giovedì 6 marzo 2014

Céline riscattato dall’inaudita compassione, di Philippe Forest
















Un poeta da salvare o un pamphlettista da condannare? È una finta alternativa

da La Stampa del 5.3.14


Il supposto scandalo, è stato detto e ripetuto, si enuncia così: un genio può essere un criminale? O viceversa: un criminale può essere un genio? Nella fattispecie, come può uno stesso individuo, Louis-Ferdinand Céline, essere stato uno dei più grandi scrittori del secolo scorso e contemporaneamente aver condiviso le idee più barbare della sua epoca? O Céline è un criminale, e allora non è un genio. Il che significa che il Viaggio al termine della notte e gli altri libri che ha scritto dopo non possono essere considerati capolavori come è stato fatto. O Céline è un genio, e allora non è un criminale. E in questo caso bisogna pensare che le opinioni delittuose che ha illustrato in Bagatelle per un massacro e altrove non possono essergli totalmente imputate. Già si capisce che nessuna delle due ipotesi soddisfa del tutto. [...]
L’opposizione morale tra il «genio» e il «criminale» ne sottende in realtà un’altra, strettamente letteraria, che contrappone due concezioni della scrittura – Barthes le chiamava «transitiva» e «intransitiva» – e due figure dell’autore – diciamo, nel caso di Céline, il «pamphlettista» e il «poeta». Il dibattito attuale si trova a dover decidere quale di queste due opzioni critiche debba essere privilegiata per rendere conto del caso Céline e se quest’ultimo debba essere considerato un «pamphlettista» oppure un «poeta». I detrattori dell’autore del Viaggio al termine della notte attribuiscono al «pamphlettista» la paternità dell’opera nel suo insieme e vi mettono in evidenza, puntualmente, la presenza disseminata di convinzioni criminali. I suoi sostenitori invece attribuiscono l’opera intera al «poeta» come se quelle stesse convinzioni evaporassero grazie alla pura magia dello stile che le sublima. Ma sia i detrattori che i sostenitori si sbagliano per via della visione unilaterale della letteratura cui si limitano. Perché il «romanziere» è contemporaneamente «pamphlettista» e «poeta» e proprio per questa ragione non è né l’uno né l’altro, facendo dialogare queste due figure di se stesso all’interno di un’opera che instaura un altro rapporto con la Verità.
Questa dialettica di cui è perfettamente consapevole, Céline la innesca assumendo contemporaneamente i discorsi contraddittorii di cui la sua opera è stata oggetto, invalidando e confermando di volta in volta sia le teorie che lo accusano sia quelle che lo discolpano, non lasciando a nessuno il compito di istruire al posto suo il suo stesso processo, pronunciando tanto l’accusa quanto la difesa, spingendo al parossismo il paradosso su cui poggia la sua concezione del romanzo vero. Ora assume il ruolo del «poeta», ora adotta quello del «pamphlettista». E certo, la soluzione semplicistica che consiste nel separare il buon grano della «poesia» dal loglio del «pamphlet» risulta pateticamente inadatta perché ovunque in Céline, in ogni suo testo, lo scritto implica entrambe queste concezioni antagonistiche della letteratura.
Da un lato, capita a Céline di presentarsi come un puro stilista, indifferente o persino refrattario alle idee. Insomma, un musicista delle parole. Il che corrisponde a evacuare con discrezione il problema della sostanza della sua opera per mettere in evidenza quello della sua forma. Questa è la tesi che sostengono a loro volta i difensori dello scrittore quando affermano che esclusivamente su questo terreno deve essere apprezzato il genio di Céline, salutato come l’eroe di un’operazione poetica senza equivalenti centrata sulla lingua. Ma è evidente che questa interpretazione formalista e estetizzante è del tutto insufficiente. E soprattutto è in totale contraddizione con la concezione che ha Céline della letteratura in generale e della sua letteratura in particolare. D’altro lato infatti gli capita anche – e in realtà ben più spesso – d’insistere sul fatto che la sua opera si basa su un’esperienza vissuta da cui trae la sua sostanza e che ne fa una testimonianza effettiva sul mondo, di cui fa affiorare il vero e terribile volto. [...] 
Tra tutte queste menzogne e tutti questi misfatti, Céline però dice il vero. Ed è per questo che la sua opera sta dalla parte del Bene. E la sua ultima parola è la stessa che Barthes, alla fine del suo insegnamento, scopriva in Proust e Tolstoj, e nella quale formulava la sua ultima definizione di romanzo, quella che colloca l’autore del Viaggio al termine della notte sullo stesso piano degli autori della Recherche e di Guerra e pace. Ciò che il romanzo è veramente, Barthes lo enuncia così: «Il sentimento che deve animare l’opera sta dalla parte dell’amore: ma quale? La bontà? La generosità? La carità? Forse semplicemente perché Rousseau ha dato alla pietà (alla compassione) la dignità di un filosofema». 
Che il romanzo debba essere considerato una grande parola di pietà rivolta a tutto ciò che vive e a tutto ciò che muore, che questa stessa parola risuoni essenzialmente in esso, e persino dietro agli scoppi d’odio e agli accenti di rabbia, Céline ne è testimone. La lettura di tutti i suoi libri lo dimostra. Ad esempio Pantomima per un’altra volta, forse il più grande ma anche il meno letto dei suoi romanzi, significativamente dedicato «Agli animali, ai malati, ai prigionieri». Vi si trova la strana dichiarazione che, da sola, meriterebbe ancora pagine e pagine di riflessione: «Quando vorrete, vi proverò l’esistenza di Dio al contrario». Il romanzo come anti-prova ontologica? Ma si tratta di provare alla rovescia che Dio esiste o viceversa di provare che non esiste? Molto più della poesia, il romanzo parla quando il divino si è ritratto, nella vertigine che ne consegue, per far sentire da quell’abisso una parola semplicissima, una parola di rivolta volgare come la vita che si oppone a tutto ciò che la nega: «la coscienza è questo: merda! merda!… mai, in nessuna circostanza, ho potuto rassegnarmi alla morte… non ho mai potuto abbandonare nulla… la mia propria morte sarebbe una pacchia, sarei ben contento, è la morte degli altri che mi offende… nel fondo più fondo di tutto è per questo che io sto sulle scatole, che si accaniscono a appiopparmi un sacco di colpe, perché impreco sulla morte degli altri… persino sui centenari che tirano le cuoia non sono mai stato d’accordo!… io sono perché niente sparisca…merda! merda! merda!». Questa è la verità di Céline.

Traduzione di Gabriella Bosco