sabato 11 aprile 2009

Louis-Ferdinand Céline, Gatto randagio, di Marina Alberghini, recensito su Libero



Diario dal carcere di uno scrittore randagio
Louis-Ferdinand Céline

Pubblicato il giorno: 26/03/09

9 gennaio 1946
Mia Lucette carissima, è dura avere il mondo intero contro di sé – a me, che non ho mai fatto male a una mosca, questo appare come un incubo spaventoso che non mi riguarda e tuttavia... Abbraccia i nostri amici per me e Bébert (l’amatissimo gatto di famiglia, ndr).
13 (o 20) gennaio 1946
Mia Lucette carissima sono solo molto debole per lo choc e le vertigini. Ma non soffro, sono pieno di medicine. Sono sempre con te e con Bébert e ti parlo continuamente. Sai come riesco facilmente ad astrarmi dalla vita reale. Sono così felice di saperti libera.È stato, io credo, il peggior supplizio che abbia potuto sopportare, senza nome. Ti amo talmente piccola mia che posso sopportare tutto, tutto tollerare e pazientare. Sono sempre con te. Non mi resti più che te. Ma curati, non essere troppo triste mangia bene cerca di danzare. Questo mi dà forza. Sai quanto amo quello che fai. Abbraccia Bente e madame Johansen e Bébert piccino.
6 febbraio 1946
Mia Lucette carissima, sono ritornato ieri in prigione (dall’infermeria al braccio della morte, ndr) come presentivo, ma ora sono tutto solo in cella e sto benissimo così. Mangio bene, qui mi viziano. (Céline mente per non precoccupare la moglie, ndr). Non essere triste per me questo mi fa male più di tutto il resto. Preferirei morire che saperti infelice. E poi tutto questo non potrà durare a lungo, una decisione sarà presa in un senso o nell’altro ma usciremo da questa atroce incertezza alla quale penso nessuna fibra potrebbe resistere a lungo e la mia vale già ben poco. Parlo con me stesso con te e con Bébert. Sono le brutalità che mi distruggono completamente, ho cuore e testa troppo malati ora per ritrovare il mio equilibrio come si dovrebbe. Io sono sempre con te, mia piccola cara e tu sai che per me brètone l’assente conta più del presente.
26 febbraio 1946
Mia piccola cara, mi svegliano verso le 4, le 5. Sento entrare le guardie, animarsi la prigione. Alle 5 mi alzo. Resto un po’ intontito. Mi faccio il letto e pulisco la stanza molto lentamente, tanto nessuno mi mette fretta – ho tutto il tempo che voglio – lavo per terra 2 volte la settimana, ma senza fatica. Le guardie sono molto gentili con me. Poi c’è la passeggiata fino alla mia gabbia dove sono da solo e resto 25 minuti all’aria aperta, il che è un favore, contemplo gli uccelli e il cielo e le cime degli alberi tutto lo spettacolo del mondo affascinante dei viventi. Non mi muovo molto perché sono sempre debole e soffro di leggere vertigini – ma mi lasciano libero di camminare sul mio ritmo. Finita la passeggiata torno in cella dove aspetto il pranzo. Resto con la testa fra le mani, mi trovo meglio così, penso agli affari miei e anche a pièces teatrali che faccio e disfaccio. Tu sai come mi sia facile entrare in uno stato semisonnambolico non troppo doloroso e anzi piacevole nello stato in cui mi trovo. Mi curano benissimo, mi danno un calmante la mattina, della paraffina e dei semi di lino. Arriva il pranzo curatissimo e copiosissimo. Dopo pranzo mi va, se non ho troppo mal di testa, lavoro alla storia delle nostre disgrazie che sto scrivendo. Ecco ben presto la cena ancora più ricca verso le 6. Là dopo 2 ore, assai penose – ma lo sono veramente la malinconia del giorno mi casca addosso. Ma posso ancora fuggire dal mio stato «secondo» se si può definirlo così e leggere e scrivere un poco. Otto ore la giornata è passata e si va a letto dopo un altro calmante paraffina e seme di lino. La prigione è un luogo sacro le cui regole sono misteriose e implacabili.
30 marzo 1946
