Céline e il dramma biologico della storia
di Luca Leonello Rimbotti
26/10/2010
Fonte: Italicum [scheda fonte]
Infernale manipolatore della parola oppure sacerdote ideologico della décadence? Inventore nichilista di quadri solo letterari, oppure geniale interprete politico di una civiltà al tramonto? Insomma: il fin troppo noto anarchisme di Céline è una posa individualista, oppure un vero e proprio manifesto sociale e antropologico? Possiamo ancora oggi leggerlo in tanti modi, Céline. Ma, se vogliamo andare al fondo della sua anima, tra gli squarci e gli urli, le maledizioni e le ingiurie è possibile trovare netta e precisa un’interpretazione della storia europea. Céline è un analista del tracollo dell’Europa, rappresenta un sensore sensibile agli smottamenti e alle derive, denuncia e preavverte, minaccia e sibila oltraggi alla maniera di un apocalittico profeta antico: magari l’“Ezechiele parigino” di cui parlò Pol Vandromme. C’è in Céline la sensiblerie di un osservatore straziato, che ha sottomano la disintegrazione della civiltà europea e ne grida i misfatti, attraverso le sue storie disperate, ma anche attraverso pagine e pagine di lamentazioni millenaristiche. Céline sa di trovarsi di fronte a uno sbocco, nel centro di uno snodo di epoche, dal cui scioglimento dipenderà l’avvenire del suo mondo. E il suo mondo è l’Europa tradizionale. L’Europa nordica franco-germanica. L’Europa dei popoli sani che fanno la civiltà e la storia. L’Europa delle aristocrazie di stirpe. Céline – è stato osservato – fu allievo del de Gobineau nel soffrire la decadenza come un’ingiuria ineluttabile, forse anche necessaria. Come una fine obbligata, soltanto dalla quale poi ripartire per un nuovo inizio. Già molti anni fa, nel 1974, lo studioso Paolo Carile rilevò la filiazione di Céline dalla inquadratura gaubinista e dall’antropologia di Ėlie Faure, e la rilevò dalla sua lettura degli eventi moderni come dramma biologico della storia, al culmine del quale si attua il precipitare dell’ordine antico in una sequela di accelerati sfaldamenti.Faure era un critico d’arte socialista che spiegava le aggregazioni estetiche come esito di combinazioni positive di sangue e di influssi ambientali, e in questo modo si confrontò con l’ideologia di Gobineau, di cui però rovesciava gli assunti: gli incroci come esiti positivi, come moltiplicatori delle possibilità creative. Nondimeno, egli attribuiva alla forza dinamica ìnsita nei popoli e negli individui il valore di un condizionamento, attraverso il dispiegarsi di dispositions ethnobiologiques determinanti nel formare l’anima collettiva. Céline, che fu in rapporti col Faure, si abbeverò a questa dimensione di un’energia occulta che sanziona le predisposizioni, e Carile appunto ne scorse la manifestazione nel concetto céliniano di âme, l’anima “ancorata ad un’interpretazione strettamente biologica che non accetta gli slanci mistici fauriani”, quale compare, ad esempio, in Mea culpa del 1936. “Céline si credeva depositario di una profezia la cui rivelazione era fondamentale per la salvezza dell’umanità”, ha scritto molti anni fa Vandromme. Difatti, sembra sempre di sentire rintoccare la campana apocalittica di un ultimo evento, di una imminente catastrofe che attende l’Europa nel fondo del suo declino. E questo, tanto nelle sue storie di trascinamenti nei degradi scuri della psiche metropolitana, quanto nelle filippiche nevrotiche dei suoi luciferini e brutali pamphlet. Con, al centro, ogni volta, l’allucinazione dello sfacelo fisico e mentale, dell’abbrutimento, la febbricitante sofferenza per l’oscenità della lenta, sicura consunzione che attanaglia l’individuo spoglio e isolato, così come le plebi, i popoli, l’Europa intera. Si è individuato nell’inizio del 1942 – con la brutta piega presa dalla guerra “tedesca” - il momento del distacco di Céline da ogni furore di lotta positiva: ciò che fino a quella data egli ancora riteneva possibile attraverso la violenta liberazione di tutte le energie ancora