Nell’occasione
della recente riedizione rivista e ampliata del suo libro Céline e la
Germania per la Société des Lecteurs de Céline – la nuova
documentazione sarà prossimamente pubblicata in Italia a cura del céliniano
Andrea Lombardi – Marc Laudelout, editore del “Bulletin célinien”, ha
incontrato il filosofo, saggista e giornalista Alain de Benoist, che è anche un
céliniano di vaglia, come prova la sua notevole bibliografia su un soggetto che
studia da decenni.
A che età ha letto Céline per la prima volta, e di che libro si trattava? Rammenta l’impressione che le diede la scoperta di questo scrittore?
Ho scoperto Viaggio al termine della notte all’età di sedici anni e mezzo. Le mie agende, che ho fatto digitalizzare, mi permettono di darle anche la data precisa: il 6 e 7 luglio 1960 (avevo dedicato i due giorni precedenti alla lettura de I Proscritti di Ernst von Salomon!). Inizialmente la mia reazione era stata di stupore, la sensazione di trovarmi davanti a un oggetto letterario non identificato. Non avevo mai letto niente del genere, ma presentivo che si trattava di una rivelazione importante, senza dubbio di importanza capitale. C’erano sicuramente lo stile, la lingua, la petite musique, ma anche l’atmosfera e quello che si può senz’altro definire la visione del mondo. Qualche settimana dopo, Morte a credito mi convinse definitivamente, ancor più che il Viaggio, potrei dire. D’altra parte, non mi sono mai definito un “céliniano”, ma di fatto mi occupo di Céline da ormai sessantacinque anni.
Nel 1993 è stato così cortese da rispondere a un questionario inviato ai lettori del “Bulletin célinien”. Alla domanda “Secondo lei, cosa fa di Céline un grande scrittore? Cosa vi piace di più in lui?”, avevate risposto così: “Oltre ai suoi contributi alla lingua francese, amo il suo lato visionario, il suo modo d’andare all’essenziale – seppur per vie traverse”. In che modo Céline è secondo lei uno scrittore visionario?
Ho l’impressione che Céline abbia previsto tutto quello che oggi vediamo accadere attorno a noi. La grande dissoluzione, la grande decostruzione, il precipitare nell’abisso, il caos crescente. “Previsto” è forse un termine troppo forte. Diciamo “percepito” o “fiutato”… Diciamo che Céline non sarebbe rimasto stupito della china che abbiamo preso. Ancor meno dal momento che verso la fine della sua vita aveva l’abitudine di prevedere il peggio. Si potrebbe dire che giocava facile (le Cassandre sono sempre a buon mercato). Ma l’ottimismo infantilmente entusiasta lo è ancora di più.
Nello
stesso questionario rispondeva che “sull’uomo, sono invece dello stesso
avviso di Bardèche (horresco referens!)”. Ci può spiegare meglio il suo
punto di vista?
Ci sono degli aspetti di Céline che non mi piacciono. La sua ossessione per il denaro, il suo perenne piagnucolare, i suoi giudizi ingenerosi su coloro che avevano pagato il loro impegno [nella Collaborazione] in modo ben più tragico che nel suo caso, il suo gusto per l’insulto (anche se la sua corrispondenza con Gaston Gallimard almeno muove spesso al riso). Si può benissimo giustificarlo sinché si vuole. Ma è una questione di carattere: i rancorosi perenni mi stancano velocemente. Preferisco mantenermi su una linea più sobria: never complain, never explain.
Lei ha scritto una importante bibliografia, primaria e secondaria, di Céline. Cosa avete appreso da questo lavoro per quanto concerne l’evoluzione della ricezione critica della sua opera in Francia e nel mondo? Le sembra che vi sia stato negli ultimi anni un certo riflusso nelle tesi universitarie dedicate a Céline?
Sì, da qualche anno è evidente un riflusso in materia di lavori accademici universitari, quantomeno in Francia. Dal 2022 ho rilevato solo tre tesi o studi su Céline: una in Québec, una a Lille (ma redatta in lingua inglese) e una in Brasile. Ma anche se la mia lista fosse incompleta, il contrasto con gli anni 1990, dove si contavano per ogni anno una ventina abbondante di lavori universitari su Céline, è impressionante. Il fenomeno non si spiega con un effetto di saturazione, ma per un inasprimento del sistema della censura (e della autocensura): scegliere di dedicare una tesi di dottorato a Céline equivale oggi a rischiare conseguenze pesanti sulla propria futura carriera. Interessarsi a Céline è sospetto, è “significativo”, è “poco chiaro”. Meglio lavorare sul “punto e virgola come operatore e simbolo della transessualità” in Judith Butler [filosofa post-strutturalista, specialista in femminismo e teoria queer americana]! Dal punto di vista dell’ideologia woke e della teoria di genere, Céline tocca tutti i casi che è meglio non toccare… Tuttavia, per quanto riguarda i libri, non si nota alcun riflusso: 16 titoli nel 2021, 20 nel 2022, 15 nel 2023, 17 nel 2024. Se si aggiungono anche le pubblicazioni annesse, possiamo constatare che annualmente esce ogni mese più di un libro nuovo su Céline. E comunque, le tesi e studi su Céline hanno superato la quota di 800.