Mia piccola diletta bambina, presto la luce del lunedì (il giorno di visita di Lucette, ndr) e poi la notte di sette giorni! So che di tutto questo tu soffri più di me, mio tesoro. Io soffro, io, di saperti tanto sola, così desolata, là a poca distanza dalla mia prigione. Non oso chiedermi che ne sarà di te. Sarebbe troppo angoscioso, immobilizzato come sono. La tortura vedi non è tanto la prigione (che già basterebbe da sola) quanto l’incertezza del tempo del supplizio. Ci si prepara, si programma una certa resistenza per un tempo definito. È inumano chiederci l’infinito, e restare nel vago che per un prigioniero è l’infinito. Mi hanno detto tre settimane, sono già tre mesi. E ora tre anni? Trent’anni! Questo non ha senso. Io non sono impaziente, mia cara, ma ho un’età, ecco tutto. Non sono sicuro di durare a lungo, perché servire da giocattolo ai maniaci e ai cavillatori? Non sono ancora alla fine, mia cara piccolina. Non crederlo. Non prendere sul tragico tutto ciò che ti scrivo. Mi fa bene scriverti quello che penso. Non chiederei di meglio che pensare a qualche altra cosa, ma le sbarre sono là e le chiavi. Gli esseri umani così futili e smemorati finora non hanno realizzato che una sola stabilità sociale: la Prigione. Sono sempre vicino al tuo cuore.
Aprile 1946 s.d.
Si deve arrivare al misticismo come gli anacoreti nel deserto – una dolce idea fissa – l’infinito a due e Bébert. Si è così molto felici – nessuno vi secca più – si soffre a riattaccarsi al mondo, personalmente io sono già morto. Non piangere per noi, niente può essere peggio di così! È finita ormai noi siamo dei gentili morti molto affettuosi – Tu verrai a trovarmi al Père Lachaise – Io sarò sempre con te. Ho talmente sofferto l’esilio, che la morte là sotto mi sarà assai dolce. Mai più si deve essere tristi ma anzi ridere – come un tempo i monaci – è una fede che ci vuole ecco tutto. E tu l’hai. – il martirio è un piacere, una volta che si è disprezzato a fondo il boia.
Dopo la lettera precedente, nella quale è evidente che Céline si sta preparando alla morte, Lucette, per rianimarlo, riesce a portargli di nascosto nell’infermeria, nella quale lo scrittore viene ricoverato periodicamente, il gatto Bébert chiuso in una borsa.
9-15 aprile 1946
Che gioia ho provato a rivedere il mio Bébert, con la sua faccetta da farfalla sempre tanto graziosa! e come è stato gentile! Quanto lo amo.
Quanto Bébert è gentile e intelligente! Lui capisce benissimo la situazione...
6 settembre 1946
Mia piccola cara, eccoci tornati sull’abisso. Pare che non ci sia niente da fare. Non piangere. Anzi, stai su con la vita. Non ricadere nella disperazione di prima. Che aggiunge angoscia alla mia angoscia. Tutti i sadismi sono scatenati, imbacuccati in alibi eccellenti, patriottici ecc... Che vuoi farci? Noi si è fatto il possibile. E allora, come la bestia troppo braccata... si comincia a chiedere il colpo di grazia. Tutto qui. Sono anni ormai che la mia non è più una vita. Ogni giorno ogni settimana è un surplus di orrore o di pena. È un calvario interminabile, in cui decado progressivamente. Allora, tanto peggio! ... io non soffro, ma sono troppo sensibile, troppo malandato ora, per sopportare questi colpi, troppo vecchio anche. Come ho saccheggiato la tua vita! Quanto mi pento di avere sconquassato, per i miei eccessi, tanti focolari, tanta brava gente, tanti affetti Sono stato stupido e vigliacco. Avrei dovuto sparire prima. Essere solo io a pagare per i miei errori. E invece ti ho trascinata in tutto questo, povero tenero innocente tesoro. Che bruto! Penso a te e al nostro povero passato – Saint-Malo – Scavo il passato nella cenere calda. La vera vita, ha detto Renan, la vera esistenza, dopo tutto, non è che quella che continua nel cuore di coloro che ci amano. Allora, vedi, se si va al peggio, il che è assai probabile, per come stanno andando le cose, non bisogna piangere. Io sarò sempre una piccola parte che vivrà in te, ecco tutto. Che può, contro questo, l’infinita crudeltà degli uomini? Niente di niente. Contro questo, essi sono disarmati! E poi, saremo giunti alla fine delle pene. È questo che conta. Io non sono sempre stato affettuoso con te quanto meritavi ma, sai, io vivo da tanto tempo nell’angoscia. Veramente, anzi, io non vivo più, sono come intronato dalla brutalità del mondo. Mi ci sono buttato dentro come affascinato dall’abisso – e l’abisso mi ha inghiottito – è normale – è la vertigine. [...] Io non soffro. Non penso che a te.