inespresse dalla Francia e dall’Europa germanizzate, cioè un arresto della nostra civiltà sull’orlo dell’abisso e un raddrizzamento dei fini e dei modi, da allora in poi divenne disperata ricerca di un precipizio in cui gettare l’uomo e la sua incapacità di salvarsi. Il fatalismo céliniano non è tuttavia rassegnato: è esibizione di volontà di rovina. In questo, egli rappresenta al meglio la tragicità di un modo d’essere incapace di interpretare la realtà, altrimenti che nei modi manichei del trionfo o della catastrofe. E allora, se il trionfo non poteva più aversi, si sarebbe dovuto volere la catastrofe. E tanto più grandiosa e definitiva, tanto meglio. “Cronista tragico”, si definì Céline in un’intervista del 1960. Cronista in grado di intercettare e di rappresentare il tragico dell’epoca, come a pochi era stato concesso. Poiché, così aggiunse, “la maggior parte degli autori cercano la tragedia senza trovarla”. Lui invece la trovò, si agitò al centro del ciclone e sospinse il dramma fino ai suoi limiti radicali. Lo psicodramma di Céline – che non fu certo il solo nella sua epoca a vivere questa dimensione dell’assurdo totale – rappresenta il destino europeo sotto la specie di una tragedia personale elevata a simbolo di un mondo e di una generazione. L’ossessione per la degenerazione psico-fisica dell’uomo occidentale diventa in Céline una sorta di manifesto bioetico, depotenziato forse per l’ambiguo estremismo del linguaggio popolaresco, che cerca nell’argot dei bassifondi la parola infame per descrivere le brutture della vita; ma potenziato, d’altra parte, proprio dalla consapevolezza, vissuta forse come bagaglio d’esperienze del “medico dei poveri”, dell’illimitata miseria delle masse umane urbanizzate e rese indegne, ignobili, dalle logiche della società capitalista moderna. La purezza, in questo quadro, è un vero richiamo al mito di un’unità di specie che è andata perduta per la violenza e le ingiustizie del mondo. Una purezza introvabile ormai, il paradiso perduto dell’uomo nel suo eterno inganno moralista. Già nel Viaggio al termine della notte, Céline tratteggia la sua rabbia per l’impossibilità fisica di igienizzare l’umanità povera, per redimerla, per dunque ripulire dal male la razza e restituirla a una qualunque dignità. Le parole con cui rappresenta la mescolanza oscena dei miserabili della banlieue e dei quartieri poveri – da lui ben conosciuta di persona – sono l’attestato del suo dolore per un disfacimento ormai irrefrenabile: “la razza…è un ammasso di malandati, pidocchiosi, miserabili che sono capitati qui per causa di fame, peste, tumori e freddo…da tutte le parti del mondo…”. Ed ecco qua, pertanto, una prima applicazione di quella consapevolezza per il “dramma biologico della storia” di cui dicevamo, e che Céline vedeva chiaramente all’opera nel cuore parigino della France eternelle. Un cuore marcio, scolpito con tutte le putredini della mescolanza. Questo orrifico affastellamento di destini assemblati dal caso è la risultante del tradimento che l’uomo moderno ha compiuto nei confronti della nobiltà dell’appartenenza di stirpe. Céline il bretone, orgoglioso della sua nordicità, della limpidezza dei suoi trascorsi ereditari di terra e di sangue, vive la lacerazione dolorosa di una realtà, quella della cosmopoli parigina, borghese e progressista, liberale e capitalista, che affoga ogni nobile istinto nella primitiva lotta per il possesso materiale, per il lusso. Sopra sta la borghesia che si rimpinza le budella e, dice Céline, si dimentica sempre di passare alla cassa per pagare. Sotto sta la massa dei disperati disonorati, condannati alla perversione di pagare il benessere altrui con la propria allucinante miseria. Non più un popolo, ma feccia senza nome. Non più nemmeno massa, ma semplice turba depravata, scavata dalla malattia, finita dal degrado. Questo è il “socialismo nazionalista” di Céline: una rivolta del sentimento estetico, prima ancora che sociale. Una rivolta per la sanità del corpo e