Si dice che lei possieda la più vasta biblioteca privata di Francia [tra i 150.000 e i 200.000 volumi]. Vi sono anche tutte le opere su Céline, in ogni lingua? O fa una selezione? È indiscreto chiederle cosa accadrà alla sua biblioteca quando non sarà più tra noi?
La mia biblioteca céliniana, che occupa una intera grande parete di casa mia, è più quella di un bibliomane collezionista che di un bibliofilo. Dopo di me, tutto sarà probabilmente venduto, e quindi disperso. Ci sarebbe un libro tutto da scrivere sul destino delle biblioteche degli scrittori…
A parte le biografie, quali sono i libri su Céline che considerate importanti o originali?
I libri su Céline possono essere raggruppati in quattro o cinque categorie principali: le grandi biografie (François Gibault, Henri Godard), le testimonianze, gli studi prettamente stilistici o letterari, i saggi su Céline e la letteratura célinofoba (in totale più di 650 titoli!). Nelle prime quattro, si trova un po’ di tutto. Mi trovo a mal partito nel fare una classifica dei migliori, ma in questi ultimi anni ho molto apprezzato il libro su Véronique Chovin su Lucette, quello di Yannick Gomez su Céline e Beethoven, quello di Gaël Richard su Céline in Bretagna, il Avez-vous lu Céline? di David Alliot e Éric Mazet [risposta al controverso Céline, la race, le Juif di Pierre-André Taguieff e Annick Duraffour], per citare qualche esempio. È poi ovviamente indispensabile la lettura de “L’Année Céline”. Mi ha poi molto colpito il libro di Jean Monnier su Elizabeth Craig. Attraverso la narrazione di questa avventura amorosa ben conosciuta da tutti i lettori di Céline, ritrovo il Céline che preferisco, quello che amava le donne, la musica e i gatti e la “gente da poco”. Inoltre, ammiro molto tutto quello che fa in Italia Andrea Lombardi.
Contrariamente a molti ex combattenti della guerra 1914-1918 Céline denunciò nel dopoguerra la germanofobia la quale, secondo lui, avrebbe potuto suscitare un nuovo conflitto giudicato fratricida da un verso, e contro natura dall’altro. D’altra parte, era evidente che a Céline non piacessero molto i tedeschi, come aveva ben osservato Karl Epting. Come spiegare questo apparente paradosso?
Il paradosso è, in effetti, solo apparente. Tra le due guerre si poteva benissimo non amare i tedeschi, soprattutto quando li si aveva combattuti nella Prima guerra mondiale, e allo stesso tempo rifiutarsi di lanciarsi a causa della germanofobia in una nuova guerra, le cui conseguenze avrebbero rischiato di essere ancor più terribili della precedente.
In un appassionante articolo su “I paradossi della Collaborazione” (“Éléments”, marzo 2001), lei ricorda come le autorità del III Reich non hanno gran che favorito la traduzione in tedesco dei principali scrittori fascisti francesi, come Brasillach, Drieu la Rochelle e Rebatet e lo stesso Céline fu osteggiato da Bernhard Payr, direttore dell’Amt Schrifftum (Ufficio per la sorveglianza sui libri pubblicati in Germania e nelle nazioni occupate) alle dipendenze di Alfred Rosenberg, perché il suo Viaggio al termine della notte fu visto come “pacifista e nichilista” e posto nel 1935 assieme a Morte a credito tra i libri proibiti in Germania, i suoi pamphlet “isterici e di una volgarità inaccettabile” e la traduzione tedesca di Bagatelle per un massacro fu di conseguenza edita pesantemente censurata, tagliata e da una casa editrice minore. Preso atto della critica di Bernhard Payr si comprende il perché Céline sia stato poco tradotto dai tedeschi durante il Nazismo, ma come si spiega questo disinteresse per gli altri scrittori francesi citati?
