lunedì 16 aprile 2012

Céline né attore né martire, di Julia Kristeva

[…] Strano stato d’animo quello in cui c’immerge la lettura di Céline. Al di là dei contenuti dei romanzi, dello stile della scrittura, della biografia dell’autore o delle sue posizioni politiche insostenibili (fasciste antisemitiche) il vero “miracolo” Céline sta nell’effetto di lettura − affascinante, misterioso, intimamente notturno, liberatore di un riso sen-za compiacimento eppure complice. Come, dove perchè quasi vent’anni dopo la sua pubblicazione del Viaggio al termine della notte quest’universo celiniano ci interpella così vigorosamente? Non vi ritrovo i deliziosi intrecci del verbo proustiano che svolge la mia memoria e quella dei segni della mia lingua fino agli incandescenti e silenziosi recessi di quell’odissea del desiderio che egli ha decifrato nella mondanità e attraverso la mondanità dei contemporanei. Non ne esco scossa fino all’eccitazione, fino alla vertigine (tormenti che alcuni ap-piattiscono in monotonia) come quando la macchina narrativa sadiana svela sotto il potere del terrore il gaio calcolo della pulsione sessuale annidata nella morte. Non vi attingo la bellezza bianca, serena e no-stalgica dell’arabesco sempre desueto di Mallarmé che sa volgere gli spasmi di un De profundis nel tracciato ellittico di una lingua che si torce. Non vi trovo la nera e romantica rabbia di Lautréamont che strangola il classicismo in un riso satanico; né le scariche del dolore ritmato di Artaud in cui lo stile adempie il ruolo di trasporto metafisi-co del corpo nel luogo dell’Altro e ambedue devastati lasciano però una traccia, un gesto, una voce… L’effetto Céline è tutt’altro. Richia-ma quanto in noi sfugge alle difese, all’apprendimento, alle parole, o quanto vi si oppone. Una nudità, un abbandono, una sazietà, il disagio, una decadenza, una ferita. Quel che non si confessa ma si sa comune: una comunità bassa, popolare o antropologica, il luogo segreto cui so-no destinate tutte le maschere. Céline ci fa credere di essere vero, il solo autentico e noi siamo pronti a seguirlo affondati in quel termine della notte dove viene a cercarci e dimentichiamo che se ce lo mostra è perché lui sta altrove, nello scritto. Attore o martire? Né l’uno né l’altro o tutt’e due insieme, come un vero scrittore che crede alla sua astuzia. Crede che la morte e l’orrore siano l’essere. Ma bruscamente e inaspettatamente la piaga nuda dal suo dolore e con l’artificio di una parola si aureola, nel Viaggio al termine della notte, di un “ridicolo piccolo infinito” tenero e colmo d’amore, di riso gaio ma anche pieno di amarezza, di derisione implacabile e di un domani impossibile. An-che la vostra diletta abiezione è una faccenda di guignol’s band, e l’incanto sarà per un’altra volta… per il godimento del verbo, dei sen-si o della trascendenza presa dall’interno, nel puro stile letterario, niente da fare… Resta l’aria senza note… Nemmeno il culto della Morte… I tre punti… Meno di niente, o più… Dell’altro… La con-sunzione di Tutto e di Niente nello stile… Il più grande omaggio al Verbo che non si è fatto carne per issarsi nell’Uomo ma per raggiun-gere, corpo e lingua fusi insieme, quegli stati intermedi, quei non stati, né soggetto né oggetto in cui tu è solo, singolare, intoccabile, scontro-so, senza credito al termine di una notte tanto particolare quanto in-commensurabile… La lettura di Céline ci afferra nel luogo fragile del-la nostra soggettività in cui le difese crollate svelano, sotto l’apparenza di una roccaforte una pelle scorticata: né dentro né fuori, l’esterno che offende si capovolge in un dentro abominevole, la guerra rasenta la putrefazione mentre la rigidità sociale e familiare, falsa ma-schera, sprofonda