della mente liberati, un gridare carico d’odio in nome della vendetta per le masse deturpate dall’alcool, dal lavoro logorante e animalesco, dall’assenza di ogni segno di nobiltà. Poiché – lo scrisse proprio Vandromme – ciò che vuole questo anarchista (più che anarchico), irrazionalmente devoto alle sue radici celtiche di purezza, è per l’appunto la restaurazione di un mito aristocratico di nobiltà. “Céline crede nella sola cosa necessaria, nel ritorno a una vita nobile”, ha commentato infatti Vandromme. Una nobiltà che appartiene alla concezione tradizionale e antimodernista della vita, di cui Céline fu uno dei massimi rappresentanti novecenteschi. “Vedo l’uomo tanto più inquieto quanto più ha perduto il gusto delle favole, del mito, inquieto fino alla disperazione…” scrisse Céline in Les beaux draps. E aggiunse che l’uomo moderno è come preda di una comune pazzia acquisitiva, un tormento superficiale per i beni materiali che gli fa dimenticare ogni dimensione legata all’irrazionale, al bello, al superiore, al gratuito. Ogni dimensione legata insomma alla natura, rappresentando la società progressista essenzialmente l’anti-natura. E questa anti-natura si esprime sinistramente nel dilagare di tutto ciò che è basso e informe, dando vita a una specie di Sodoma universale, in cui l’impuro imbratta ogni retaggio, corrompe ogni antica bellezza. “Il fatalismo biologico lombrosiano che implica il naufragio di ogni capacità autodecisionale non è lontano da certe pessimistiche considerazioni antropologiche di Céline”. Questa osservazione di Carile ci mostra quanto centrale fosse nel dottor Destouches l’apprensione per il destino del corpo dell’uomo europeo, aggredito da tutte le degenerazioni della massificazione e dell’edonismo borghese. Davanti allo spettacolo di corruzione dei corpi e delle menti, Céline reagisce con l’insulto e con l’odio forsennato, oppure con il gesto picaresco dello sberleffo, l’ironia, la rigolade. Ultimo rifugio – come nel “lazzarone” napoletano – di un’umanità di vinti condannata al disonore e all’anonimato sociale.Della sua epoca fortemente ideologizzata e rivoluzionaria, densa di contraddizioni sociali e di aperture politiche chiliastiche, Céline apprese l’inclinazione radicale verso l’apocalisse. Interpretò il fascismo come un’arma di raddrizzamento del piano inclinato e in favore di un sorgere dell’élite nuova, della giovane aristocrazia che imponesse nuovi codici di etica comunitaria e di onore sociale. Il tutto inquadrando nel contesto di un amore viscerale per la carne, per il corpo fisico dell’uomo, elevato a simbolo sommo dell’ideale di purezza. Le pagine che, ad esempio, Céline dedicò alla bellezza estetica della danza, di cui era ammirata interprete la moglie, gli accenti lirici che spese a proposito del bel gesto armonico, dell’aggraziato flettersi del corpo, della grandezza dell’arte perché in-utile, non monetizzabile, gratuita, sono l’attestato di questo amore celiniano per l’incanto della purezza, priva di prezzo ma grandemente preziosa. Un sovramondo che aveva il suo tenebroso contraltare nel sottomondo dei deformi, degli sfiancati, dei ruderi umani che erano gli avanzi antropologici del capitalismo borghese. Leggiamo un attimo quanto sempre Carile scrisse circa l’antropologia etica di Céline: “Céline riprende le tesi tipiche della sua generazione al fine di giustificare il proprio elitismo, frutto di un movimento psicologico di difesa dalla pessimistica sensazione della decadenza della civiltà europea. In tal modo lo scrittore, ergendosi contro il mondo moderno, crede di far barriera contro la tecnologia e il consumismo dilaganti che caratterizzano la nostra epoca ‘decadente’. L’elitismo razzista – continuava Carile – lo preserverebbe da quanto ai suoi occhi è simboleggiato negativamente dalla routine democratico-borghese. La sua ribellione lo porta ad esaltare l’irrazionalismo, la gratuità della danza e nel contempo a sublimare il proprio orgoglio aristocratico di ‘autentico celte’; dato