Sui 235 libri di autori di lingua francese tradotti in Germania sotto il III Reich tra il 1933 e il 1939, notiamo in effetti che non vi figuri alcun “fascista”, con la sola eccezione di Brasillach e di Alphonse de Châteaubriant. L’autore francese più tradotto fu Jean Giono (12 prime traduzioni), seguiti da Octave Aubry, Guy de Pourtalès, Saint-Exupéry e Jules Romains. Sotto l’Occupazione vi sono anche delle traduzioni di Benoist-Méchin, Georges Blond, Alfred Fabre-Luce e Bertrand de Jouvenel. Ma, per esempio, non fu tradotto nessun libro di Drieu la Rochelle o di Rebatet! Questo fatto, poco noto, trova a mio parere una spiegazione per una mancanza d’interesse per l’opera politica degli autori della Collaborazione, ragione per la quale a essere proposte al pubblico tedesco furono piuttosto le loro opere storiche o letterarie. È parimenti significativo che non furono tradotti neanche i pamphlet antiebraici degli antisemiti francesi. Chiaramente, tutto ciò era ritenuto di scarso interesse.
Quali sono gli scrittori francesi del XX secolo che hanno avuto secondo lei una importanza paragonabile a quella di Céline?
Non ne vedo che tre: Proust, Montherlant (che Céline detestava) e Paul Morand.
Intervista
di Marc Laudelout, “Le Bulletin célinien” n° 485, giugno 2025. Traduzione di
Andrea Lombardi
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Dopo
Guerra, primo degli inediti céliniani ritrovati fortunosamente nel 2021
e pubblicato da Adelphi in edizione italiana nel 2023, il 16 settembre prossimo
uscirà per lo stesso editore l’attesa traduzione del manoscritto Londres
(Londra, traduzione di Ottavio Fatica e curatela editoriale di Ena
Marchi, a cura di Régis Tettamanzi, 504 pagg.), nelle intenzioni di Céline
seguito di Guerre – da una lettera di Céline a Eugène Dabit del 14
luglio 1934: “A proposito farò uscire un primo libro tra un anno, è deciso – Enfance,
La guerre, Londres”. Come notato dal professor Jacques Joset in I
tesori ritrovati di Louis-Ferdinand Céline (a cura di Andrea Lombardi,
Eclettica 2024): «Mentre Guerre è un testo piuttosto breve, Londres
è un’altra di quelle “grosse macchine romanzesche come il Viaggio al termine
della notte o Morte a credito” di cui parla Pascal Fouché. 493
pagine in cui si moltiplicano trame, peripezie e colpi di scena dove palpitano
la vita e la morte di un proliferarsi di personaggi.
Il romanzo è diviso in tre parti
indicate nel manoscritto. Londres I e la prima metà di Londres II
sono del gran Céline, degni di Viaggio, Morte a credito e Guignol’s
band. La seconda metà di Londres II e tutta Londres III
sembrano uscire dalla penna di un autore stanco e che quindi affatica un po’ il
lettore.
Quest’impressione
soggettiva viene corroborata da Régis Tettamanzi che ha curato l’edizione per
la collana Blanche di Gallimard: “Londres I è più rielaborato di Londres
II e III” e si può quindi ipotizzare che la scrittura di Morte a
credito gli abbia richiesto tanti sforzi che alla fine “abbia lasciato gli
altri manoscritti così com’erano, di sicuro nel loro primo stato redazionale”.
Resta il fatto che così come sono, più o meno rilavorati, le parti II e III
siano segnate dalla zampata di un Céline certo frettoloso ma sempre più
talentuoso degli scrittori contemporanei, ben al di sopra per esempio di quel
Guy Mazeline che gli aveva soffiato il premio Goncourt del 1932, e quantomeno
dello stesso valore letterario de La nausea (1938) di Jean-Paul Sartre,
che mettendo in esergo una citazione de L’Église di Céline, non sembra
imbarazzato dagli elementi antisemiti di questa pièce teatrale.
Dagli inizi degli anni ‘30, Céline
aveva previsto di scrivere le sue esperienze londinesi del 1915-1916. Per
farlo, si baserà sui suoi ricordi, ma anche su alcuni informatori: il suo amico
Georges Geoffroy, Joseph Garcin (che diverrà il Cantaloup di Londres e
il Cascade di Guignol’s band), Jean Cive, un ex delinquente e John
Marks, suo traduttore inglese.
Nel
pamphlet antisovietico Mea culpa (1936) viene annunciata la
pubblicazione di Honny soit che probabilmente è da mettere in relazione
con Londres.