nella beneamata abominazione di un vizio innocente. Universo di frontiere, di altalene, di identità fragili e confuse, erranze del soggetto e dei suoi oggetti, paure e lotte, abiezioni e lirismi. Alla cerniera fra il sociale e l’asociale, il familiare e la delinquenza, il ma-schile e il femminile, la tenerezza e l’assassinio. Luoghi che abbiamo percorso − con la sozzura, l’abominazione, il peccato − sotto altri cieli, sotto altre protezioni. Che al lettore contemporaneo appaiano in Céline più cocenti delle reminiscenze archeologiche cui abbiamo accennato, è dovuto alla fragilità in lui dell’istanza giudicante, ideale o d’interdizione che borda anzi fa esistere l’abiezione in altre epoche e in altre culture. Con Céline quest’istanza diventa ambigua, s’incava, marcisce e si disgrega: illusione fugace e derisoria, idiota ma persi-stente… Né divinità né morale, è la filigrana che resta nell’ombra e nell’orrore della notte perché questa notte si scriva. Istanza del senso esploso, folgorato eppure presente, sfavillante: una scrittura. Nessuna contestazione rivoluzionaria che presumerebbe la credenza in una mo-rale, in una classe o in umanità nuove. Nessun dubbio scettico che in ultima analisi si raccoglie sempre nell’autosoddisfazione di un critici-smo che lascia aperte le porte del progresso… Ma nera esplosione u-guale all’implosione devastante, anarchica, a condizione di rettificare subito: non c’è anarchia assoluta della scrittura perchè lo scritto ordina, regola, legifera. Che cosa? Niente? Quale oggetto? L’abietto? Vizio? Commedia? Perversione? Ancora di più. Un’aspirazione al senso, che si assorbe, s’inghiotte, si digerisce, si rigetta. Potere e peccato del ver-bo. Senza dio, senza Un altro che non è quello soggiacente al polilo-quio della sinfonia céliniana: una musica, una trama, una trina… Una vertigine dell’abiezione che si sostiene e si scrive solo a condizione di poter anche darsi oggetti di odio, quelli più stabili e più arcaici che ga-rantiscano il godimento più preciso, più sicuro. E nemmeno si spiega l’ambivalente e derisoria adesione al nazismo. Ma si integra come ne-cessità interna, un contrappeso intrinseco, un prepotente bisogno d’identità, di gruppo, di progetto, di senso che cristallizza la riconci-liazione oggettiva e illusoria tra un io che annega nella vertigine dei suoi oggetti e della sua lingua e la proibizione identificante − insoste-nibile, intollerabile, decrepita che lo fa essere. Il fascino astioso verso gli ebrei professato sino alla fine della sua vita e l’antisemitismo pri-mario che inebria le tumultuose e violente pagine dei pamphlet non sono un caso: si oppongono alla dissoluzione d’identità coestensiva alla scrittura alla scrittura che tocca le distinzioni più arcaiche e getta ponti sulle separazioni che assicurano il senso e la vita. L’antisemitismo céliniano, come in altri l’impegno politico − come di fatto ogni impegno politico in quanto consolida il soggetto di un’illusione socialmente giustificata − è un argine. Un delirio forse ma di cui sono note l’estensione sociale e le molteplici razionalizzazioni: un delirio che letteralmente impedisce di diventare folli perchè differisce l’abisso insensato che minaccia quella traversata dell’identico che è la scrittura… Romanzi realistici per costrizione sociale e in qualche modo per odio, leggende ma anche musica, danza, emozione, note bordate di silenzio − i testi di Céline, come è stato detto fin troppe volte, sono di cattivo genere. Si potrebbe leggerli seguendo i meandri del racconto che simile a quello dei classici, picaresco o biografico all’inizio (Viaggio al termine della notte, Morte a credito), esplode e si volge nella polifonia di Nord e di Rigodon passando attraverso il