che si considerava uno degli ultimi esempi di una razza etnicamente intatta, al di qua della torre di Babele dei popoli e delle culture imbastardite del suo tempo”. In questa analisi c’è tutto quanto il significato epocale della figura e della scrittura di Céline, questo Spengler narratore dei bassifondi del tardo impero europeo, che invoca con fanatismo disperato un’ultima resurrezione del popolo. Céline sapeva di essere uno dei pochi capaci di andare davvero fino in fondo. Le sue scelte oltranziste – dall’antisemitismo al filogermanesimo, da Sigmaringen alla cocciuta ostinazione postbellica di non rinnegare nulla – gli attirarono un carico d’odio che soltanto oggi viene meno, per via di certi biografi che però fanno anche di peggio, dato che vogliono fare di Céline non il felino ungulato che era, ma un cappone da cortile, solo un po’ bizzarro. Lo sapeva che imboccando la strada di una difesa antropologica ed etnica dell’uomo europeo si sarebbe guadagnato una fama luciferina. Lo sapeva almeno dai tempi di Bagatelles quando, rivolgendosi a se stesso, scrisse: “Ferdinand,…t’auras le monde entier contre toi”.
Avere tutto il mondo contro di sé… È il destino dei veri profeti.
15 commenti:
Tutta la letteratura anti-progressista (da Nietzsche a Jünger, a D'Annunzio) è permeata di un senso endemico della decadenza e della sua ineluttabilità. Nei libri di Céline (forse soprattutto in "Mort à credit") si percepisce però una visione della decadenza particolarmente spietata, perché vista come il fenotipo di una degenerazione, appunto, biologica. I derelitti delle banlieues céliniane non hanno alcuna possibilità di riscatto perché sono tarati dalla nascita. (Probabilmente è questa una delle radici del suo razzismo...) Paradossalmente, tuttavia, questo tratto biologico, questo determinismo razziale che traspare dagli scritti del grande Céline lo accosta ad autori ottocenteschi e progressisti come Zola, che non credo che egli amasse particolarmente... Che ne pensate?
"...nel soffrire la decadenza come un’ingiuria ineluttabile, forse anche necessaria. Come una fine obbligata, soltanto dalla quale poi ripartire per un nuovo inizio."
Frasi attuali come non mai,chissà che direbbe il nostro di fronte alle fesserie dell'Europa odierna?
Se non succederà questo azzeramento,e non si ritornerà ad "una vita nobile"non resterà che scomparire.
E a tutti i pompieri ipocriti,le belle anime,gli stomaci deboli del bon ton da pasticcini che popolano quest'Europa,nulla di meglio che il linguaggio cèliniano,
"Davanti allo spettacolo di corruzione dei corpi e delle menti, Céline reagisce con l’insulto e con l’odio forsennato, oppure con il gesto picaresco dello sberleffo, l’ironia, la rigolade".
BRAVO CELINE,anche oggi in questa Europa unita di "merda"all'insegna della PLUTOCRAZIA c'è un numero infinito di "parassiti" che godono una vita "faraonica" senza "pagare alla cassa".
argos
quanto è difficile scrivere tutto questo nel 2010! Céline scriveva in arabo già nei suoi sessant'anni di vita, aveva un uditorio del cazzo. oggi è come parlare in sanscrito. Rimbotti è un paleolinguista. ed un sagace interprete, cita la crema della critica celiniana perché il libro più lucido e intelligente su LFC l'ha scritto proprio Vandromme.di lui apprezzai anche la dura recensione al Gatto Randagio della Alberghini, un grandioso affresco celiniano, punteggiato però, a chiazza, di qualche ingeniutà e deduzioni affrettate. il Gatto randagio però ha un merito enorme, oltre ai tanti di natura biografica, quello di aver spiegato coi fatti e i documenti tutta la negatività della Cultura, inteso come establishment e colonizzazione (come direbbe Carmelo Bene), ha insomma iniziato a scalcinare, assieme al tempo-giusta-giustizia, quel muro omertoso dietro cui si celano, occultati e nella gelatina, i motivi dell'ammutinamento di Céline e alla sua epurazione letteraria e umana: aver rotto le palle ai comunisti, e al suo impero culturale. altro che bagattelle per un massacro...