a cura di Marina Alberghini

5 commenti:

Anonimo ha detto...

queste lettere non lasciano davvero scampo all'umanità, non possono non indurci a pensare a quanto facciano schifo gli esseri umani! certo L.F.Celine non è il primo uomo sulla terra ad aver subito delle ingiustizie, né probabilemente è stato quello che ha pagato di più di tutti ma fa egualmente orrore pensare che questo scrittore (per me, accomunabile solo a Omero, Dante, Ariosto e Baudelaire) non abbia davvero fatto male ad una mosca e si sia ritrovato a patire le pene dell'inferno solo e soltanto perché capace di un talento immaginativo creativo fuori dalla comune umana portata. e soprattutto dalla portata di altri scrittori e 'intellettualoidi' del suo tempo...
che cosa doveva pensare dell'uomo, della vita, del mondo una persona già carica sin dalla più tenera età delle brutture dell'esistenza, del bassofondo degli uomini? che cosa doveva fare uno che era tanto intelligente da rendersi conto che era assurdo risolvere la misera condizione umana con stupide e ottuse speculazioni filosofiche come l'amico Sartre, che cosa doveva fare l'uomo che ha guardato la vita dal di dentro, dall'abiezione, dalla verità, da quel profondo che gli fece dire ''la vita è un cazzo fritto!"? e allora davanti a ciò si capisce che uno scrittore così lucido come Celine non avrebbe mai scritto panzane, non avrebbe mai ''fatto ridare i conti'' perché i conti non ci ridanno... non avrebbe costruito le sue opere '' sul solipsismo in sé che è esserci nel mondo, che è sé per sé e sé al quadrato..." non avrebbe costruito parti dove l'io lirico era ''bocciolo'' era ''chiaro'' poi ''chiaro scuro''... e altre baggianate di egual taglio.
non sarebbe insomma andato a genio a chi crede la letteratura un gioco combinatorio dove tutto il materiale DEVE essere letterabile.
non sarebbe andato a genio a chi crede nell fregnacce degli ideali, della politica, della lotta di tanti spiriti eletti contro il potere.
Celine era d'altra tempra, era consapevole di tutta la follia e di tutta l'inutilità che gli stava attorno. ed era disilluso perché non c'è niente da aspettarsi dal nulla e dagli uomini.
Celine sapeva che la grande ispiratrice è la morte, che si doveva partire da lì per ricomprare la vita, si doveva fare la musica, il sangue, era scrittore di pancia, ma sapeva che la pancia mal si addice spesso col suono, il ritmo. gli piaceva forzare le parole a Celine, era un tecnico della scrittura, un tecnico del cuore, della resa, dell'emozione. e per questo ha pagato, perché era il più grande in assoluto e gli altri leccavano le suole...in effetti nel 1932 atterrò a Parigi una grande astronave e gli uomini credettero bene di fare tutto ciò che fosse in loro potere per nasconderla e distruggerla!
e hanno fallito pure in questo perché l'astronave c'aveva palle da vendere!

Andrea Lombardi ha detto...

Grazie del bellissimo commento, sono felice di avervi messo a disposizione questo spazio per poter comunicare anche i vostri sentimenti verso il "nostro" LFC.

Grazie ancora,

Andrea

Anonimo ha detto...

Siamo noi che dobbiamo ringraziarti del sito sempre superaggiornato e interessante. scrivere il commento sul Nostro è stato un piacere, una rabbia da urlare contro chi ancora non capisce un fico secco di letteratura... e di vita. quindi grazie per lo spazio che ci dai e le notizie che ci regali.
ti ringrazio anche per l'altra risposta sulla biografia della Alberghini e l'edizione Mursia
(che mi sembra imperdibile).
un saluto
Davide

Anonimo ha detto...

e gia'..
astrarsi dalla realta'..
perche' rimanerne intrappolati quando il nostro destino non appartiene a questa terra?

Anonimo ha detto...

mi verrebbe da urlare bestemmiare e astrarmi in maniera definitiva..
bel blog comunque.