carnevale di Guignol’s band e del Ponte di Londra. Più specificatamente celiniano è annegare il racconto nello stile sempre più asciutto e più preciso rifuggendo dalla seduzione per scegliere la crudeltà, ma sem-pre assillato dalla stessa preoccupazione: toccare il nervo intimo, cogliere l’emozione con il parlare, rendere lo scritto orale, cioè contem-poraneo, rapido, osceno. Se questa scrittura è una lotta non si vince tramite le identificazioni edipiche che la narrazione produce ma con immersioni molto più profonde, lontane e rischiose. Queste immersioni che raggiungono il lessico e la sintassi assimilano l’esperienza celi-niana non tanto al verosimile del romanziere quanto all’inumanità del poeta. Un’inumanità nella lingua, la più radicale dunque, poiché intacca quella garanzia ultima dell’umanità che è il linguaggio. E questa inumanità, sull’esempio di una filiazione nera in cui si leggeranno Lautréamont o Artaud, trova temi adeguati contro ogni tradizione lirica: temi dell’orrore, della morte, della follia, dell’orgia, dei fuorilegge, della guerra, della minaccia femminile, delle spaventose delizie dell’amore, del disgusto, del terrore. Sono temi che apparentemente affronteremo in Céline. Non sarà però una lettura tematica, a motivo dei temi ma sopra tutto perché questi temi in Céline hanno sempre una posizione almeno doppia, tra il disgusto e il riso, tra l’apocalisse e il carnevale. Ogni tema di finzione è per definizione una sfida al significato unico, poiché è un significato polivalente, “una siderazione dell’ipseità” (G. Bataille). Perché forse i fantasmi che l’alimentano convergono verso il nucleo impossibile, l’”origine” impensabile che è la scena delle scene, la cosiddetta scena primaria. D’altronde Bachtin ha dimostrato il dialogismo fondamentale, la bivalenza di fondo di ogni parola, di ogni termine o enunciato in un romanzo che deriva dalla tradizione carnevalesca (come per esempio i romanzi di Dostoe-vskij). Céline porta al parossismo questa tecnica che è un modo di essere. Chi può dire se il bombardamento di Amburgo scritto da Céline sia il colmo del tragico o la più disinvolta derisione dell’umanità? L’orgia-assassinio-incendio in casa di Titus van Claben è l’orrore per un’umanità nauseante o una farsa rocambolesca che riguarda pochi buontemponi? Alle ambivalenze semantiche del carnevale, che sa accostare l’alto e il basso, il sublime e l’abietto, Céline aggiunge lo spietato annientamento dell’apocalisse. Un gusto di fine del mondo questo disgusto per l’umanità in piena Seconda Guerra, con o senza politica. La spada invisibile di un giudizio pesa sull’universo celiniano più del dio in fondo permissivo del carnevale medievale e dei suoi seguaci tutto sommato credenti, compreso Dostoevskij. La spada invisibile di un dio inesistente − né trascendenza né Uomo, niente maiuscole tranne il luogo… “Niente avrà avuto luogo tranne il luogo” (Mallarmé) − Una spada che forse non è nemmeno un’istanza ma una distanza: un ideale e un superìo, un distacco che fanno esistere l’orrore e nello stesso tempo ce ne distolgono, che ci riempiono di spavento, e con questo spavento, e con spavento fanno del linguaggio una penna sfuggente, acuta, un merletto, un volteggio, una risata e una nota di morte…

[…] bisogna essere più che un tantino morti per far ridere sul serio! voilà! Devono averti tagliato fuori, distaccato.
Ahimè, io ho una certa disinvoltura con gli istinti e la vita − Non sono né gaudente né sensuale. Sono “distaccato”, serio, classico nel mio delirio − costruttivo − In questo forse sono vicino ai grandi − ma questo è tutto…  

(1) Julia Kristeva, Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione.

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