la grandezza di Céline è misurabile sopra tanti di quei tavoli, stile, estetica, etica, scienza, filosofia, storia, politica, sociale, letteraria, narratologica, sperimentalistica... anche i più grandi in assoluto raramente hanno penetrato il legno così a lungo e in così tanti modi. dimostrando sempre preveggenza, lirismo e genio.
dopo di lui la letteratura ha disegnato fiorellini sopra la sabbia
"la grandezza di Céline è misurabile sopra tanti di quei tavoli, stile, estetica, etica, scienza, filosofia, storia, politica, sociale, letteraria, narratologica, sperimentalistica... anche i più grandi in assoluto raramente hanno penetrato il legno così a lungo e in così tanti modi. dimostrando sempre preveggenza, lirismo e genio.
dopo di lui la letteratura ha disegnato fiorellini sopra la sabbia"
@Davide
con queste parole tu mi fai piangere di commozione, lo ammetto, sai quanto io amo quell'uomo e come mi crogiolo nelle lodi nei suoi confronti...
grazie
@guignol
non ti commuovere... se devo fare un panegirico (non ne faccio mai) preferisco Céline agli ispidi personaggi che affollano l'inventario uman-culturaloide odierno. un brindisi, ci perdonerà LFC per un po' d'alcool, allo scrittore con più taglierini nella storia della letteratura in-amena.
saluti
vado un po' controcorrente. Non è che oggi si vuole troppo sventolare il vessillo di Céline? Voglio dire: secondo me Céline è stato un grandissimo narratore, uno stilista, il più grande, a mio parere, perché è riuscito a durare là dove altri alla Proust e Sartre sono sbiaditi. Inoltre Céline ha inventato una lingua. Dopo di lui solo rimasticature. Ma perché oggi dobbiamo per forza tirarlo dalla giacchetta sociologica, ideologica, psicologica? Quest'uomo devastato dalla guerra aveva "semplicemente" il DONO. Il dono di saper narrare le storie e mostrare le sue ferite quali ferite collettive. Io rileggo Morte a credito o Casse Pipe e vengo catapultato nel suo mondo... questa è magia!
Grande Davide!
E -senza entrare nel merito dell'articolo o dei vostri pareri sugli argomenti toccati- sono d'accordo con Meridiano; 9 articoli su 10 su LFC non toccano "l'arte" di Céline...
oggi ho letto le ultime 168 pagine di Normance, ne ha 268, un pomeriggio intero ed oltre assorbita del tutto, rapita dal fantastico, surreale racconto di quegli avvenimenti, descritti come sappiamo solo lui può fare...per me uno dei libri senz'altro più riusciti, anche se sembra non sia stato così ben accolto allora, nel '54; devo dire che, secondo il mio imperfettissimo giudizio, in Normance trovo quello che per me è Céline, cioè, se io penso al suo stile così personale, lo identifico con libri così e come la Trilogia, del resto, e Guignol's band. Se penso al "mio" Céline, non lo associo né al Viaggio e probabilmente né a Morte a credito, ferma restando la loro ovvia importanza; dopo questi due è andato talmente oltre con la sua scrittura...impossibile avvicinarglisi.
Io penso che tanti di quelli che dicono di conoscere Céline, se ne hanno letti due di libri, è già tanto...se qualcuno ha letto Normance, vorrei sapere che ne pensa, io l'ho apprezzato più di Pantomima, che comunque è stata una bella lettura...
ciao a tutti
mah! cara Guignol, io ho letto Normance un anno fa circa e l'ho trovato ostico. Lì la sua scrittura esplode, sono d'accordo, lì è solo Céline con il nulla intorno. Quest'ascensore, i corpi uno sull'altro, l'amico maiale e il bombardamento dopo un po' l'ho trovato faticoso. Forse quello che Normance ha dato a te, a me lo ha dato Casse-pipe, i due best e la trilogia (tranne Nord) a parte, ovviamente.