Il
narratore, Ferdinand, arriva quindi a Londra nel 1915 e frequenta
immediatamente l’ambiente malfamato del quartiere a luci rosse di Leicester. La
data corrisponde a quella reale dell’inizio del soggiorno londinese di Louis
Destouches nel maggio 1915 e durerà esattamente un anno. Viene assegnato al
servizio passaporti del Consolato generale di Francia, a Bedford Square. “È
probabilmente il periodo meno documentato della vita di Céline”, scrive
François Gibault. Forse ha frequentato il milieu malavitoso, ma di
sicuro con Georges Geoffroy, con il quale stringe amicizia, frequenta i bar, i
music hall, i teatri e gli “spettacoli osé dell’Empire Theater” in cui si
svolgono i peggiori traffici, dalla prostituzione alla droga. Ma quello che
Ferdinand, come Louis Destouches, adora di più, sono le ballerine. Più tardi,
Céline fu l’amante di molte altre di loro, e in particolare di Elizabeth Craig,
la donna della sua vita, a cui è dedicato Viaggio al termine della notte.
Ne sposò un’altra, Lucette Almansor, nel febbraio 1943.
In Londres viene evocato un
matrimonio che assomiglia a quello di Louis Destouches con Suzanne Nebout, una
entraîneuse da bar, il 19 gennaio 1916.
Nel romanzo, Ferdinand è il complice
dello sfruttatore di prostitute Cantaloup ma soprattutto percorre la capitale
inglese da nord a sud e da est a ovest cercando di evitare la polizia, in
quanto disertore. Ma non è l’unico a temere di essere fucilato o di essere
rispedito nelle Fiandre, sul campo di battaglia: tutti gli uomini
dell’entourage di Cantaloup condividono questa paura. Ferdinand rivede Angèle,
spesso in assenza del maggiore Purcell (in gran parte del tempo in missione
nelle Fiandre o nella sua fabbrica di maschere a gas). Divenuta ricca grazie a
lui, provvede ai bisogni di Ferdinand che si diverte con le prostitute di
Cantaloup. Conosce Borokrom, vecchio anarchico disilluso, impresentabile,
ubriacone, erotomane, pianista cacciato dappertutto, che accompagnerà Ferdinand
nelle sue deambulazioni londinesi. Si recano regolarmente all’Empire Theater
dove una famiglia di giocolieri di sciabole, coltelli e revolver, padre, madre
e le figlie, esegue il proprio numero. Le scene si susseguono sino a quando
emergerà quella dove in un giro in un bar dei dock, Bijou, uno dei duri della
banda si lancia in una dimostrazione di danza che finisce in una rissa a
coltellate durante la quale Ferdinand viene tramortito da un formaggio olandese
lanciato da Borokrom e Bijou viene gravemente ferito. Dopo una corsa su di un
carretto e una nuova rissa tra Borokrom e un capo stazione, i compari vengono
medicati e accolti da un povero medico ebreo, Yugenbitz, che ricuce alla meglio
Bijou. Il nome di Yugenbitz è Athanase, come quello del Dottor Follet che
incoraggerà la vocazione medica di Louis Destouches e diventerà suo suocero nel
1919. La personalità di questo ebreo meraviglierà parecchi: «Beveva acqua,
fumava mica, mangiava ancora meno di noi» (Londres, p. 149), come Céline
stesso e come il Dottor Destouches a Meudon “faceva mica più di quattro visite
mediche […] e tutti non pagavano.” (p. 150). Anzi, si concentra su Ferdinand in
quanto individuo: “Comunque non ero mai stato lusingato da nessuno prima d’ora,
la prima lusinga che ho ricevuto è quella del sig. Yugenbitz. Gli avrei leccato
le mani, sarei morto sul posto io per questo povero coglione ebreo” (p. 153). E
Yugenbitz fa di lui il suo assistente e gli instilla il desiderio di essere
medico: “Avrei voluto, credo, guarire tutte le malattie degli uomini, che non
soffrano mai più ste carogne” (p. 160). Insomma, il Dott. Yugenbitz è bontà
pura e semplice e Ferdinand gli deve la rivelazione della sua vocazione medica,
prima ancora di quella letteraria. Probabilmente, il Dott. Yugenbitz fa parte
di quegli ebrei che fuggivano dai pogrom dell’Europa centrale e si stabilivano
nell’East End dove vivevano nella più grande precarietà. Nella descrizione del
quartiere, l’antisemitismo sembra cedere il posto alla contrapposizione tra i
ricchi e i poveri, i benestanti e i miserabili. Ebrei e non ebrei sono
imparentati nella disgrazia».
Andrea Lombardi