praticamente sconosciuti. Non hanno avuto pressoché alcuna
diffusione; ben poche persone li hanno letti; vengono citati raramente. Forse
che Céline ha "teso le sue reti troppo in alto"? Potrebbe darsi. Il
pubblico finora conosce a malapena i suoi due primi libri e la assai speciosa
figura di polemista preteso razzista e filo-nazista che su di lui è stata
impiantata, a forza di forzature delle sue opinioni e di affermazioni
menzognere, da una stampa tutta rivolta a sconfiggere il razzismo e il nazismo
e che senza batter ciglio getta nel crogiuolo di questa causa il probo,
l'irreprensibile Céline e le sue epopee demiurgiche.
Ma questo accanimento contro l'opera di Céline ha veramente per
solo motivo le sue opinioni politiche? Sembra assai poco plausibile. Ho
parlato della mistificazione su cui riposano la letteratura, l'accademia, il
mito culturale; ma non sono i soli a fondarsi su di essa. Nel nostro paese di estetocrazia
— non so cosa succede
altrove, la stessa cosa senza dubbio, ma, credo, non allo stesso punto — tutto
ciò che si vanta di appartenere alla casta dominante si rifà prima di tutto al
buon gusto, al discernimento estetico, al bel parlare, al bello scrivere. Il
partito delle belle arti, delle belle maniere e delle belle lettere è il
partito che ha il coltello per il manico. La casta al potere si autoproclama
museo della cultura e ripone su di ciò la propria legittimità. È il suo
argomento di riserva, il suo salvacondotto. La Signora — la signora Bocca
Delicata, la signora Alta Moda, la signora Grandi Arie — sa che coniugando i
suoi congiuntivi non mancherà di travolgere in un terrore reverente il
fontaniere che ripara il rubinetto. Anche quando la signora non ha soldi per
pagare la riparazione. Non è la ricchezza ad assegnare i galloni, è l'uso del
congiuntivo. Si è ben considerato tutto ciò? E si son prese le debite
precauzioni? Credo di no. Il mito del bello scrivere è una pezza capitale della
difesa borghese. Se volete colpire al cuore la casta dominante colpitela nei
suoi congiuntivi, nel suo cerimoniale di un bel linguaggio vuoto, nelle sue
leziosaggini di esteta. Chi riuscirà a disinnescare una buona volta le sante
reliquie che essa brandisce come gli stregoni negri i loro feticci — i suoi
grandi autori, la sua Gioconda, le sue sedie Luigi XV, la sua bella grammatica,
la sua lingua morta sterilizzata, tutto quel cumulo di ossari che fa passare
per arte e cultura — chi riuscirà a far entrare nella testa
dell'ultimo fanalino di coda che la vera arte vivente, la sola, e la vera
creazione inventiva sono dalla sua parte e non da quella della mascherata che
si svolge sotto il patrocinio dei ministeri, costui suonerà la fine della casta dominante. Ma potete star
tranquilli che la casta dominante si difenderà. Il suo mito essa lo difende
secondo il suo stile: tutti i mezzi sono buoni, tutti i colpi permessi. Non
credo però che lo difenderà a lungo dalla confutazione portata da Céline.
[Traduzione
di Renato Barilli, grazie a Gilberto Tura per la segnalazione!]