Cèline non è solo un grande artista,ma anche uomo,carne,sangue...e il post credo lo riguardi più da questo verso che dal lato artistico,di cui sappiamo ormai quasi tutto.
Nessuno vuol tirarlo per la giacchetta,ma se vien detto
"C’è in Céline la sensiblerie di un osservatore straziato, che ha sottomano la disintegrazione della civiltà europea e ne grida i misfatti.."
quale commento artistico si può fare a queste affermazioni e a tante altre simili del post?
Qui è l'uomo che vive il suo tempo non con indifferenza che parla,e se permettete,anche con una certa visione profetica.
Mi chiedo inoltre come si possa considerare solo l'arte di Cèline e non anche appunto l'uomo,pur con tutte le contraddizioni.
Se lo chiede anche Rimbotti:
"Infernale manipolatore della parola oppure sacerdote ideologico della décadence? Inventore nichilista di quadri solo letterari, oppure geniale interprete politico di una civiltà al tramonto?......
E ancora:
Ma, se vogliamo andare al fondo della sua anima, tra gli squarci e gli urli, le maledizioni e le ingiurie è possibile trovare netta e precisa un’interpretazione della storia europea. Céline è un analista del tracollo dell’Europa...., egli rappresenta al meglio la tragicità di un modo d’essere incapace di interpretare la realtà.....L’ossessione per la degenerazione psico-fisica dell’uomo occidentale diventa in Céline una sorta di manifesto bioetico...
Scusate,ma per me,oltre che un grande artista è stato anche un grande uomo,ripeto pur con tutte le sue contraddizioni,ma mai vissute con ipocrisia e doppiezza e le ha pure pagate comunque.
concordo con Johnny, Céline è un tutt'uno, ed in più credo che se si parla di tutta la fenomenologia Céliniana è perché questa esiste, come esiste lo straordinario sbarco in inghilterra in Morte a credito, l'esplosione ominide sulla navigazione per l'Africa nel Viaggio, o le spirali di satira in Da un castello all'altro. se Céline non fosse stato Tutto-Céline, anche quelle sequenze (artistiche nel senso più stretto), sarebbero state diverse perché diverso sarebbe stato il punto di vista: Cèline. ma vogliamo mettere? uno collo stesso dono letterario di Céline, con un'altra personalità, un altro "beckground", si sarebbe chiamato in un altro modo. e non avrebbe affondato come ha affondato il nostro, è sicuro.
Céline è, purtroppo o per fortuna, un modello di grandissimo uomo, uomo non retoricamente LIBERO, uno di quelli che resteranno almeno per me sempre un riferimento anche biografico, come l'altro pesante carroarmato Dostoevskij, un mito umano e letterario, un mito tutt'uno. immortali, basta così, no?
in questo caso anch'io penso proprio che bisogna prendere tutto il pacchetto: l'uomo con la sua opera, senza separarli, perchè se no non potrebbero esistere così come li abbiamo conosciuti...certo lui aveva il DONO, ma da solo non sarebbe stato sufficiente; penso che la sua personalità, la sua intelligenza e dunque il modo in cui ha condotto la sua esistenza abbiano determinato la sua arte.
Mi piacciono anche altri scrittori, ma qui con LFC c'è in ballo altro, molto di più...
CÉLINE nato il 27 maggio 1894 e mai morto.
Mettiamola così; premesso che è ovvio e giusto "prendere" Céline in blocco:
il Céline dei "pamphlet" e soprattutto delle interviste è in effetti un visionario, spesso istrionico, e spessissimo autore di lucide e dolorosamente acute analisi della realtà e del futuro; QUASI inimitabile in questo senso (però provate a leggere Bardèche, La terra promessa...): ma i romanzi di Céline SONO inimitabili! ;-)
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